Il confinamento digitale nell’era della pandemia
Cercate d’immaginare il confinamento se internet non esistesse. Ai fini di questo esercizio, spegnete il vostro computer e allontanatevi dal vostro telefono, il che significa che forse non potrete continuare a leggere quest’articolo.
Cercate di fare lo sforzo d’immaginarvi una giornata intera di confinamento senza connettervi né a Facebook né a Instagram né a Snapchat né a TikTok, senza inviare almeno cinquanta email, senza riunioni di lavoro su Zoom, senza comunicare con i vostri clienti, la vostra famiglia, i vostri amici su Skype o WhatsApp, senza fare acquisti su internet, senza consegne a domicilio, senza ristorazione a domicilio, senza consultare uno psicologo o un medico su Gruveo, senza gruppi di sostegno o senza corsi di ginnastica su Jitsi, senza riunioni tra vicini, alunni o genitori d’alunni su Teams, senza fissare incontri di un qualche tipo su Tinder, senza click and collect, senza consumare film o serie tv, e senza la possibilità di ricorrere alla pornografia gratuita o a pagamento grazie a varie piattaforme online.
Se queste giornate curiosamente vuote e in totale isolamento esistessero; se questi pomeriggi straordinariamente calmi, dominati dai sogni a occhi aperti invece che dal lavoro, esistessero davvero, allora somiglierebbero ad altri periodi di confinamento della storia passata.
Un pianeta diverso
Sappiamo che il giovane studente Isaac Newton formulò le ipotesi che lo spinsero a elaborare la teoria della gravitazione universale nei giorni vuoti e oziosi che trascorse chiuso nello chalet di Woolsthorpe, nel corso del confinamento imposto nelle città inglesi durante l’epidemia di peste bubbonica tra 1665 e 1667. E che Mary Shelley inventò la storia di Frankenstein per distrarre i suoi amici durante un’estate di confinamento trascorsa nella villa Diodati a Coligny, vicino al lago Léman, nel 1816. L’eruzione del vulcano Tambora in Indonesia, un anno prima, aveva lasciato nel cielo una quantità tale di ceneri e polvere di zolfo, durante mesi di forti piogge e basse temperature, che i cittadini dell’emisfero nord dovettero trascorrere l’estate chiusi nelle loro case.
Se fosse vissuto nel 2020, Isaac Newton avrebbe buttato le sue giornate seguendo dei corsi inascoltabili su Zoom, e Mary Shelley non avrebbe potuto scrivere una riga, costantemente occupata ad aggiornare le sue story su Instagram, e a rispondere a email e messaggi.
Il confinamento segna l’ingresso in un’era digitale, con le sue forme specifiche di sottomissione, di sorveglianza e di controllo
Usiamo ancora il vecchio concetto di confinamento per descrivere le misure di distanziamento sociale e d’isolamento a casa imposte durante l’epidemia di covid-19, ma il nostro lockdown non ha niente a che vedere con altri confinamenti preventivi a cui siamo ricorsi in altri momenti storici, durante l’epidemia di peste nera nel 1300, durante la peste bubbonica del seicento, o durante la crisi della cosiddetta influenza spagnola tra il 1918 e il 1920.
In primo luogo quei confinamenti avevano sempre avuto carattere locale: non hanno mai toccato la quasi totalità del pianeta e sono stati limitati a città e a momenti specifici. In secondo luogo, ed è il fatto più importante, hanno tutti avuto luogo in un periodo precedente alla connessione senza fili del mondo. Imponevano non solo la chiusura nello spazio domestico e la separazione fisica tra i corpi, ma anche l’interruzione dei processi di comunicazione e delle pratiche di ripetizione sociale e di normalizzazione rituale che si svolgevano per lo più nello spazio della strada, del mercato e della fabbrica, ma anche della scuola o dell’esercito.
Esercizio di pedagogia informatica
Contrariamente ai nostri antenati, noi non siamo confinati. Siamo stati digitalizzati con la forza. Non siamo stati rinchiusi nei nostri appartamenti, bensì nel mondo digitale. Con il senno di poi, quel che oggi chiamiamo confinamento sarà probabilmente considerato come un processo globale di transizione verso il capitalismo digitale, un esercizio di pedagogia informatica della società nel suo complesso che ha messo fine agli ultimi soggetti fordisti moderni e alla loro relazione con la macchina di produzione taylorista (gli ultimi lavoratori puramente fordisti, nati negli anni trenta, quaranta e cinquanta del novecento, sono quelli morti in massa negli ospedali e nelle case di riposo della Lombardia, della Vallonia o di Girona) e ha dato vita al nuovo soggetto del capitalismo informatico: il telelavoratore e teleconsumatore a tempo pieno dell’economia farmacopornografica, per il quale essere online è la forma prioritaria dell’esistenza.
La sottrazione dei rituali di contatto sociale e delle abitudini che producevano un’empatia intersoggettiva (dal bar al teatro, passando dal museo al ristorante) e la loro sostituzione con i social network e le ricompense digitali (mi piace, click, numero di messaggi, immagini autogratificanti) generano ansia, disorientamento e depressione, il che spiega forse perché gli stupefacenti, legali e illegali, e le droghe psicoattive e psicotrope siano gli integratori molecolari necessari al confinamento digitale.
Prima del covid-19 vivevamo in un’era analogica. Il confinamento segna l’ingresso in un’era digitale, con le sue forme specifiche di sottomissione, di sorveglianza e di controllo. Il vero confinamento, nel 2020, sarebbe un blackout totale dei social network e delle applicazioni informatiche: allora un altro Newton troverebbe una nuova equazione per un’altra gravità esoplanetaria, e un’altra Mary Shelley scriverebbe un nuovo Frankenstein.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul quotidiano francese Libération.