1. Bon Iver, Hinnom, Tx
Un neocountry che però ogni tanto sembra Philip Glass con i Bee Gees (è dai tempi della Febbre del sabato sera che non si sentivano falsetti così): siore e siori, venghino a inalare la band americana super heavy del momento, quella di Justin Vernon, cantautore concettuale del Wisconsin. L’album è ricco di complesse forme vegetative, fa pensare a quei posti di campagna dove accadono fatti inquietanti tra cugini e alcuni punti del bosco non si asciugano mai. Tutte belle canzoni verde scuro con nomi di città e stati, eppure ci si addentra.
2. Bohren & der Club of Gore, Catch my heart
Sembra di essere in uno di quei film col genio del male nazista che si avvicina all’eroe immobilizzato e dice: “Happiamo i metsi per farfi parlare”: una band tedesca di ambient jazz e il nuovo album, Beileid (condoglianze), con al centro una cover di 12 minuti, di un gruppo metallaro di Düsseldorf (i Warlock). E invece, hanno i mezzi per zittirci perché il quartetto germanico tesse una trama noir di grande eleganza: vibrafoni e sassofoni che riverberano in lontananza, e davanti Mike Patton , il solito sospetto di tutti i progetti più strambi.
3. Shabazz Palaces, An echo from the hosts that profess infinitum
E arrivati in fondo a quest’impegnativa settimana, perché non rilassarci con l’hip-hop concettuale (o avant-rap) di questo, che si era stufato di fare miliardi con l’hip-hop jazzato dei Digable Planets. Ishmael Butler alias Butterfly qui sembra far penitenza per tutta quella sua passata figaggine: e allora ecco campionature dark, vocine sinistre, dissonanze della tortura, e sopra tutto ciò però rientra dalla finestra quel suo vocino dolce, buono, che ha i mezzi per parlarci e somministrarci col sorriso un suo veleno di tenebra.
Internazionale, numero 906, 15 luglio 2011
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