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La tigre bianca e la più grande democrazia del mondo

Tratto dal romanzo di Aravind Adiga (Booker prize nel 2008), La tigre bianca racconta la parabola di Balram (Adarsh Gourav), un ragazzo di una famiglia poverissima del Rajastan. Balram è un giovane brillante ma la sua condizione sociale gli impedisce di ricevere un’istruzione e di nutrire ambizioni all’altezza della sua intelligenza. Del resto è così che funziona il sistema delle caste. La massima aspirazione per Balram è diventare l’autista di Ashok (Rajkummar Rao), figlio dell’Airone, un magnate del carbone che praticamente ha diritto di vita e di morte sulla sua famiglia. Grazie a quella che sembra un’abnegazione assoluta al suo ruolo di servo, Balram riesce a farsi strada, a diventare l’autista personale di Ashok, un giovane che ha studiato negli Stati Uniti, è sposato a Pinky un’indiana-americana poco sensibile alle tradizioni indiane (interpretata dalla superstar di Bollywood Priyanka Chopra, anche produttrice esecutiva del film insieme ad Ava DuVernay), ed è convinto di poter trasportare le fortune familiari nel nuovo millennio. A contatto con Ashok e Pinky, Balram comincia a prendere coscienza di sé e a capire che può aspirare a qualcosa di meglio.


Il bel film dell’iraniano-americano Ramin Bahrani (99 homes), amico di Adiga con cui ha frequentato la Columbia university, fornisce una descrizione sfaccettata della società indiana che a più riprese viene definita come “la più grande democrazia del mondo”: la clamorosa iniquità del sistema delle caste che schiaccia una parte della popolazione in una condizione di schiavitù quasi bestiale e il conseguente scarso valore attribuito alla vita umana; la discriminazione religiosa; la corruzione sfacciata di una classe politica opportunista; una generazione più giovane impreparata e quasi ingenua di fronte alla gestione del potere. E via dicendo.

Balram è come un filtro. Ci racconta il suo paese e la sua vita con entusiasmo, quasi con allegria. In alcuni momenti è inevitabile pensare a The millionaire di Danny Boyle. Ma in realtà, piano piano, trattiene tutte le sostanze tossiche che nella più cupa seconda parte del film scaricherà su tutti e tutto (e delle fortune milionarie evocate da Danny Boyle non rimane più niente). Per fare un esempio senza troppi spoiler, Balram in alcune occasioni massaggia la gamba malandata del suo “signore”. All’inizio il gesto ricorda qualcosa di simile a un accudimento, al limite dell’affettuoso. Più tardi diventerà evidente la violenza della sottomissione servile. L’idea stessa di servitù è una costante nell’evoluzione pseudotragica di Balram.

C’è chi ha accostato La tigre bianca a Parasite. Anche il capolavoro di Bong Joon-ho tracciava un ritratto poco edificante della società coreana. Il film di Ramin Bahrani non è un capolavoro, non ha la raffinatezza cinematografica né la tensione narrativa del film sudcoreano, ma non è banale. Balram in un paio di occasioni ci ricorda che l’uomo bianco è al capolinea, che questo è il secolo dell’uomo giallo e dell’uomo nero (brown in originale, marrone nei sottotitoli, nero nella versione doppiata). Ma forse solo perché l’uomo giallo e l’uomo nero si sono sostituiti all’uomo bianco nello sfruttare i molti che rimangono senza l’illusione della giustizia sociale e dei diritti, in nome della crescita e della prosperità economica di pochi.

La tigre bianca
Di Ramin Barhani. Con Adarsh Gourav, Rajkummar Rao, Priyanka Chopra, Mahesh Manjrekar. Stati Uniti/India 2021, 128’. Su Netflix.

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