1. Fräulein Rottenmeier, Political chihuahua
Il titolo del loro album è un programma elettorale: Elettronica maccheronica. E in effetti: pastoni sintetici, pulsanti premuti dalla library di sequenze dei Depeche Mode d’antan. E voci urlate, teatrali, grottesche sul cabaret italiano di nani infami, doping per il pene, radicata villania cronica, una macedonia d’attualità insomma. Qualcuno vuole farsi ricordare che tempacci ci sono toccati da tre tizi di Brescia vestiti da pagliacci alla Stephen King? Eccoli qui, i Fräulein. Votateli, o voltatevi dall’altra parte e pedalate via in fretta e furia.
2. DotVibes, Better vision
Via, verso il reggae biellese. Piantagioni di ganja a due passi dagli storici lanifici, i tessuti naturali, la canapa, il Babilonia dove passano i giganti giamaicani. E un gruppuscolo che suona come una gang bianca new roots, tra Kingston e Monaco di Baviera. La solita canzoncina sulla mariagiovanna, Bunna che timbra la cartina per un’ospitata eccetera. Epperò, ecco un suono da esportazione e una bella voce di femmina in mezzo alle solite cose con le percussioni e i bassi. Quindi, munirsi di tisana e immergersi nel loro album, Inside the bubble.
3. Susanne Sundfør, Knight of noir
Una notte di noir nordico attraversato da striature d’aurora boreale da passare con una norvegese venticinquenne un po’ fenomena (sostenuta da una borsa di studio degli A-ha); l’album è The brothel, come un libro di favole: il suono è cristallino come una saga sonora di Angelo Badalamenti, la voce da regina degli elfi, un po’ Queen, a volte freddymercurescamente istrionica. Però, che sirena: la senti che spadroneggia su tutto un territorio immaginario, da qualche parte tra ambient e musica per un giallonzo scandinavo, e già ne sei ospite e un po’ prigioniero.
Internazionale, numero 899, 27 maggio 2011
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