Alla scuola conviene fare la guerra alle prove Invalsi?
“Chi si nasconde dietro l’Invalsi?”. Il coordinamento “contro la buona scuola” di Torino ha scelto la sempreverde dietrologia per saldare, quest’anno, la protesta contro la riforma della scuola in discussione in parlamento con quella più antica, presente da anni nella scuola italiana, contro i test unificati di valutazione delle competenze in matematica e italiano, che coinvolgono gli alunni delle seconde e quinte elementari, della terza media e del secondo anno delle superiori.
Creatura odiata da una parte del mondo della scuola, boicottata attivamente e passivamente, e quest’anno con maggior vigore: ai test che si sono svolti alle elementari la scorsa settimana la partecipazione è stata tra l’88 e il 90 per cento. Cioè: mancano all’appello i test di uno studente su dieci. Il 90 per cento è comunque abbastanza per garantire la rappresentatività delle prove, ha fatto sapere l’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione (Invalsi).
Ma è meno degli anni scorsi, quando, nonostante proteste e mugugni, si raggiungeva il 99 per cento. E dalle parti ministeriali si prevede che la copertura scenderà ancora con la prova di oggi, 12 maggio: si tratta dei test di matematica alle superiori. In questo caso alla protesta dei Cobas e dei coordinamenti spontanei degli insegnanti si aggiungerà quella degli studenti: dell’Unione degli studenti, al grido di “Valutati, no schedati”. Secondo il sito skuola.net, alle superiori il boicottaggio riguarderà uno studente su quattro. Previsione forse eccessiva, ma indicativa del vento che quest’anno ha gonfiato la protesta contro i test.
C’è però da chiedersi se, a un mondo della scuola che ha mostrato un forte malcontento e anche una certa forza con lo sciopero del 5 maggio, convenga andare alla guerra dei test.
Cobas e studenti saranno in viale Trastevere davanti alle finestre della ministra Giannini, mentre i torinesi autori del quesito prima citato andranno sotto le finestre di “chi si nasconde”: gli uffici della fondazione Agnelli, centro di ricerca sulla scuola che ha difeso e difende gli odiati test.
Va detto che non sono i soli, tra chi si occupa di istruzione e politiche scolastiche, a sostenere che le scuole vanno valutate. A favore della valutazione, oltre che l’esperienza internazionale, si citano argomenti di buon senso: ogni anno si affidano circa otto milioni di studenti alla scuola pubblica dell’autonomia, è opportuno sapere come ne escono, quali sono le aree (geografiche o tematiche) a rischio, quali le priorità di intervento. Le percentuali di promossi e bocciati e gli stessi voti non bastano, non essendo uno strumento standard – come ben sanno tutti coloro che sono stati a scuola, hanno figli a scuola, o sono insegnanti o parenti di insegnanti (dunque, quasi tutti) – due studenti possono avere lo stesso voto e preparazioni assai diverse tra una scuola e l’altra.
E allora, ecco i test standardizzati, uguali per tutti – i quiz, gli indovinelli, dicono i critici del sistema Invalsi, citando i numerosi capi d’accusa: non premiano creatività né libero esercizio della critica, esaltano il nozionismo, banalizzano il sapere. A questi se ne aggiungono altri specifici, propri dei test fatti male, come spesso lo sono stati gli Invalsi somministrati nelle nostre scuole: non tengono conto delle difficoltà di studenti portatori di determinate disabilità, non hanno niente a che vedere con i programmi, senza contare gli strafalcioni, errori da matita blu ingloriosamente “somministrati” agli studenti. Alcuni sono troppo facili, altri troppo difficili. Eccetera eccetera.
Tutti questi problemi sono seri, a volte gravi, ma non irrimediabili. Gli errori specifici sono affrontabili, soprattutto con una partecipazione attiva dei principali protagonisti della storia: gli insegnanti, il cui lavoro è oggetto della valutazione. I limiti generali della valutazione per test restano, ma solo quando si considerino i risultati dei test una specie di giudizio divino e definitivo, che ci dice tutto sullo stato della scuola, e non per quello che sono: un termometro, che segnala la febbre ma non ci dice molto sulla diagnosi né sui rimedi.
Invece, una parte della scuola italiana se l’è presa con il termometro: rifiutando di usarlo, nascondendolo, mettendolo fuori uso. Tant’è che una delle principali preoccupazioni è stata ed è quella del teacher-cheating, una forma alla moda per dire “imbroglio”: docenti che passano i risultati ai ragazzi, più o meno apertamente. Una forma di resistenza, di ribellione, che non si spiega solo con le obiezioni tecniche e culturali viste finora.
Il timore non è solo sui metodi dei test, ma sul loro uso. Alcuni dei sindacati e dei movimenti di lotta contro l’Invalsi lo dicono apertamente: volete schedarci, valutare in forma standard il lavoro individuale di ogni insegnante e poi alla fine legare a questi risultati una parte della retribuzione. Così, dicono alcuni, saranno premiati solo i prof “proni” alla logica dei test: quelli che magari cominceranno a piegare tutto il loro insegnamento in funzione dei quiz, attuando quel teaching for the test che è visto come un pericolo anche in paesi che per lunga storia usano metodi standard nella valutazione di studenti e docenti.
Ma va detto che questo non era scritto prima (quando le retribuzioni erano agganciate solo a scatti automatici di anzianità) e non è scritto neanche nella riforma della “buona scuola”, che introduce una parte “premiale”, minimale (200 milioni in tutta Italia), a discrezione del preside. Nel testo originario, quello presentato dal governo, si leggeva: “Il dirigente scolastico, sentito il consiglio d’istituto, assegna annualmente la somma al personale docente che, in base all’attività didattica, ai risultati ottenuti in termini di qualità dell’insegnamento, al rendimento scolastico degli alunni e degli studenti, alla progettualità nella metodologia didattica utilizzata, alla capacità innovativa e al contributo dato al miglioramento complessivo della scuola, è ritenuto meritevole del bonus”: dove “il rendimento scolastico degli alunni e degli studenti”, nel disegno del governo, era solo una della voci.
Che comunque sono sparite tutte nella versione uscita dalla commissione cultura della camera: “Il dirigente scolastico, sulla base dei criteri individuati dal comitato per la valutazione dei docenti, assegna annualmente al personale docente una somma del fondo di cui al comma 1 sulla base di motivata valutazione”.
In tutto ciò, rischia di affondare come un coltello nel burro l’accusa rivolta dai fan della “buona scuola” agli insegnanti e ai loro sindacati: volete conservare tutto com’è perché non volete essere valutati.
Mentre la sofferenza e l’insofferenza di tutto il mondo della scuola ha motivi più ampi, riguardanti l’ossatura della riforma, e anche la sua scarsa portata in termini di cambiamenti reali, di carica di innovazione, di ribaltamento di programmi e prospettive (come spiegano Tullio De Mauro e Christian Raimo).
La guerra dei test ha poco a che vedere con queste ragioni: i docenti che portano avanti la scuola italiana oggi, con tutto quello che fanno e le condizioni in cui lo fanno, dovrebbero pretendere una valutazione. Nella bassa polemica sui quiz, restano infatti nascoste le domande essenziali: cosa si valuta, e perché?
Sul “cosa” si valuta, non serve vedere solo l’esito finale dei test, ma la differenza tra il livello a cui si entra e quello a cui si esce da scuola. Altrimenti i risultati dei test non faranno che ricalcare quelli tra i quartieri, le aree geografiche, i background sociali delle varie scuole: informazione inutile, tutto sommato.
Sul “perché” si valuta: se si scopre che in una scuola qualcosa non va, si punisce togliendole soldi, o ci si mette dentro il meglio (in termini di risorse, personale, materiale)?