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Non basta la grinta per avere successo

John Lund, Getty Images

Contrariamente a quanto credono in tanti, e a vari post di Facebook che dovrebbero servire a motivarci, Winston Churchill non ha detto “Non arrendetevi mai, mai, mai!”. Quel paffuto eroe di guerra e pittore di acquerelli dilettante aveva i suoi difetti, ma non era un idiota. Infatti, spiegava, a volte bisogna “cedere all’onore e al buon senso”.

Probabilmente, quindi, sarebbe stato d’accordo con uno studio pubblicato di recente dal Journal of Research in Personality, sui lati negativi della tanto apprezzata grinta. Secondo i suoi fan, la tenacia e l’adattabilità, soprattutto a scuola, offrono una maggiore garanzia di successo rispetto al talento o al quoziente di intelligenza.

Ma i ricercatori della University of Southern California guidati da Gale Lucas hanno scoperto che è più probabile che le persone tenaci provino a risolvere problemi difficili, se non addirittura insolubili, anche quando questo comporta un punteggio finale più basso o meno possibilità di ricevere una ricompensa in denaro. Sembra che perdano la capacità di distinguere tra quello per cui vale la pena di lottare e quello che è più saggio evitare.

Per essere felici e avere successo nella vita bisogna affrontare alcuni compiti sgradevoli, ma questo non significa che tutti i compiti sgradevoli siano garanzia di felicità e di successo. Anche i cavalleggeri che parteciparono alla carica dei seicento erano molto determinati, ma persero comunque la battaglia di Balaklava.

I tratti del carattere ‘negativi’ non sono poi del tutto negativi

Niente di tutto questo dovrebbe sorprenderci, se non altro perché di questi tempi “il tratto della personalità che dovremmo possedere” – e dovremmo far sviluppare ai nostri figli – sembra cambiare di stagione in stagione come le mode nell’abbigliamento. Un anno l’empatia è la risposta a tutto, l’anno dopo è la consapevolezza, adesso è la grinta.

Ma l’empatia, come sostiene il cognitivista Paul Bloom, non è un criterio affidabile: ci spinge a concentrarci sugli individui, e sulle persone vicine a noi, piuttosto che a cercare di cambiare il sistema, o a nutrire gli affamati che ci stanno lontani. La consapevolezza, da parte sua, è utile solo per sviluppare certe capacità: di sicuro non vogliamo essere troppo consapevoli su come guidiamo la macchina. La curiosità, portata agli estremi, fa di noi dei dilettanti scervellati. E così via.

Segnali da non sottovalutare

Inoltre, l’insistenza su un unico tratto della personalità come panacea universale crea altri problemi. L’eccessiva esaltazione della grinta, dicono alcuni critici, rischia di far pensare che ai bambini poveri basti lavorare sodo per compensare il loro svantaggio, quando in realtà avrebbero bisogno di non partire con lo svantaggio della povertà.

Il rovescio di queste considerazioni è che i tratti del carattere “negativi” non sono poi del tutto negativi. Un buon esempio è quello della depressione. Non la augureremmo a nessuno, ed era tempo che si cominciasse a vederla come una questione di chimica del cervello e non di debolezza morale. Ma, come scrive lo junghiano James Hollis nel suo libro Swamplands of the soul, questo non significa che alcune forme di depressione non possano essere interpretate come segnali del fatto che qualcosa non va, e che forse bisognerebbe rivedere il modo in cui è impostata la nostra vita. I sintomi psicologici possono essere gli agenti catalizzatori del cambiamento. Mentre ci chiediamo come liberarcene, consiglia Hollis, non dimentichiamo di chiederci anche: “Perché sono scattati?”.

Comunque, non sarebbe strano se un’unica caratteristica fosse una garanzia di successo? O se fenomeni come la depressione non avessero mai uno scopo? Prima di partire alla ricerca di quale potrebbe essere il tratto della personalità ideale, forse sarebbe meglio ascoltare il consiglio di Churchill, cedere al buon senso, e rinunciare.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

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