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L’identità non esiste ma il potere la usa

Alma Haser, Getty Images

Anche se la metafisica contemporanea si è lasciata alle spalle il dibattito scolastico sui princìpi universali, ancora presente all’epoca dello strutturalismo francese, numerosi sofismi di quella disputa stanno riaffiorando oggi con una nuova intensità nei discorsi sull’identità: nazionale, sessuale, di genere, razziale eccetera. L’inflazione della retorica identitaria durante il secolo scorso ci ha portati a un bivio, in cui convergono sia le nuove forme assunte dall’egemonia sia le possibilità d’espressione degli antagonismi.

Ecco il primo paradosso: pur provenendo da processi di decolonizzazione e depatriarcalizzazione, i movimenti per l’emancipazione delle minoranze (razziali, di genere, sessuali eccetera) hanno finito per cristallizzarsi in politiche identitarie. Anziché smantellare i regimi di oppressione razziale, sessuale o di genere, le politiche identitarie hanno rinaturalizzato e addirittura intensificato le differenze, al punto tale da trasformarle in importanti temi politici. Il linguaggio contemporaneo dell’intersezionalità, insistendo sulla costruzione di relazioni tra identità precedentemente segmentate (sesso, razza, classe, genere, sessualità, disabilità), diventa soltanto un miraggio metodologico davanti all’impossibilità di articolare una filosofia politica non essenzialista capace di pensare la trasversalità con cui i rapporti di potere producono le differenze e le mettono in contrapposizione tra loro.

D’altra parte il processo di controrivoluzione, cominciato con l’estensione del neoliberismo e dopo aver assunto la sua forma definitiva a partire dalla crisi economica del 2008 e dai conseguenti fallimenti democratici, si sta riappropriando in modo reattivo dei linguaggi identitari, basando sull’essenza “nazionale”, “eterosessuale”, “europea”, “bianca”, “cristiana” nuovi processi di esclusione e purificazione sociale. In questo contesto neoconservatore di esaltazione dei linguaggi naturalisti, populisti e nazionalisti patriarco-coloniali, è importantissimo riconsiderare la possibilità di prendere sul serio (ormai in una rilettura transfemminista e anticoloniale) quello che potremmo definire come l’empirismo politico radicale di Foucault, ovvero la sua ostinazione ad affermare l’identità come “inesistente”. Erede di Foucault, la filosofia politica contemporanea è più vicina alla meccanica quantistica che alla fisica newtoniana.

Senza esistere, l’identità diventa un argomento decisivo dei racconti che definiscono un’epoca

Prima di tutto potremmo dire che le identità, in quanto entità ontologico-politiche inesistenti, hanno la precisa proprietà di non essere oggetti. Questo non significa che siano entelechie, semplici ideologie, strutture simboliche o concetti puri privi di ogni materialità. Al contrario: pur non esistendo, le identità come entità ontologico-politiche hanno una materialità molto densa. La filosofia contemporanea naviga in questo strano paesaggio ontologico-politico, al contempo vuoto e tremendamente spesso, costituito da oggetti che non esistono ma i cui effetti possono essere mortali.

In termini ontologico-politici l’identità è “qualcosa” che senza esistere fa irruzione nel campo del tangibile, diventa visibile, misurabile, quantificabile. L’identità non esiste, eppure tutti i sistemi amministrativi e architettonici di una società si comportano come se esistesse. In questo modo, non esistendo, l’identità appare più reale della realtà. Senza esistere, l’identità diventa un argomento decisivo dei racconti che definiscono un’epoca, parametro centrale attraverso cui sono attribuiti il riconoscimento politico e la sovranità.

E così, senza esistere, l’identità “donna” può costarvi la vita a Tijuana, e anche in luoghi molto più vicini a casa vostra di quanto non sia Tijuana. Questa identità definisce per intero la vostra vita. Anche se non esiste, l’identità “trans” può costarvi la vita a Parigi. La razza non esiste, ma l’identità razziale può impedirvi di attraversare una frontiera, di affittare un appartamento, di trovare un lavoro. La modalità stessa dell’“inesistenza” di queste identità resta inafferrabile, ma attraverso la discriminazione, l’esclusione e la regolamentazione della vita e della morte si stabiliscono le condizioni apparenti della prova empirica della loro esistenza.

Ecco quello che potremmo chiamare il principio d’incertezza identitaria in filosofia politica: il popolo non esiste, la nazione non esiste, la razza non esiste, la differenza sessuale non esiste, l’omosessualità e l’eterosessualità non esistono, la schizofrenia non esiste, la transessualità non esiste. Eppure queste “non-esistenze” rappresentano l’infrastruttura del potere e del dominio quotidiani. Il paradosso dell’esistenza inesistente dell’identità raddoppia e assume la consistenza di uno scherzo metafisico quando le condizioni dell’enunciazione filosofica sono determinate dall’apparizione del corpo del filosofo secondo i parametri di una (o di molte) tra queste identità inesistenti.

Posso affermare la non-esistenza dell’omosessualità o della transessualità quando storicamente mi sono trovato a occupare, incarnandola, la posizione di omosessuale o transessuale? Cosa significa parlare da transessuale, da omosessuale e da corpo razzializzato se la transessualità, l’omosessualità e la razza non esistono? Non abbiamo ancora cominciato a piangere tutti quelli che, marchiati da un’identità inesistente, non hanno potuto esistere in un altro modo. E non abbiamo ancora cominciato a parlare di loro senza ripetere il linguaggio letale dell’inesistente identità.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano francese Libération.

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