1. Galapaghost, Beauty of birds

Bob Dylan a parte, gli americani con la chitarra acustica sono intercambiabili, da Simon & Garfunkel ai Midlake formano una sorta di conti­nuum country/temporale, è come andare a pesca, ognuno si trova i suoi salmoni a sei corde controcorrente di riferimento. Adesso li alleviamo anche in Italia: in forze alla sicula Lovely Lady e al produttore Ru Catania (giro Africa Unite), ecco l’album Runnin’ di Casey Chandler alias Galapaghost (avrà letto molto Kurt Vonnegut), già apripista in tour di John Grant. Lo provi, signora: anche live in Italia.

2. The Maccabees, Pelican

Inizia un po’ come Eye of the tiger, puro Rocky rock, poi gli s’impastano le voci, ansimano respiri epici un po’ Joshua tree, ma più cheesy che fa tanto band capellona degli eighties, Foreigner o Toto, per dire; poi un momento Coldplay, poi tornano ad accelerare. Un pastiche ben combinato di melanzane meno prevedibili della media: a caccia di brit-band per ingabbiare l’aria che tira, si può far peggio. Questi anglo-birds di Londra, col nuovo album Given to the wild, giocano con l’iconografia del great wide open, ma sono nel Tube fino al collo.

3. Ronin, It was a very good year

Struggente capolavoro di Ervin Drake, vendemmia 1961: dal Kingston Trio a Frank Sinatra, e da Sinatra post mortem con Robbie Williams fino a Homer Simpson con It was a very good beer. Adesso, questo quartetto italiano, che su una china concept/morriconian/mediterranea tesse trame di corde e ritmo nel nuovo lavoro, Fenice, felicemente strumentale. Tranne questa elegia sulle età della vita, affidata, in un trip lynchiano di paradossale anacronismo all’ugola di Emma Tricca, giovine usignolo in fuga dal folk italiano.

Internazionale, numero 932, 20 gennaio 2012

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