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La guerra in Afghanistan era persa in partenza

Un soldato statunitense a Sabari, nella provincia di Khost, Afghanistan, 26 dicembre 2008. (Jonathan Saruk, Getty Images)

L’esercito statunitense si sta ritirando dall’Afghanistan mentre i taliban conquistano terreno. Il 6 luglio le truppe americane hanno lasciato la loro base aerea di Bagram, vicino a Kabul, nel cuore della notte, senza informare gli alleati afgani. La cosa strana, in questa cupa fase finale della guerra, è che tutto era prevedibile fin dall’inizio. Eppure delle convinzioni false hanno alimentato un’iniziativa che è costata un numero incalcolabile di vite umane e centinaia di miliardi di dollari, lasciando l’Afghanistan in condizioni peggiori di quelle in cui era prima. E bisogna capire perché è successo.

Gli Stati Uniti e i loro alleati dovevano rispondere con la forza a un regime che aveva direttamente o indirettamente permesso gli attentati dell’11 settembre. Ma un’operazione d’intelligence militare condotta contro i responsabili degli attacchi alle torri gemelle e i loro complici sarebbe servita a fare giustizia e a vendicare meglio un’invasione. Invece l’amministrazione Bush scelse una colossale ristrutturazione militare e politica del paese. E fu sostenuta in questo compito disperato dall’establishment politico e dell’informazione. Per alcuni mesi sembrò che tutto andasse bene. Chi voleva rovesciare i taliban si sentì vendicato quando a Kabul folle danzanti accolsero i liberatori occidentali. Ma chi conosceva bene l’Afghanistan sapeva che anche i taliban erano stati accolti come liberatori in molte parti del paese, soprattutto nel sud, dove vive la maggioranza dei pashtun.

I taliban erano emersi a metà degli anni novanta per liberare il paese dai signori della guerra, molti dei quali erano trafficanti d’oppio. Nel 2001 molti afgani si erano ormai stancati della brutalità dei taliban, soprattutto a Kabul, dove le persone erano mediamente più libere e istruite grazie alle riforme del regime sovietico negli anni ottanta. Le donne nella capitale e nelle province dominate da minoranze etniche disprezzavano le imposizioni sul modo di vestire e di comportarsi volute dai taliban. Queste rigide norme sociali, tuttavia, non erano una novità per le donne delle zone rurali pashtun. Anche quando i taliban si sono disgregati nel 2001, la presenza del gruppo nella società rurale afgana e il suo ruolo nel futuro politico del paese erano scontati.

Quasi tutti i pachistani e gli afgani che stimo erano convinti che gli Stati Uniti avrebbero fallito. I diplomatici, militari e giornalisti occidentali invece no

Non c’era bisogno di invocare il cliché dell’Afghanistan come cimitero degli imperi per capire che i taliban erano una forza resiliente e mutevole. Traevano la loro forza dalla zona rurale pashtun, oltre che dai simpatizzanti di quell’etnia e dagli ufficiali dell’esercito e dei servizi segreti in Pakistan, che vedevano nei taliban un argine contro l’influenza occidentale e indiana in Afghanistan.

Nei primi anni duemila quasi tutti i pachistani e gli afgani che stimo erano convinti che gli Stati Uniti avrebbero fallito. I diplomatici, i militari e i giornalisti occidentali tuttavia erano convinti che il sostegno militare ed economico dell’occidente avrebbe aiutato Washington a rendere l’Afghanistan una democrazia moderna. L’Unione Sovietica a Kabul aveva brutalmente cercato di modernizzare e centralizzare un paese con molte comunità linguistiche ed etniche povere che vivevano in aree remote. Perché gli Stati Uniti avrebbero dovuto avere successo dove i comunisti avevano fallito? Come avrebbero potuto i loro alleati, tra i quali ci sono sempre stati alcuni degli uomini più malvagi e corrotti dell’Afghanistan, contribuire a costruire la democrazia e proteggere i diritti delle donne?

Quello che mi colpì allora fu il fatto che poche persone ponevano queste domande a chi voleva riformare lo stato. Le rare voci afgane che si sentivano provenivano quasi tutte da un’élite che si sforzava di prendere il posto dei taliban. I giornalisti afgani, che oggi sono numerosi, erano sconosciuti. Ce n’erano alcuni bravi a Peshawar. Ma la loro convinzione che gli Stati Uniti non avevano altra scelta se non quella di negoziare con i taliban non veniva ascoltata. Quando scrivevo per i periodici statunitensi mi sentivo sollecitato a non discostarmi troppo dal consenso nazionale (a cui all’inizio aderirono anche riviste di sinistra come The Nation) a favore dell’invasione dell’Afghanistan.

È per questo che quella guerra appare oggi, più di tutto, un enorme disastro culturale, un fallimento nel riconoscere una realtà complessa. Un fallimento che ha prodotto tutti gli altri fallimenti – diplomatici, militari e politici – tanto in Iraq quanto in Afghanistan. Probabilmente è troppo ottimista immaginare che questi disastri, il cui prezzo è stato spaventoso, avrebbero potuto essere evitati da opinioni meno conformiste e da un’apertura alle ragioni di chi era contrario, compresi gli afgani. Tuttavia si può trarre una lezione dalla sconfitta degli Stati Uniti: la diversità intellettuale, spesso presentata come un imperativo morale, è anche una necessità pratica. Specialmente se in futuro gli Stati Uniti vorranno evitare errori peggiori nella loro politica estera.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul numero 1418 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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