In Italia la ripresa economica soffre di anemia
Le previsioni economiche di primavera della Commissione europea per l’economia italiana sono state accolte da sospiri di sollievo e speranza: è tornato il segno più, siamo usciti dalla crisi. Certo, c’è qualche preoccupazione per i conti pubblici (aggravata dalla sentenza della corte costituzionale sulle pensioni) e c’è molta cautela sulla tenuta di questo trend; nel complesso però prevale l’idea che il peggio sia passato. Ma com’è fatto, il “meglio” che deve venire?
Nonostante le ripetute denunce sulla insufficienza del prodotto interno lordo come indicatore di salute dell’economia e benessere sociale, è sempre lì che tutti andiamo a guardare: per quest’anno si torna in positivo, confermano le cifre Ue, l’anno prossimo le cose andranno meglio con una crescita dell’1,4 per cento. Che è molto minore di quella media dei paesi dell’Unione (1,8 per cento nel 2015, 2,1 per cento nel 2016), però è sempre meglio del segno “meno” del 2014.
Colpisce, tuttavia, un fatto: mentre la produzione cresce, anche se di poco, il tasso di disoccupazione resta altissimo. Si passerà quest’anno, prevede l’Ue, al 12,4 per cento (ma a marzo siamo al 13 per cento, dice l’Istat ), e così resteremo anche l’anno prossimo. La previsione è preoccupante, sebbene tutti i timori finora si siano concentrati su altre tabelle, in particolare, quelle relative alla tenuta dei conti pubblici. A cosa si deve una ripresa senza occupazione? E soprattutto, a cosa ci serve? Alla prima domanda risponde lo stesso rapporto Ue. Che fa una premessa valida per tutti i paesi, e a maggior ragione per l’Italia: stiamo vivendo un’eccezionale combinazione di fattori congiunturali favorevoli, ma c’è il rischio di una “crescita anemica”, non strutturalmente e robustamente sostenuta.
Prezzo del petrolio basso, svalutazione dell’euro e grande liquidità della Banca centrale europea: ecco i tre fattori che potrebbero fare di questa fase una cornucopia per le imprese e per la ripresa economica. Invece, si parla di “anemia”: perché l’eredità della crisi, dice l’Ue, è molto pesante. E perché c’è, per tutta l’Europa, il problema degli investimenti privati e pubblici, che la politica monetaria della Bce fatica a risvegliare. Nello specifico poi, per l’Italia, c’è un altro fattore che spiega perché la disoccupazione non schioda nonostante l’esangue ripresa: cominciano a tornare sul mercato del lavoro gli “scoraggiati”, ossia coloro che avevano rinunciato a cercare lavoro. Questi, per miracolo statistico, stanno a casa ma non sono ufficialmente disoccupati. Dunque, con il riaprirsi delle prospettive torneranno a cercare lavoro, arricchendo l’esercito dei disoccupati. Meglio allora, per capire davvero la tendenza, guardare al tasso di occupazione, che è previsto in leggerissima ripresa: dello 0,6 per cento quest’anno, e dello 0,8 per cento il prossimo. Dunque qualcosa si muoverà, ma sarà troppo poco; i posti di lavoro creati dalla “ripresa anemica” sono una goccia nel mare dei senza lavoro, ufficiali o meno.
Il traino delle esportazioni
E questo, nonostante il fatto che, dopo anni e anni di calo, gli investimenti sono previsti finalmente in ripresa nel 2016. Veniamo da anni tragici: gli investimenti in Italia sono scesi quasi del 2 per cento nel 2011, poi crollati del 9,3 per cento nel 2012, e hanno continuato a scendere del 5,8 per cento nel 2013, e del 3,3 per cento lo scorso anno. La ripresa che arriva, dicono le previsioni Ue e lo stesso documento di economia e finanza del governo, sarà trainata dalla domanda estera: dalle esportazioni. Le imprese italiane che stanno guidando la riscossa dell’export sono caratterizzate da una dimensione media, una grande specializzazione tecnologica, e dunque una bassa quota di forza lavoro. Insomma, investiranno in macchine non in operai. E lo faranno – altro particolare non trascurabile – soprattutto in alcune zone d’Italia, tra il nord e il centro.
Come immettere sangue in una ripresa che ne ha poco? E come indirizzarla (anche) verso investimenti ad alta intensità di lavoro? Il già citato rapporto Ue sollecita queste domande, anche se – di suo – dà le tradizionali ricette: tenere in ordine i conti pubblici, rafforzare le riforme strutturali, far funzionare i mercati. Servirebbero risposte un po’ più originali, per evitare di far fuggire le poche rondini di questa fortunata primavera.