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Com’è stata cancellata la speranza di pace tra Israele e Palestina

Washington, 13 settembre 1993. Al centro, Yitzhak Rabin, Bill Clinton e Yasser Arafat dopo la firma degli accordi di Oslo. Sul palco, a sinistra, anche il ministro degli esteri israeliano Shimon Peres e, a destra, il segretario di stato statunitense Warren Christopher con il negoziatore palestinese Abu Mazen. (Gary Hershorn, Reuters/Contrasto)

Esattamente trent’anni fa mi trovavo nella città vecchia di Gerusalemme, nei pressi della porta di Jaffa. Due giovani palestinesi stavano incollando su un muro un manifesto con il volto di Yasser Arafat, quando a un tratto è apparsa una pattuglia di soldati israeliani. Tutto si è fermato. La paura che scoppiasse un’incidente era palpabile. Ma alla fine i soldati sono andati via senza preoccuparsi dei giovani palestinesi, e così l’effige di Arafat è rimasta su quel muro.

Poche ore dopo, a migliaia di chilometri di distanza, sul prato della Casa Bianca, c’è stata la famosa stretta di mano tra il capo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina e i leader israeliani Yitzhak Rabin e Shimon Peres, sotto gli occhi di Bill Clinton. Peres e Arafat avevano appena firmato gli accordi di Oslo, che nelle loro speranze avrebbero dovuto mettere fine a un secolo di conflitti. La scena era in qualche modo simile a quella, altrettanto distensiva, a cui avevo assistito a Gerusalemme.

Gli accordi di Oslo erano basati su un principio semplice: riconoscimento reciproco e autonomia palestinese per cinque anni, al termine dei quali si sarebbero dovute affrontare le questioni più complesse, come le frontiere permanenti dei due futuri stati, il destino dei rifugiati e lo status di Gerusalemme. Ma non ha funzionato, e il Medio Oriente ne paga il prezzo ancora oggi.

All’epoca ero corrispondente da Gerusalemme per il quotidiano francese Libération e posso testimoniare che una solida maggioranza dei due popoli aveva creduto che fosse arrivato finalmente il momento della pace. Tuttavia molti ostacoli sono stati sottovalutati.

Oggi Yossi Beilin, uno dei negoziatori israeliani, ammette che l’errore è stato senza dubbio quello di rinviare gli argomenti più difficili, laddove in quel momento sarebbe stato possibile mostrarsi più audaci. Una volta svanita l’esaltazione iniziale, infatti, i nemici del compromesso storico si sono risvegliati.

Da entrambi i lati.

Sul fronte palestinese gli islamisti di Hamas si sono lanciati in una campagna terrorista sanguinaria, distruggendo la fiducia nel processo di pace. Su quello israeliano, l’estrema destra religiosa ha voluto affossare un accordo che prevedeva la restituzione dei territori ai palestinesi: nel 1994 c’è stato il massacro di Hebron commesso da un colono israeliano, mentre il 4 novembre 1995 Yitzhak Rabin è stato assassinato da un giovane ebreo. Il doppio attacco terrorista ha fatto deragliare un processo già incrinato dalla mancanza di fiducia.

Il fallimento di Oslo ha allontanato per anni l’idea stessa della pace tra israeliani e palestinesi. Intanto la colonizzazione dei territori è andata avanti, così come la violenza.

Paradossalmente l’avvento al potere di una destra ideologica guidata da Benjamin Netanyahu e dai suoi alleati estremisti, legati alle persone che avevano sabotato gli accordi di Oslo, ha riportato l’attenzione sulla questione palestinese. Con un’equazione diversa, perché l’opzione dei due stati è ormai diventata impossibile.

Nel contesto dell’aspra battaglia politica in corso in Israele, una parte degli israeliani si chiede come ritrovare il cammino verso una pace che appare introvabile, mentre altri sognano l’annessione e l’apocalisse. C’è ancora posto per un processo di pace rinnovato? Esistono personalità in grado di resuscitarlo? Di sicuro resta la memoria del 13 settembre 1993, una data che ci ha insegnato qualcosa: lo scontro non è inevitabile.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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