The northman, indicazioni per il Valhalla
Negli Stati Uniti si è parlato molto di The northman, terzo lungometraggio di Robert Eggers, a partire da un lungo profilo che il New Yorker ha dedicato all’autore di The witch (2015) e The lighthouse (2019). L’articolo firmato da Sam Knight, che vale la pena leggere fino alla fine, comincia provando a creare un po’ di scompiglio: il film che vedremo al cinema corrisponde alle intenzioni del giovane regista o, visto il budget messo a sua disposizione dai produttori (una cifra tra i 70 e i 90 milioni di dollari), a un compromesso tra la sua visione e le ragioni commerciali? Il dibattito è dilagato nei giorni precedenti all’uscita del film (più o meno contemporanea in tutto il mondo), creando una certa aspettativa.
È ovvio che se New Regency, Focus Pictures e Universal ti mettono a disposizione una certa cifra si aspettano un certo tipo di prodotto. E per lo stesso Eggers, che si guarda bene dal rivendicare frustrazioni autoriali, non dev’essere stato uno scherzo passare dalla realizzazione di film piccoli e a loro modo circoscritti, a una grande produzione hollywoodiana in costume, con un cast importante, realizzata tra Islanda e Irlanda del Nord, con scene di massa (per quello che poteva essere una massa nel Nordeuropa del nono secolo). E bisogna dire che nel complesso, a parte qualche strappo di sceneggiatura e di montaggio che si avvertono soprattutto verso la fine, se l’è cavata alla grande. Ce ne fossero di registi così.
Ma di che stiamo parlando? The northman, scritto dallo stesso Eggers insieme allo scrittore islandese Sjón, riprende l’antica leggenda nordica del principe Amleth, la stessa che ispirò William Shakespeare per il suo Amleto. Spogliata (come scrive Peter Bradshaw sul Guardian) di ogni malinconia elisabettiana e di ogni dubbio esistenziale, la storia suona più o meno così. Nell’895 dC il giovane principe Amleth assiste all’uccisione del padre, il re Aurvandill (Ethan Hawke), e al ratto della madre Gudrún (Nicole Kidman) da parte dello zio Fjölnir (Claes Bang). Riesce a fuggire e giura vendetta. Anni dopo, Amleth (Alexander Skarsgård) è diventato un guerriero forte e spietato. Durante una razzia in un villaggio nelle terre dei rus’, una sacerdotessa veggente cieca (Björk) gli ricorda il suo giuramento. Amleth allora mette fine ai suoi giorni da vichingo razziatore per raggiungere quello che resta della sua famiglia e compiere la sua vendetta, sostenuto, non solo moralmente, da una schiava slava (Anya Taylor-Joy). Merita una citazione anche Willem Dafoe che interpreta Heimir, che si rivelerà qualcosa di più di un semplice giullare.
Come gli era riuscito in The witch (in modo forse più sorprendente, anche se in scala ridotta), Eggers compie un fantastico lavoro di sintesi storico-antropologica, etnologica ed etnografica. Per chi ha voglia di approfondire, gli spunti offerti dal film sono praticamente infiniti. Un mantello rosso indossato dal giovane Amleth nelle prime scene può rimandare a una porpora dell’antica Roma, mentre un rito propiziatorio pre-raid dei guerrieri vichinghi non può non far pensare a una danza dei nativi americani intorno a un falò. In mezzo tutta la mitologia nordica, da Odino alle valchirie, ma anche molto altro.
Davvero gustosa e attuale la descrizione di un mondo maschile bestiale, la cui aspettativa più luminosa è quella di ubriacarsi in eterno nel Valhalla dopo essere stato trucidato (notevole la sottile ambiguità che Ethan Hawke riesce a conferire al suo Aurvandill), contrapposto a un mondo femminile, più moderno, laico e terreno, ben rappresentato dalle due interpreti principali, anche se il lavoro sporco per attualizzare fino in fondo la vicenda toccherà a Gudrún/Kidman. Interessante anche la figura dello zio Fjölnir: cadetto, bastardo e, in chiave contemporanea, forse la figura più tragica di tutto il branco.