In Iran le porte del carcere non si aprono mai senza suscitare dubbi. Di recente due prigionieri politici piuttosto famosi in tutto il mondo sono stati liberati uno dopo l’altro. Il 4 dicembre è stato il turno di Narges Mohammadi, premio Nobel per la pace nel 2023, mentre pochi giorni prima era toccato al rapper Toomaj Salehi, la cui condanna a morte era stata annullata a giugno.

Non si tratta di una reale liberalizzazione. Mohammadi, giornalista di 52 anni e attivista per i diritti delle donne che ha trascorso gran parte del decennio dietro le sbarre, è stata scarcerata solo per tre settimane, e tra l’altro per ragioni mediche, in seguito a un intervento chirurgico. A breve tornerà in cella, nonostante le obiezioni dei suoi sostenitori sul suo stato di salute.

A causa della fama mondiale di Mohammadi, la cui famiglia vive in Francia, tutto ciò che la riguarda assume una dimensione politica, soprattutto nel contesto delle guerre in Medio Oriente, in cui l’Iran ha un ruolo di primo piano.

L’Iran ha subìto diverse sconfitte nei conflitti regionali in corso. I suoi alleati, che portano avanti i conflitti per conto di Teheran, sono stati considerevolmente indeboliti dall’esercito israeliano: Hamas a Gaza e soprattutto Hezbollah in Libano, punta di diamante dell’influenza iraniana nel mondo arabo.

Teheran non è uscita certo rafforzata dai due scontri diretti con Israele. Al contrario, il suo potere di dissuasione è stato chiaramente intaccato. L’ultimo colpo assestato all’influenza iraniana ha la forma dell’offensiva dei ribelli siriani, che la settimana scorsa hanno conquistato la città di Aleppo. L’Iran è uno dei protettori del regime di Bashar al Assad.

A questo quadro poco incoraggiante possiamo aggiungere l’elezione di Donald Trump, la cui dottrina di “pressione massima” preoccupa non poco Teheran. Con ogni probabilità Trump compirebbe il passo che Biden non ha voluto considerare, ovvero consentire a Israele di bombardare le strutture del programma nucleare iraniano.

L’Iran sta cercando di mostrarsi più conciliante. Il nuovo presidente Masoud Pezeshkian si presenta come un moderato, aperto al dialogo con l’occidente, mentre il governo mantiene attivi i canali di comunicazione con l’Arabia Saudita (sunnita e alleata degli Stati Uniti). A questo si somma la liberazione, per quanto temporanea, di Mohammadi. In pochi credono a una reale conversione del regime dei mullah sul piano delle libertà sociali e del trattamento riservato alle donne, per non parlare del suo attivismo regionale. Eppure chi punta a fermare i conflitti in corso e teme una guerra generale è attento a tutti i segnali.

La partita che si gioca in Siria è sicuramente una delle chiavi dell’equazione. Il paradosso è che il regime di Assad, nonostante i crimini commessi in passato, per alcuni è attualmente preferibile ai ribelli islamisti, anche se hanno preso le distanze dalla nebulosa jihadista. Tra i possibili scenari che circolano in questi giorni c’è anche quello in cui Assad possa essere privato della tutela iraniana.

Chiaramente la scarcerazione di Mohammadi è una buona notizia, ma affinché il gesto del governo iraniano abbia un valore reale bisognerebbe che la giornalista non fosse costretta a tornare dietro le sbarre fra tre settimane e che le venisse restituita la libertà di muoversi e di esprimersi. Un singolo atto di umanità, purtroppo, non significa necessariamente un cambiamento politico.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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