Legge di stabilità, i giovani possono attendere
Il giovane Renzi si trasforma da rottamatore in benefattore di anziani? A leggere quel che già si sa della manovra 2017, sì. Il capitolo principale della manovra per il 2017 che si sta scrivendo riguarda le pensioni. O meglio, i pensionati attuali. Una buona parte di loro beneficerà dell’aumento delle pensioni più basse, che avverrà attraverso tre canali: un aumento della quattordicesima per le pensioni basse che già ne godono (ossia le pensioni pari almeno a 1,5 volte il livello minimo: sono 2,1 milioni di pensionati), l’estensione della quattordicesima stessa anche alle pensioni della fascia superiore, fino a due volte il minimo (e qui si coprono altri 1,2 milioni di persone), l’allargamento della “no tax area”.
In sostanza: ci guadagneranno tutti i pensionati che stanno sotto i mille euro lordi al mese – tranne i più poveri, quelli che prendono solo la pensione sociale.
Una manovra popolare, della quale già molti hanno sottolineato l’impronta preelettorale: gli anziani, oltre a essere di più, hanno ancora un certo attaccamento alle urne. E va detto che chi vive con pensioni del genere non è certo un nababbo. Ma per valutare la sua equità, dal punto di vista della distribuzione tra le generazioni, è bene allargare un po’ il campo a quel che è successo alla distribuzione del reddito e del benessere negli ultimi anni. E alle ultime manovre.
Negli ultimi cinque anni, come si vede in questo grafico, l’incidenza della povertà assoluta sulla popolazione è passata dal 4,4 al 7,6 per cento degli individui.
A questo aumento hanno contribuito tutte le fasce d’età, con l’unica eccezione degli ultrasessantacinquenni. Per i minori e per i “giovani” (fascia d’età 18-34 anni) la povertà assoluta è raddoppiata. La povertà relativa degli over 65 è addirittura diminuita, dato che la sua incidenza è passata dal 12,1 all’8,6 per cento, mentre saliva per tutte le altre fasce di età e in particolare per i bambini e i giovani fino a 34 anni, come mostra il secondo grafico.
Dunque, la fascia d’età su cui si interviene non è quella più colpita dal generale impoverimento conseguente alla crisi, anzi è tra quelle rimaste maggiormente al riparo.
Chi ha resistito meglio
Questo non vuol dire che non ci siano pensionati poveri: basta pensare che sia la pensione “sociale” (448 euro al mese) sia quella integrata al minimo (501,89 euro al mese, attualmente) sono sotto la linea di povertà assoluta che l’Istat traccia per una famiglia con un solo componente (equivalente alla spesa di 630,57 euro al mese).
Ma evidentemente chi poteva contare comunque su un’entrata costante ha resistito meglio alla crisi, contando magari su un piccolo patrimonio, o anche solamente sulla casa di proprietà. Gli aumenti previsti dalla manovra riguarderanno le pensioni non assistenziali (dunque non andranno a quelle “sociali”), ma andranno anche a chi è proprietario della casa in cui vive, e prescinde dal reddito familiare. Se si voleva incidere sulla povertà si poteva tarare l’intervento sull’Isee (come aveva proposto il presidente dell’Inps Tito Boeri). E comunque bisognerebbe spiegare perché la povertà degli anziani, nelle preoccupazioni del governo, “pesa” di più di quella dei bambini e dei giovani.
La manovra sulle pensioni è poi completata dalla cosiddetta Ape, che dà la possibilità di anticipare l’età della pensione: in sostanza, è diretta a una fascia d’età precisa (i nati dal 1951 al 1953) penalizzati dall’improvviso aumento dell’età pensionabile della legge Fornero. Ma solo una parte di loro avrà risorse pubbliche per finanziare quest’uscita, con la cosiddetta Ape social, limitata ai lavori usuranti e a categorie particolarmente svantaggiate. Qui c’è un impatto diretto a favore di una piccola parte dei lavoratori anziani, ma anche uno scopo più ampio: quello di favorire il turn over aiutando così sia le imprese sia i più giovani che potrebbero entrare sul mercato.
È invece rinviato a una “fase due” l’intervento sulle future pensioni degli attuali giovani: certo non darebbe risultati immediati, ma può evitare che si formino, come pronosticato da tutti i tecnici e ormai noto ai diretti interessati attraverso la busta arancione, schiere di pensionati poverissimi a causa di carriere discontinue, bassi salari e regole del sistema contributivo.
I vantaggi per i redditi più alti
Lo ha scritto sull’Unità lo stesso sottosegretario al lavoro Tommaso Nannicini, chiedendosi: “E le pensioni dei giovani?”, e rispondendo con la promessa di una fase due, nella quale, dice, sarà finalmente riformata la gestione separata per le partite iva e si potrà prendere in considerazione anche l’introduzione di una “pensione contributiva di garanzia”. Ma per tutti questi temi, dei quali si discute da anni, bisognerà aspettare la fase due.
E le precedenti manovre? Andando a ritroso nella Renzinomics, l’impatto generazionale appare meno esplicito negli intenti ma comunque, nei risultati, abbastanza sbilanciato nella fascia alta dell’età.
Per prendere gli 80 euro, un lavoro dipendente bisognava comunque averlo
Il primo imponente provvedimento di spesa, quello degli 80 euro per tutti i lavoratori dipendenti, di per sé, se si guarda solo all’interno della platea interessata, porta una certa redistribuzione generazionale, dato che ha un tetto di 24-26mila euro all’anno ed è all’inizio della carriera che si guadagna di meno. E infatti, nella quota di famiglie beneficiarie nel 2014 si ha che il 37,5 per cento ha il capofamiglia sotto i 34 anni, una quota analoga tra i 35 e i 44, e il 25,1 tra i 45 e i 54 anni (quasi inesistente la quota over 65, visto che la misura era per i redditi da lavoro e non da pensione).
Questi i dati forniti da Bankitalia, nella Relazione annuale sul 2015, nella quale si ribadisce anche che la misura, dal punto di vista redistributivo, ha avvantaggiato in modo più che proporzionale le famiglie a reddito più elevato, poiché erano esclusi gli incapienti e poiché era basata sul reddito individuale e non familiare.
Tornando alla questione generazionale, va detto però che il vantaggio della maggior presenza di giovani tra i dipendenti a basso reddito va controbilanciato dalla scarsa presenza di giovani nella generalità della platea dei dipendenti stessi: vale a dire, per prendere gli 80 euro, un lavoro dipendente bisognava comunque averlo.
Sul lavoro si è concentrato il secondo grande capitolo di spesa del governo Renzi. Se la manovra sugli 80 euro “vale” 9,5 miliardi l’anno, per la decontribuzione per i nuovi assunti con contratto a tutele crescenti la legge di stabilità del 2015 aveva previsto una spesa di 11,8 miliardi in tre anni. Secondo le stime di Marta Fana e Michele Raitano, sulla base dei risultati del primo anno, il costo netto effettivo andrà da un minimo di tre a un massimo di 5,7 miliardi l’anno. Chi ha beneficiato di questa ingente spesa pubblica? Guardando all’anno 2015 – anno entro il quale bisognava fare le assunzioni per godere dello sgravio – il bilancio tracciato dall’Inps evidenzia che “l’incremento dei nuovi rapporti di lavoro a tempo indeterminato è stato particolarmente rilevante per gli under 30: più 76 per cento (+ 62 per cento la variazione complessiva)”.
Su questa migliore performance ha pesato l’esonero contributivo: infatti la quota di assunzioni che hanno goduto dello sconto contributivo è più alta tra i giovani che tra gli altri (30 per cento contro 22 per cento, nota l’Inps). Ma non sembra che tale potenza di fuoco abbia cambiato in modo determinante le scelte di assunzione: “Nel complesso i giovani risultano destinatari del 27 per cento delle assunzioni/trasformazioni a tempo indeterminato; nel biennio precedente 2013/2014 la quota corrispondente era stata leggermente inferiore” (corsivo nostro: per la precisione, fu al 26 e al 24,8 per cento).
A scuola e a casa vincono le vecchie generazioni
Questo l’effetto sui contratti. Che non equivale – lo abbiamo imparato nella lunga partita a ping pong tra i dati del ministero e quelli dell’Istat – all’effetto sull’occupazione. Che, come si può vedere nel grafico, è stato, dal punto di vista generale, abbastanza contenuto, e dal punto di vista generazionale totalmente spostato verso le fasce d’età più alte: effetto delle riforme pensionistiche più che di quelle del diritto del lavoro e dei suoi incentivi.
Tornando indietro alle manovre 2015, va segnalato l’impatto generazionale della politica di assunzioni nella scuola, avvenuta in due tempi: la regolarizzazione dei precari con l’assorbimento delle graduatorie a esaurimento (circa 150mila, prima fase della Buona scuola) e il concorso dell’anno successivo (63mila posti). L’età media della prima infornata era molto alta, per forza di cose: le graduatorie si erano riempite e consolidate negli anni, portando a un’età media di 43 anni, con quasi il 20 per cento dei nuovi assunti over 50.
Il successivo concorso era destinato a “svecchiare” la scuola (ultimamente l’Ocse ha notato che la nostra classe insegnante è la più vecchia di tutti i paesi membri), ma in virtù dei requisiti per la partecipazione e della selezione avvenuta, ha visto un’età media dei partecipanti sui 39 anni e – secondo le prime stime – quella dei vincitori più alta, sui 45 anni.
Il perno e simbolo della manovra dell’anno successivo, ossia l’abolizione totale della tassa sulla prima casa prevista nella legge di stabilità per il 2016, è invece marcatamente favorevole ai più anziani. Se si guardano le famiglie proprietarie dell’abitazione in cui vivono per età del capofamiglia, si va da un minimo del 43,9 per cento tra gli under 34, salendo al 56,5 per cento per quelli tra i 35 e i 44 anni, fino al 75-76 per cento della fascia d’età che va oltre i 55 anni. Ma in questi dati (Bankitalia, Indagine sui bilanci delle famiglie) contano solo i giovani che una famiglia l’hanno formata, non tengono conto di quanti vivono ancora a casa con i genitori: quota salita nell’ultima rilevazione Istat al 62 per cento dei giovani tra i 18 e i 34 anni. Nella politica della casa, almeno quella fiscale, non paiono esserci dubbi sulla redistribuzione a favore dei più anziani: mentre di altre manovre di politica abitativa per ora non c’è traccia, stavolta neanche una promessa di “fase due”.