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I militari fanno i colpi di stato per difendere i loro interessi economici

Il capo dell’esercito Abdel Fattah al Burhan assiste a una cerimonia militare a Khartoum, Sudan, 22 settembre 2021. (Mahmoud Hjaj, Anadolu Agency/Getty Images)

Non è difficile trovare le ragioni politiche, geopolitiche, ideologiche o anche personali dietro alcuni dei colpi di stato che continuano a verificarsi in diverse aree del mondo. Ma esiste un’altra spiegazione, spesso trascurata ma non per questo meno importante: l’interesse economico.

In occasione di due golpe portati a termine nel 2021 – in Birmania a gennaio e in Sudan a ottobre – i generali che hanno strappato il potere dalle mani dei civili avevano un enorme interesse finanziario a conservare il controllo del paese. In entrambi gli stati le forze armate sono un attore economico a sé stante, una situazione che per decenni si è ripresentata in molti paesi in via di sviluppo. Secondo Kenneth Roth, direttore esecutivo dell’ong Human Rights Watch, “una motivazione importante dietro i colpi di stato in Birmania e in Sudan va ricercata nei grandi interessi commerciali dei due eserciti, che i vertici non vogliono cedere ai civili. I profitti, in questi casi, hanno la precedenza sulla democrazia”.

Fin dagli anni settanta del novecento in molti paesi dove si è verificata questa situazione è stato necessario un braccio di ferro prima che l’esercito accettasse di mettere da parte i propri interessi economici. Spesso i militari sono stati incoraggiati a sviluppare le proprie attività economiche per generare utili destinati a finanziare l’esercito, ma rapidamente questo settore industriale e commerciale è diventato una fonte di corruzione e un elemento che ha alterato l’equilibrio tra civili e militari. In Cina, negli anni novanta, l’esercito di liberazione popolare (Elp) controllava fino a ventimila attività economiche in tutti i settori. Soltanto all’inizio del nuovo millennio l’Elp ha abbandonato gli ultimi investimenti, anche a causa della pressione della Commissione militare centrale del Partito comunista, intenzionato a riconquistare una completa autorità politica sull’esercito. Negli anni duemila questa operazione è stata facilitata da diversi arresti di alto profilo di generali corrotti che conservavano in garage i frutti delle attività illecite. Al contrario, nell’Egitto del maresciallo Abdel Fattah al Sisi il peso dell’esercito nell’economia è tornato a essere considerevole dopo un periodo di flessione.

Economia in divisa
In Sudan il primo ministro della transizione Abdalla Hamdock, un economista che ha lavorato per le Nazioni Unite, è stato deposto dai militari il 25 ottobre dopo aver attaccato apertamente l’attività economica dell’esercito. Hamdock aveva proposto una distinzione tra gli investimenti nell’industria della difesa, ai suoi occhi accettabili, e quelli negli altri settori. “È impensabile che l’esercito e i servizi di sicurezza investano nei settori produttivi, entrando così in concorrenza con il settore privato”, aveva dichiarato a dicembre del 2020. Quello lanciato da Hamdock era un segnale chiaro del fatto che al termine del periodo di transizione e coabitazione tra militari e civili questa situazione malsana sarebbe stata risolta, e l’esercito avrebbe perso la sua presenza nei settori minerari e agricoli dove oggi è molto attivo. Secondo informazioni non ufficiali l’esercito sudanese parteciperebbe alle operazioni per l’estrazione dell’oro, alla produzione di caucciù e all’esportazione di carne, farina e sesamo. Le aziende militari non pagano imposte e possono contare su agevolazioni negate al settore privato, e questo crea una forma di concorrenza sleale. Il capo dell’esercito, il generale Abdel Fattah al Burhan, autore del colpo di stato del 25 ottobre, si era opposto all’idea di costringere l’esercito ad abbandonare i propri investimenti, ma aveva accettato la possibilità che i militari pagassero alcune imposte. Oggi Al Burhan è il capo assoluto del paese, dunque la minaccia per gli interessi dell’esercito è svanita.

In Birmania la situazione è molto simile. Il Tatmadaw, l’esercito guidato dal generale Min Aung Hlaing che ha preso il potere a gennaio del 2021, costituisce un vero e proprio stato nello stato, dalle radici storiche profonde e dotato di una potenza economica considerevole. L’esercito partecipa, come è noto, al traffico di giada e droga, ma controlla soprattutto l’ufficialissima Myanmar economic holding public company (Mehl), un conglomerato presente in tutti i settori, dalla produzione di birra all’industria tessile passando per le miniere. Un diplomatico statunitense citato da Le Monde ha descritto il Mehl come “una delle organizzazioni più potenti e corrotte del paese”.

Questi interessi finanziari costituiscono la forza ma anche la debolezza dell’esercito: dopo il colpo di stato, infatti, diverse imprese straniere hanno messo fine alla loro partecipazione negli investimenti comuni con il Mehl, come il produttore di birra giapponese Kirin o l’imprenditore di Singapore Lim Kaling. Le organizzazioni per la difesa dei diritti umani propongono di colpire direttamente gli interessi dell’esercito attraverso sanzioni internazionali in modo da punire gli autori dei colpi di stato. Questa strategia della pressione dovrebbe essere generalizzata per favorire il ritorno alla democrazia.

Evidentemente gli interessi economici non sono l’unica causa dell’instabilità e dell’irruzione dei militari nel gioco di potere. Ogni paese e ogni situazione hanno le proprie dinamiche, le proprie influenze esterne, la propria storia e la propria geografia. Ma non bisogna sottovalutare l’importanza della macchina di corruzione rappresentata dagli investimenti delle forze armate nell’economia produttiva. Il direttore di Human Rights Watch ha ragione: per i golpisti “i profitti hanno la precedenza sulla democrazia”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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