Cosa vuole la lobby delle università telematiche dal senato
Hanno macinato studenti e profitti, in una crescita mirabolante, negli anni in cui l’università statale perdeva colpi. Riempiono cartelloni pubblicitari e spot dalle radio al cinema, con i loro studenti sorridenti davanti al laptop nei parchi. E adesso riescono nell’impresa di riunire quasi tutto l’arco parlamentare, altrimenti litigiosissimo, in una guerra sotterranea di emendamenti in quella fiera delle lobby che è l’esame del “milleproroghe”.
Sono le università telematiche italiane, tutte private, unite nella lotta contro l’ultimo atto della ex ministra Stefania Giannini, che ha imposto agli atenei a distanza di allinearsi a quelli tradizionali nel rispetto dei requisiti di docenza, ossia il rapporto tra il numero di studenti e quello dei professori. Un decreto “ammazza-telematiche”, tuona dai microfoni della sua radio una delle più attive università a distanza, la Niccolò Cusano.
Così nelle aule di palazzo Madama, su iniziativa compatta del gruppo di Alleanza popolare (i centristi di Alfano), due emendamenti vogliono azzerare la riforma, e rinviare al 2020 l’obbligo per le telematiche di assumere nuovi docenti. In sostanza, per salvare il regime speciale che permette alle telematiche di gestire quasi 60mila studenti con meno di 200 docenti di ruolo. E con esso il business degli atenei online.
Dal 2004, anno nel quale furono istituite dalla ministra Letizia Moratti dell’epoca, le università telematiche hanno assistito a un boom ininterrotto, salendo dai 1.495 iscritti del primo anno accademico ai 58.954 dell’anno 2014-2015. Si tratta degli atenei la cui attività si svolge interamente a distanza, cosa diversa dall’attivazione di piattaforme aperte per corsi di laurea online (il fenomeno dei Mooc, Massive open online courses attivati dagli atenei, è successivo e attivo in alcuni grandi atenei e politecnici italiani solo da pochi anni, a integrazione e potenziamento dei corsi in presenza).
Salute da tutti i pori negli anni della crisi
Le università telematiche italiane sono adesso 11, tutte private, coprono 73 corsi di studio tra i quali prevalgono le discipline giuridiche, economiche e umanistiche; e assorbono il 3,5 per cento degli studenti – sul 9,4 per cento complessivo che va alle università non statali. Le più grandi sono la Marconi, la Niccolò Cusano di Roma e la Uninettuno a Roma, la e-Campus di Novedrate (collegata al Cepu), la Pegaso di Napoli (che ha di recente acquisito la Mercatorum dalle camere di commercio). A volte sono nate da consorzi di aziende e università, molto spesso nel settore sono entrati gruppi specializzati nel recupero esami e debiti scolastici.
La loro crescita è stata continua, sia negli anni in cui l’onda lunga della riforma universitaria “tre più due” e del riconoscimento dei crediti formativi legati a esperienze lavorative (il piano “laureare l’esperienza”) hanno gonfiato le iscrizioni a tutto il sistema universitario, sia in quelli successivi, quando le restrizioni di tali possibilità e nuovi più severi requisiti per l’accreditamento dei corsi hanno imposto una cura dimagrante al sistema; ed è proseguita anche nel periodo peggiore della crisi, quando le difficoltà economiche delle famiglie hanno contribuito a causare un calo delle immatricolazioni nel sistema, che si è fermato solo negli ultimi due anni e solo nel centronord.
Anzi, proprio negli anni della peggiore emorragia dagli atenei tradizionali, le telematiche sprizzavano salute da tutti i pori. Questo discorso vale se si misura la salute dal numero degli studenti: se si va invece a guardare l’offerta, ossia la quantità di docenti messi a disposizione e la loro composizione, le cose cambiano.
Gli atenei telematici, sebbene basati sull’insegnamento a distanza, sono università a tutti gli effetti e dunque per essi valgono, o dovrebbero valere, gli stessi standard del resto del sistema circa i requisiti dell’insegnamento – dato che il titolo di studio conseguito alla fine ha lo stesso valore legale degli altri. E uno dei criteri fondamentali, per l’attivazione dei corsi di studio, è il rapporto tra la quantità di studenti e il numero degli insegnanti. Eppure, come si vede dal grafico qui sopra, le cose stanno in modo molto diverso. Se nelle università telematiche, nella media, ci sono circa 90 studenti per ogni docente, nelle tradizionali ce ne sono solo 30. E questo, se si calcolano tutti i docenti, sia quelli di ruolo (ricercatori, associati e ordinari) sia quelli straordinari e a tempo determinato.
Se ci si limita invece solo ai docenti di ruolo, il rapporto è ancora più sperequato, visto che è di 319,8 studenti per docente nelle telematiche, e resta attorno ai 30 per le tradizionali. Il che dà un enorme vantaggio competitivo, in termini di costo, alle telematiche, che pure impongono ai loro studenti rette più alte, tra i duemila e i tremila euro all’anno.
Com’è stato possibile tenere in vita un sistema così squilibrato? In realtà la sproporzione è stata consentita dalle regole del sistema, poiché gli standard per l’insegnamento hanno fatto finora riferimento agli studenti immatricolati, e non al complesso degli iscritti al primo anno.
La differenza può essere notevole, poiché con il passare del tempo le telematiche hanno sempre più assorbito studenti provenienti dalle università statali, oppure persone adulte che, avendo lasciato l’università da tempo senza laurearsi, potevano comunque presentare alcuni esami dati in passato, e dunque essere registrati come “iscritti” e non come “immatricolati”: la quota di immatricolati, ossia di persone che non avevano alcuna precedente esperienza universitaria, è dell’80 per cento per le università tradizionali, mentre è solo del 36 per cento per le telematiche (i dati sono stati presentati nel corso di una conferenza Anvur sulla didattica universitaria in Italia). Il piccolo dettaglio della differenza tra “iscritti” e “immatricolati” ha permesso finora alle telematiche di fare il pieno degli studenti senza dover necessariamente procedere a infornate di nuovi docenti.
Gli studenti, a loro volta, possono essere attratti dalla comodità e novità dell’insegnamento a distanza, ma anche da una generosa politica dei crediti riconosciuti per esperienze pregresse: nell’anno accademico 2013-2014, nei corsi di laurea triennali sono stati riconosciuti in media 6,3 crediti formativi all’ingresso nelle università tradizionali, 22,9 nelle telematiche. Nelle lauree a ciclo unico, poi, per i crediti telematici è un boom: 127,3 crediti riconosciuti nella media all’ingresso, contro i 21 degli atenei tradizionali.
Anche in questo caso, la stretta avvenuta a metà dello scorso decennio, quando con alcuni decreti il ministero dell’istruzione ha messo dei freni alla politica larghissima di riconoscimento dei crediti lavorativi (che aveva comportato infornate di studenti maturi da singole categorie della pubblica amministrazione, con le quali gli atenei avevano stretto convenzioni), non ha funzionato appieno. Circa il riconoscimento dei crediti formativi, infatti, resta la discrezionalità degli atenei nel valutare il peso da dare agli esami fatti in passato. E con tutta evidenza nelle telematiche la valutazione è più generosa.
Lobby telematica al senato
Ma non è che gli studenti “maturi”, che hanno già avuto esperienze universitarie in passato, siano meno studenti degli altri: anche loro vanno contati quando si misurano i parametri della docenza. Questa è la linea decisa con l’ultimo atto della ministra dell’istruzione Giannini, che ha imposto alle telematiche di contare tutti gli iscritti al primo anno per valutare se si è o no in regola, e questo a valere dal prossimo anno accademico. Quella previsione del decreto, subito ribattezzato dai diretti interessati “ammazza-telematiche”, potrebbe però adesso essere vanificata. Due emendamenti al decreto legge milleproroghe, adesso all’esame del senato, raccolgono le proteste del mondo delle università telematiche italiane (anche se, come si vede dalla tabella 3, non sono tutte uguali nella lontananza dai requisiti per stare in regola), e spostano di tre anni l’asticella: tutto rinviato al 2020. A guidare la pattuglia pro-telematiche, lo schieramento di Area popolare (Ncd-Cp, il primo firmatario è Bruno Mancuso, tesoriere del gruppo), che ha raccolto poi adesioni da numerosi senatori di tutto l’arco parlamentare, dal Pd a Forza Italia alla Lega (5stelle esclusi).
Una simile sintonia d’intenti è molto rara per le altre materie e anche per la stessa politica dell’università e della ricerca. Resta da vedere se il governo terrà duro sulla linea scelta solo pochi mesi fa, in nome della lotta all’inflazione dei corsi e del controllo sulla loro qualità, a tutela soprattutto degli studenti – paganti – che li scelgono.