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A Parigi, un anno dopo il 13 novembre

Un memoriale per le vittime davanti al ristorante Le petit Cambodge a Parigi, il 17 novembre 2015. (Kenzo Tribouillard, Afp)

Il 13 novembre 2015 è diventato oggi una nuova data nel calendario storico francese, il nostro 14 luglio di dolore. Ma se l’anniversario della presa della Bastiglia dà luogo a manifestazioni di gioia e di esultanza, quello della strage del Bataclan a poche centinaia di metri è l’occasione per piangere tutte le lacrime che ci rimangono.

Quel giorno non ero a Parigi ma a Roma, come corrispondente di Le Monde in Italia, tranquillamente seduto nel salotto di casa con la mia compagna e mio figlio a vedere la nazionale italiana di calcio che si faceva travolgere dal Belgio in una partita amichevole. È stata una telefonata di Gianluigi Nuzzi, che quella sera conduceva il suo programma su Retequattro, che mi ha distolto dalla mia piccola soddisfazione (dopo il 2006 i francesi adorano veder perdere gli azzurri).
- Philippe, vuoi dire qualcosa in diretta su quello che sta succedendo a Parigi?

- Ma che succede a Parigi?

- Sono scoppiate delle bombe, ci sono degli spari, dei morti!

- Adesso vedo e ti richiamo fra cinque minuti.

Non ho mai visto la fine di Belgio-Italia.

Per un’ora sono diventato una sorta di “inviato speciale a domicilio”, gli occhi fissi sui siti di informazioni francesi, l’orecchio incollato al telefono per tradurre e spiegare nel mio italiano dal forte accento transalpino, quello che cercavo di indovinare del caos che regnava a Parigi. Ma rapidamente questa mia iniziativa si è trasformata in un semplice conto dei morti, così ho deciso di mettere fine a questo inganno. Anche altre televisioni italiane hanno cercato di raggiungermi, ma ho lasciato squillare il telefono. Non avevo le parole per spiegare il mio sbigottimento. Mi mancava l’aria. Volevo piangere, solo piangere.

Ritorno a Parigi. Ristrutturato, il Bataclan ha ritrovato la sua facciata originale. Trasformata per mesi in cappella ardente, place de la République è stata ripulita dai fiori e dalle candele che la ricoprivano. Non rimane più traccia della follia omicida dei terroristi. Ma queste tracce sono altrove, negli sguardi diffidenti, nella voce dell’altoparlante nella metropolitana che invita in continuazione in quattro lingue i parigini e i turisti a fare attenzione, nei sondaggi che danno Marine Le Pen al secondo turno delle elezioni presidenziali nel 2017.

Ma ci sono anche altre “tracce”, meno visibili e che un po’ di vernice non basterà a cancellare.

Una domenica mattina ritorno dal mio jogging mattutino. Sudato e ansante, entro dal giornalaio per comprare come tutti i giorni i miei quotidiani. Nonostante il sole fa freddo e senza pensare mi sono messo sulla testa il cappuccio della mia felpa, come un adolescente di 61 anni! “Tolga il cappuccio!”, esclama la giornalaia con voce dura. Sul momento non ho capito a chi si rivolgeva. Ma la voce ripete, più categorica “Sì, lei!” “Io? E perché?” Gli altri clienti mi guardano, come se il mio stupore fosse già una forma di rivolta alla pubblica autorità. Obbedisco. La voce spiega sempre su un tono poco gradevole: “Con il cappuccio non può essere riconosciuto dalle telecamere di sorveglianza”. Cerco di fare una battuta: “Ma mi conosce! E secondo lei alla mia età e alle 9 di mattina mi posso mettere a fare il terrorista in un’edicola?” “Beh, perché no”, brontola la donna.

Ecco, il problema è che chiunque può essere un terrorista, un potenziale assassino, un ladro. Anch’io. Soprattutto se porto un cappuccio come un ragazzo di periferia di Parigi o di Bruxelles, di quella periferia da cui sono arrivati diversi terroristi del 13 novembre 2015. Quel giorno non ero a Parigi, ma sapevo che quella sera sanguinosa avrebbe cambiato – forse per sempre – qualcosa nel mio paese. L’edicolante me lo ha ricordato senza troppi giri di parole. Io ho pagato il giornale e sono uscito.

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