L’Italia e la grande guerra senza la retorica nazionalista
La prima guerra mondiale è stata e rimane uno dei miti fondativi dello stato-nazione, soprattutto nei paesi vincitori. Gli anni tra il 1914 e il 1918 sono stati avvolti da un’aura di sacralità che ancora oggi si può cogliere nei monumenti, nei cimiteri e nelle cerimonie che ricordano la grande guerra.
Per anni il conflitto è stato sottratto ad analisi obiettive ed è stato letto solo attraverso la lente deformante dell’eroismo, dell’onore, della patria, della propaganda bellica. In Italia la letteratura ne ha affrontato i tabù, spesso con fastidiose conseguenze per gli autori: Emilio Lussu fu accusato di disfattismo e antipatriottismo per Un anno sull’Altipiano, mentre La rivolta dei santi maledetti di Curzio Malaparte incappò nella censura e fu sequestrato. Negli anni settanta sono stati pubblicati saggi critici e analisi storiche rigorose e obiettive, come quelli di Mario Isnenghi, Giorgio Rochat, Enzo Forcella, Alberto Monticone e Piero Melograni.
Tuttavia, con la ricorrenza del centenario della fine della grande guerra e le celebrazioni previste per il 4 novembre, il velo di retorica che con tanta fatica era stato sollevato è tornato ad avvolgere quegli anni. Ci sono state iniziative storicamente accurate, ma la propaganda nazionalista e militare nel tempo si è riappropriata dell’evento. Mentre fiction tv semplicistiche come Il confine e Fango e gloria – andate in onda su Rai1 – hanno favorito il ritorno di una visione patriottica della storia.
Da questa visione sono stati cancellati episodi sgraditi alla retorica ufficiale come le renitenze, il pacifismo, le fraternizzazioni tra nemici, le diserzioni, gli ammutinamenti, le rivolte. Pagine che però sono fondamentali per capire meglio quell’immensa carneficina che fu la prima guerra mondiale, a cent’anni dalla sua fine.
Socialisti, pacifisti, renitenti
Innanzitutto va detto che nel 1915 la maggior parte dell’opinione pubblica in Italia era contraria all’intervento. Furono le intimidazioni rivolte alle istituzioni – ai limiti del colpo di stato – dal re Vittorio Emanuele III, dal capo del governo Antonio Salandra e dal ministro degli esteri Sidney Sonnino, la campagna di stampa del Corriere della Sera e le demagogiche manifestazioni di piazza organizzate da Gabriele D’Annunzio a piegare il parlamento a votare in favore dell’entrata in guerra.
I socialisti si divisero ferocemente in neutralisti e interventisti, mentre i giornali e la propaganda esaltarono le “radiose giornate di maggio”, sminuendo e censurando le manifestazioni contro la guerra. In realtà, l’interventismo fu un fenomeno assolutamente minoritario. Come racconta Marco Rossi in Gli ammutinati delle trincee, i volontari furono appena 8.171, spesso del tutto emarginati dai commilitoni che li consideravano fanatici e spie degli ufficiali. La maggioranza della popolazione accettò con rassegnazione il conflitto.
Pochissime voci si levarono contro la guerra: Giacomo Matteotti pagò il suo antimilitarismo socialista e internazionalista con tre anni di confino a Messina; la rivista La Pace fu chiusa e il suo direttore, Ezio Bartalini, fu prelevato dai carabinieri e arruolato a forza; alcuni pubblicisti cristiani polemizzarono aspramente sulla legittimità morale della guerra; le vignette di Scalarini sferzarono la retorica bellica; papa Benedetto XV per tutta la durata del conflitto tentò una vana mediazione tra i paesi belligeranti, parlando di “inutile strage”.
Solo una piccola minoranza di persone rifiutò di arruolarsi: anarchici, socialisti internazionalisti, marxisti, tolstoiani e cristiani radicali. Non fu riconosciuto alcun diritto all’obiezione di coscienza e chi espresse il proprio rifiuto per ragioni religiose o politiche fu condannato al carcere duro, internato in fortezze militari o ricoverato in manicomio. Come ricorda Andrea Filippini in L’obiezione di coscienza nell’Italia liberale, lo zoccolaio lombardo Luigi Lué sostenne con tale ostinazione le proprie convinzioni tolstoiane che il pubblico ministero disse: “Signori del tribunale, siamo davanti al caso di un uomo per il quale la nostra legge è impotente. Essi vivono nella loro fede e non transigono a nessun costo. Ci vuole la massima indulgenza”. Nonostante l’appello alla clemenza, Lué fu condannato a sette anni di carcere.
Per ragioni ideologiche o anche solo per salvarsi la pelle, altri reclutati cercarono rifugio nella neutrale Svizzera. Gli anarchici organizzarono canali di espatrio per renitenti e disertori grazie al fatto che molti contrabbandieri, i cosiddetti “spalloni”, erano simpatizzanti libertari. A Zurigo si costituì una comunità numerosa di esuli anarchici.
Il sistema più diffuso per sfuggire all’arruolamento fu però quello di non presentarsi alla visita di leva. Il numero dei renitenti in Italia fu più alto che in altri paesi: ben 470mila persone non si presentarono. Tra loro, 370mila erano residenti all’estero, ma si guardarono bene dal rimpatriare. In Sicilia i renitenti furono il 61 per cento dei richiamati.
L’impreparazione dell’esercito
Per i soldati l’arrivo al fronte fu un trauma, sia per le devastazioni causate dalle nuove tecnologie militari, sia per la totale impreparazione dell’esercito italiano. Come racconta Mark Thompson nel libro La guerra bianca, un ufficiale che aveva raggiunto da poco il monte San Michele, sul Carso goriziano, chiese ai soldati lì da alcuni giorni dove fossero le trincee, e la risposta fu: “Trincee, trincee… Non ci sono mica trincee: ci sono dei buchi”.
Dopo i primi giorni in cui gli italiani conquistarono facilmente il Friuli austriaco – spesso usando metodi repressivi di tipo coloniale contro le popolazioni locali – alle pendici del Carso, fortificato dagli austriaci, cominciò la guerra di posizione fatta di trincee, bombardamenti, assalti frontali.
Il capo di stato maggiore Luigi Cadorna ripropose le stesse inefficaci strategie già sperimentate su altri fronti, con carneficine che costarono la vita a centinaia di migliaia di soldati senza quasi nessun risultato pratico. A Cercivento, sulle Alpi carniche, quattro alpini rifiutarono di andare all’attacco del monte Cellon in pieno giorno, consigliando il capitano di attaccare di notte per approfittare della nebbia. L’ufficiale, un calabrese, nemmeno capì la proposta dei quattro che parlavano friulano e li mise al muro. Il monte fu poi conquistato di notte, dopo centinaia di morti caduti negli assalti condotti alla luce del sole.
La guerra fu “un inferno di sangue, fango e merda”, come mi ha detto Giovanni Marco Sau, che allora combatté nella brigata Sassari. La vita in trincea era fatta di noia, paura, maltempo, pidocchi, ratti e colpi sparati dai cecchini. In Storia politica della grande guerra, Piero Melograni scrive che “alla vigilia delle azioni più rischiose abbondanti quantitativi di liquori erano distribuiti ai reparti italiani (…). Lo stesso Cadorna dichiarò che il soldato italiano era migliore nell’offensiva che nella difensiva, perché nell’offensiva si ubriacava e si stordiva”. Alessandro De Pascale in Guerra e droga racconta invece che piloti, ufficiali e arditi facevano anche uso di cocaina.
Prima dell’uscita dei fanti dalle trincee le artiglierie martellavano le postazioni nemiche per eliminare ogni resistenza. Ciò avrebbe dovuto permettere ai soldati di lanciarsi all’attacco delle fortificazioni nemiche sguarnite, ma la strategia spesso non funzionava: le artiglierie sbagliavano il tiro e bombardavano le proprie linee; oppure le comunicazioni con i comandi si interrompevano e l’attacco della fanteria veniva sferrato troppo presto, quando i cannoni stavano ancora bombardando, o troppo tardi, quando i nemici erano già tornati in posizione.
Gli assalti frontali senza alcun bombardamento preventivo erano frequenti e generalmente si concludevano con lo sterminio di chi attaccava, massacrati dalle mitragliatrici dei nemici. Dietro ai fanti all’assalto c’erano carabinieri e ufficiali dell’esercito pronti a sparare a chi arretrava o esitava. “Ma quale Piave mormorava”, mi ha raccontato il reduce siciliano Andrea Cangelosi, “avevamo i carabinieri dietro che ci sparavano e davanti il nemico”.
La fraternizzazione tra nemici
La ferocia della guerra non riuscì tuttavia a cancellare del tutto l’umanità dei soldati: nel corso del conflitto sono documentati episodi nei quali gli austriaci cessarono di mitragliare gli italiani mandati all’attacco e li esortarono a mettersi in salvo o a tornare indietro.
Il 25 dicembre 1915 sul Carso – complice la nostalgia di casa e il ricordo del Natale precedente passato in famiglia – i soldati italiani e quelli austriaci raggiunsero un cessate il fuoco informale e si scambiarono gli auguri, approfittando della tregua per recuperare e seppellire i compagni che giacevano morti tra i due schieramenti.
Gli alti comandi allora emisero direttive severissime contro la fraternizzazione, perché ritenevano che umanizzasse troppo l’avversario e che i nemici potessero scoprire il sistema di difesa dell’esercito.
Negli anni successivi, proprio durante le feste religiose i bombardamenti dell’artiglieria furono intensificati e i cecchini erano pronti a colpire chiunque stesse cercando di fraternizzare.
Diserzioni
L’orrore quotidiano vissuto dai soldati spinse parecchi di loro a cercare soluzioni personali per evitarlo. Alcuni tentarono di disertare approfittando di licenze, cercando di nascondersi da parenti o amici. Nei primi anni di guerra, però, la diserzione era considerata un atto vile e ignominioso: ci furono casi di genitori che denunciarono e riconsegnarono i figli che erano fuggiti.
In Toscana, in Emilia-Romagna, in Puglia e nelle Marche si formarono vere e proprie bande di disertori che trovarono rifugio nei boschi o in grotte, braccati dai carabinieri. In Sicilia renitenti e disertori si nascosero nelle solfatare.
Tanti cercarono di disertare consegnandosi al nemico, approfittando della notte, di macchie di vegetazione e di rovine nella terra di nessuno. Era un’operazione rischiosissima: i fuggitivi potevano essere scambiati per ricognitori in avanscoperta o per soldati impegnati in attacchi a sorpresa, ed essere uccisi; potevano essere catturati da nemici senza scrupoli; oppure potevano essere scoperti da qualche pattuglia del proprio esercito e finire davanti alla corte marziale. Per una diserzione la pena era l’ergastolo o la condanna a morte per fucilazione. Durante gli attacchi gli ufficiali erano tenuti a sparare sul posto a coloro che pensavano stessero disertando o si stessero sbandando.
Durante la guerra il numero dei disertori diventò sempre più alto. Non potendoli passare tutti per le armi, i colpevoli furono mandati in speciali compagnie di disciplina con incarichi pericolosi, oppure furono portati in prima linea e legati in luoghi esposti al tiro del nemico.
Questa soluzione si rivelò del tutto inefficace: generalmente gli austriaci non colpivano i soldati disarmati e incatenati, sia per solidarietà sia perché graziarli significava dare un’immagine misericordiosa di sé e spingere altri italiani a consegnarsi.
Per i tribunali militari erano considerati alla stregua di disertori anche coloro che si sbandavano, che perdevano contatto con il proprio reparto o che tornavano dalla licenza con un giorno di ritardo. In Battibecco, la rubrica che teneva sul Tempo, Curzio Malaparte scrisse:
Nell’agosto del 1917 a Santa Giustina presso Belluno fui obbligato ad assistere alla fucilazione di alcuni soldati calabresi rientrati dalla licenza con ventiquattro ore di ritardo, non per colpa loro, ma per colpa della tradotta. Due soldati del plotone di esecuzione spararono in aria: vennero immediatamente afferrati e passati per le armi.
Altri soldati provavano a sfuggire al fronte con gesti di autolesionismo. La tecnica più comune era quella di spararsi a un piede o a una mano attraverso una tavoletta di legno che rendesse la ferita meno devastante e nascondesse le bruciature dovute al contatto con la canna. I casi di autolesionismo nell’esercito italiano furono circa diecimila. Con il passare del tempo, i medici militari diventarono più attenti alle automutilazioni e mandarono davanti alla corte marziale i simulatori. Lo zelo fu tale che furono accusati anche soldati effettivamente colpiti in combattimento.
Per arginare qualsiasi forma di defezione i tribunali militari lavorarono senza sosta, condannando le persone dopo indagini rapide e superficiali. Era l’imputato a doversi scagionare dalle accuse e non l’accusa a dover provare il reato. Non esistevano gradi di giudizio, non era previsto appello. Su 262.481 soldati processati, il 62 per cento fu condannato. Le pene capitali furono più di quattromila, di cui però quasi tremila in contumacia. Quelle eseguite furono 750. Le condanne fino a sette anni di carcere furono sospese e rinviate alla fine della guerra per evitare che diventassero un modo per evitare il fronte. Più di 15mila uomini furono invece condannati all’ergastolo.
I soldati uccisi senza processo furono trecento, ma storici come Marco Pluviano e Irene Guerrini, in 1914-1918. Scampare la guerra, scrivono: “Il numero di esecuzioni sommarie di cui si ha notizia (anche dalle testimonianze orali) è così ampio che, considerati i casi inevitabilmente rimasti segreti, si raggiungerebbe un numero di fucilati uguale, se non superiore, a quello dei condannati a morte a seguito di un regolare processo”.
Insubordinazioni
Con il passare degli anni, alle diserzioni si sostituirono sempre più spesso atti di insubordinazione collettiva: i soldati rifiutavano di andare in prima linea o attaccare. Non erano rivolte organizzate e ammutinamenti, ma una sorta di sciopero di soldati sfiniti che rifiutavano di combattere per le condizioni proibitive della vita al fronte.
Nel marzo del 1917 soldati della brigata Ravenna si rivoltarono sparando in aria per la revoca delle licenze e l’ordine di raggiungere di nuovo la prima linea. In luglio due reggimenti della brigata Catanzaro, in retrovia da pochi giorni, rifiutarono di tornare in prima linea: uccisero alcuni ufficiali e cercarono di attaccare la villa dov’era ospitato D’Annunzio, che si trovava lì vicino. La protesta sfociò in una vera e propria rivolta al grido di “Abbasso la guerra”, “Morte a D’Annunzio”, “Vogliamo la pace!”, ma fu repressa da carabinieri, reparti di cavalleria, artiglieria e perfino aerei.
Anche la rotta di Caporetto, nel 1917, può essere considerata una rivolta collettiva e uno sciopero dei soldati. Quando fu chiaro che lo sfondamento austrotedesco stava avendo successo e che opporsi all’avanzata era un suicidio, migliaia di italiani si arresero, sperando che l’offensiva nemica significasse finalmente la fine della guerra e la possibilità di ritornare a casa. I soldati in rotta abbandonavano le armi e si consegnavano ai nemici gridando: “La guerra è finita, viva la pace”, “Morte al re!”, “A Torino o a Milano purché la guerra finisca!”.
Stavolta i militari in ritirata risposero al fuoco dei carabinieri nelle retrovie e li misero in fuga. Nel caos della ritirata si scatenò una vera e propria caccia al carabiniere. Nel libro La rivolta dei santi maledetti, Curzio Malaparte scrisse:
La legge era il carabiniere, i fanti massacravano i carabinieri. I carabinieri assassinati in trincea non si contano, quelli impiccati o pugnalati nelle retrovie non hanno numero. I pezzi grossi degli Alti Comandi si fermavano davanti al cadavere del carabiniere, leggevano il cartello appeso dai fanti al petto della vittima: ‘Aeroplano abbattuto’ e non ne capivano niente. Quali rimedi lambiccavano i Comandi? Le fucilazioni.
(Nel gergo dei fanti i carabinieri erano chiamati aeroplani sia per la forma del cappello sia perché, come gli aviatori nemici, sparavano sui soldati, ndr).
Le rivolte furono represse ferocemente: i soldati identificati a torto o a ragione come organizzatori degli ammutinamenti furono processati sommariamente e giustiziati. Quando i presunti responsabili non venivano trovati, volendo dare una punizione esemplare ai reparti insubordinati, si ricorreva alla decimazione: l’estrazione a sorte dei soldati da fucilare. Emanuele Filiberto di Savoia, che quando morì volle essere sepolto a Redipuglia “in mezzo agli Eroi della Terza Armata”, ordinò: “Intendo che la disciplina regni sovrana fra le mie truppe. Perciò ho approvato che nei reparti che sciaguratamente si macchiarono di grave onta, alcuni, colpevoli o non, fossero immediatamente passati per le armi”. Sicuramente tra i centomila morti di Redipuglia qualcuno giace a pochi metri dal proprio carnefice.
Per il presunto ammutinamento della brigata Ravenna furono fucilati due soldati trovati semplicemente a dormire nell’accampamento dove c’era stata la rivolta, più altri cinque estratti a sorte. In La vigilia di Caporetto. Diario di guerra (1916-1917) il giornalista e critico teatrale Silvio D’Amico ricostruisce un episodio significativo. Un reggimento di fanteria insorge. C’è un’inchiesta, ma i colpevoli non sono scoperti, così il colonnello ordina di estrarre a sorte i nomi di dieci soldati e fucilarli. Tra loro finiscono anche uomini arrivati al reggimento dopo l’insubordinazione.
All’ora della fucilazione la scena è feroce. Uno dei due complementi, entrambi di classi anziane, è svenuto. Ma l’altro, bendato, cerca col viso da che parte sia il comandante del reggimento, chiamando a gran voce: ‘Signor colonnello! signor colonnello!’. Si fa un silenzio di tomba. Il colonnello deve rispondere. Risponde: ‘Che c’è figliuolo?’. ‘Signor colonnello!’, grida l’uomo bendato, ‘io sono della classe del ‘75. Io sono padre di famiglia. Io il giorno 28 non c’ero. In nome di Dio!’. ‘Figliuolo’, risponde paterno il colonnello, ‘io non posso cercare tutti quelli che c’erano e che non c’erano. La nostra giustizia fa quello che può. Se tu sei innocente, Dio te ne terrà conto. Confida in Dio’.
Le esecuzioni sommarie arrivarono a un parossismo tale che anche piccoli atti di insubordinazione furono puniti con la morte: durante la rotta di Caporetto il generale Andrea Graziani tentò di riportare l’ordine tra i soldati facendo fucilare 57 presunti disertori, alcuni per ragioni assurde come Alessandro Ruffini, che fu messo al muro per averlo salutato tenendo il sigaro acceso in bocca. Qualche anno dopo la fine della guerra il generale morì cadendo misteriosamente da un treno: si diffuse la voce che sul vagone avesse incontrato un vecchio compagno d’armi di qualche sua vittima.
Dal 1917 gli ammutinati mostrarono sempre di più una consapevolezza politica. Marco Rossi racconta l’episodio del livornese Alessandro Signorini, che davanti al plotone d’esecuzione urlò ai suoi compagni: “Maledetta patria, schifosa bandiera. Voltate le spalle a chi vi fucila!”. Nelle trincee ormai circolava materiale disfattista, volantini che invitavano a disertare, fogli di propaganda rivoluzionaria. La rivoluzione bolscevica, l’uscita della Russia dal conflitto e la crescente insofferenza al potere rendevano sempre più plausibile la rivolta non solo come atto di ribellione, ma anche come possibilità reale di mettere fine alla guerra.
Dopo Caporetto i militari italiani che si stavano ritirando furono fermati sul Piave da uno schieramento di carabinieri e di giovani reclute appena arruolate. I soldati in rotta, convinti che la guerra ormai fosse finita, avevano gettato le armi: non furono dunque in grado di reagire e furono costretti a riprendere la guerra.
Qualcosa di simile successe tra gli austriaci l’anno successivo: in estate ormai 230mila avevano abbandonato le armi ed erano tornati a casa.
In pratica la guerra si concluse con una diserzione di massa: milioni di soldati spossati cessarono semplicemente di combattere. Ma questa versione dei fatti non poteva essere ammessa dalle gerarchie militari, specialmente dopo che il collasso militare russo aveva portato alla nascita dell’Unione Sovietica, primo paese socialista al mondo.
Gli alti comandi degli eserciti dell’Intesa mascherarono quest’epilogo raccontando di epici scontri finali che in realtà non lo furono. Quando con la battaglia di Vittorio Veneto gli italiani sfondavano le linee nemiche, spesso le trovarono deserte. Anche la “redenzione” di Trieste, narrata dalla propaganda nazionalista come la trionfale “liberazione” della città dal dominio austriaco, fu un episodio molto più complesso. La storica Marina Rossi scrive per esempio che nei primi giorni del novembre 1918 “una torpediniera austriaca” fu messa a disposizione “per raggiungere Venezia” e poi tornare a Trieste con “la flotta italiana, cui avrebbe fatto da battistrada nei tratti minati”. Mentre lo storico Drago Sedmak in Nabrežina skozi stoletja (Aurisina attraverso i secoli) racconta un episodio successo vicino a Trieste:
Alle truppe italiane che avanzavano quasi nessuno si oppose, dato che quasi non c’erano più soldati (austriaci, ndr) e i membri dei Comitati nazionali locali (sloveni, ndr) erano troppo deboli e non opposero resistenza. Comunque ad Aurisina si raccolse un gruppo di giovani e di reduci del luogo (austriaci, ndr) e innalzarono barricate improvvisate, bloccando le strade di accesso. L’azione riuscì, visto che per il 2 e 3 novembre fermarono l’avanzata degli italiani verso Trieste. Nella notte tra il 3 e il 4 si ritirarono silenziosamente; gli italiani ripresero la marcia attraversando Santa Croce e Prosecco con bandiere bianche. Il simbolo di pace, la bandiera bianca, che presto venne sostituita dal tricolore italiano, il 20 novembre si mostrò sotto una nuova luce agli abitanti di Aurisina. Quel giorno, infatti, le autorità militari italiane per garantire la propria sicurezza, pretesero dagli abitanti di Aurisina che venissero loro consegnati tre ostaggi (…) Se sia stata la paura o una vendetta per aver perso due giorni davanti alle barricate di Aurisina possiamo solamente fare delle ipotesi.
La storia della prima guerra mondiale, dunque, è tutt’altro che la storia di trionfi, di eroismo e di battaglie epiche raccontata dalla propaganda nazionalista e militare. Tolto il velo di retorica, restano i massacri, le fucilazioni sommarie, le punizioni dei soldati, ma anche gli episodi di fraternizzazione tra nemici, che dimostrano come tantissimi soldati riuscirono a restare umani nonostante fossero obbligati a combattersi.