Quando è cominciato il lockdown in giro per il mondo, molte redazioni hanno chiesto ai giornalisti di lavorare da casa. Il telefono e le videochiamate hanno sostituito molto del lavoro sul campo. Anche i fotografi hanno dovuto seguire le restrizioni e tanti hanno smesso di spostarsi dentro e fuori dal proprio paese, cercando un nuovo modo di documentare quello che stava e sta succedendo.

C’è chi ha raccontato la propria quarantena o è entrato negli appartamenti di amici e conoscenti attraverso la videocamera del computer. Graziano Panfili ha trovato un modo alternativo di viaggiare, estrapolando immagini dai video delle telecamere di sorveglianza in giro per il mondo. Paolo Pellegrin, da reporter di guerra, ha ruotato la macchina fotografica verso la sua famiglia. Gabriele Galimberti ha fotografato le persone affacciate alle finestre nelle prime settimane di quarantena a Milano. Alberto Giuliani e Andrea Frazzetta hanno ritratto i volti dei medici e degli infermieri impegnati nella lotta contro il covid-19.

Le foto delle città vuote, scattate all’inizio di marzo, sono diventate una metafora visiva della pandemia, la negazione del movimento, l’impossibilità di condividere lo spazio.

Durante il lockdown
Anche chi sta dall’altro lato e sceglie le foto da pubblicare sui giornali si è trovato davanti a un mondo nuovo. Ha imparato a fare i conti con i ritratti in cui si vedono solo occhi, paesaggi desolati, reparti di terapia intensiva, pazienti soli. E ha dovuto tenere in considerazione la sicurezza dei fotografi a cui commissionare i lavori.

Per il reportage The great empty il New York Times ha chiesto a fotografi e fotografe di tutto il mondo di ritrarre le loro città svuotate: “Per molti il lavoro nasce dalla prossimità con le persone o all’azione. In questo caso, invece, dovevano evitare di stare troppo vicino o in spazi troppo stretti”, ha scritto Emily Palmer. Tracy Grant, del Washington Post, ha raccontato che il quotidiano statunitense fornisce i dispositivi essenziali di sicurezza ai giornalisti e ai fotografi con cui lavora.

Il 15 marzo il fotoreporter Fabio Bucciarelli è arrivato nella bergamasca, a quel tempo uno dei maggiori focolai italiani di covid-19, per un assegnato del New York Times. Bucciarelli è un reporter di guerra. Ha seguito, tra gli altri, i conflitti in Libia e in Siria. In questo caso, dice, ha accettato il lavoro soprattutto perché, dopo aver visto le immagini delle città vuote e delle persone in strada con le mascherine, sentiva il bisogno di conoscere e mostrare gli effetti e i rischi del virus, e il lavoro estenuante dei medici.

Per tredici giorni ha seguito gli operatori della Croce rossa nelle case di chi era stato contagiato e ha documentato il lavoro in alcuni ospedali della zona. “Quando sono arrivato ho seguito un lungo briefing degli operatori per capire quale sarebbe stato il protocollo di sicurezza che avrei dovuto seguire”.

Ogni giorno Bucciarelli doveva indossare una tuta che gli copriva tutto il corpo, dalla testa alle caviglie; degli occhiali in plexiglass; una mascherina con un filtro di protezione molto alto e due paia di guanti. “Quanto più tempo passi in un luogo contaminato, maggiore è il rischio di infettarsi. E se lo spazio in cui ti muovi è molto stretto, la distanza che puoi mantenere è poca, quindi è più pericoloso sia per te sia per gli altri”.

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Seguendo questo rigido protocollo, Bucciarelli poteva muoversi liberamente, ma ha dovuto decidere in anticipo quali macchine fotografiche usare. “Ne ho scelte due, su cui ho montato due obiettivi fissi. In questo caso non potevo usare una borsa per portarmi altre lenti, altrimenti avrei contaminato tutto. Quello che resta fuori dalla tuta è a rischio”.

Spogliarsi era la fase più delicata: “Per prima cosa posavo l’attrezzatura. Poi mi levavo un paio di guanti e lo buttavo, e mi lavavo le mani coperte dagli altri guanti con un gel disinfettante. Poi toglievo la tuta senza toccare la parte esterna e sfilandola da sotto le scarpe. Poi la mascherina, tirata via dalle orecchie verso l’esterno, senza toccare il viso”. Dopo disinfettava ogni componente dell’attrezzatura. Alla fine poteva togliere gli occhiali e il secondo paio di guanti.

Rientrato a Torino, Bucciarelli ha scelto di passare quattordici giorni in quarantena prima di dedicarsi a un altro lavoro: “Mi sembrava corretto visto che ero stato in luoghi ad alto rischio di contagio”.

Dopo l’isolamento
I fotografi che seguono l’attualità si sono ritrovati davanti a interrogativi professionali, etici e personali. Il 19 aprile la fotografa Alyson McClaran era a Denver, in Colorado, quando alcuni automobilisti hanno cominciato a protestare contro il blocco delle attività economiche imposto dal governatore dello stato. Un infermiere ha cercato di bloccarli. McClaran ha raccontato di non essere riuscita a scattare molto perché non si sentiva al sicuro: i manifestanti erano senza mascherine e non veniva rispettata la distanza di sicurezza.

La protesta contro il lockdown a Denver, Colorado, il 19 aprile 2020. (Alyson McClaran, Reuters/Contrasto)

La freelance statunitense Gabriela Bhaskar in una recente intervista ha raccontato di sentirsi combattuta. Non sa se accettare o meno nuovi lavori in questo periodo: “Da un lato sento che il mio dovere è stare lì fuori, dall’altro penso che potrei mettere in pericolo la mia famiglia”. Al tempo stesso racconta di risentire molto della distanza che deve mantenere dai soggetti: “Ero abituata a mettere le persone a loro agio, a stringere le mani, stargli vicino, toccarli per rassicurarli prima dello scatto. Non posso più farlo ora”.

Dall’inizio della quarantena, il Committee to protect journalists ha pubblicato alcune raccomandazioni per i fotografi che lavorano sul campo. Tra queste ce ne sono alcune per i luoghi affollati: evitare di avvicinarsi troppo alle persone; scegliere una posizione da cui si possa eventualmente scappare senza restare bloccati tra la folla; provare a trovare punti di vista meno rischiosi, come dall’alto.

La giusta distanza
In alcuni paesi, dove la disuguaglianza e la povertà sono più diffuse, la situazione può essere ancora più complicata. Marco Longari, fotografo e capo dell’ufficio fotografico dell’Agence France-Presse in Africa, si trova a Johannesburg, dove vive e lavora da sei anni.

Quando si è diffusa l’epidemia di ebola in Africa nel 2014, Longari si era occupato dei protocolli di sicurezza per i fotografi e gli altri collaboratori dell’agenzia. Ora cura quelli per l’epidemia di covid-19. “Molti paesi africani, come Uganda, Repubblica Democratica del Congo, Liberia, Sierra Leone e Repubblica Centrafricana, stanno seguendo direttive simili a quelle che erano state adottate per l’ebola”, dice Longari.

Dalla metà di marzo il fotoreporter sta documentando il modo in cui Johannesburg affronta l’epidemia. Da allora in Sudafrica il presidente Cyril Ramaphosa ha incaricato diecimila agenti d’individuare chi ha sintomi di covid-19 e portarlo in ospedale per il tampone. “Era dalla fine dell’apartheid che non c’erano i soldati in strada per così tanto tempo. Ci sono stati anche vari incidenti. L’esercito ha usato i proiettili di gomma per costringere le persone a rispettare le distanze”.

Il problema maggiore nel paese è che con la sospensione delle attività molte famiglie rischiano la povertà. “All’inizio di maggio stavo seguendo una distribuzione alimentare e accanto alla fila di persone che aspettavano di ricevere il cibo è passato un uomo bianco su una grossa auto d’epoca. Mi è sembrata un’immagine molto rappresentativa del Sudafrica di oggi”. Nelle township si condividono spazi molto ristretti e i servizi igienici sono scarsi. Mantenere le distanze è quasi impossibile.

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Tuttavia, il lockdown ha anche permesso a Longari di accedere a situazioni a cui prima non poteva avvicinarsi: “Per la prima volta io e i miei colleghi siamo riusciti a entrare in quartieri densamente popolati, dove la criminalità è molto diffusa, come Hillbrow e Berea. Sembra si sia riscoperta l’importanza del fotogiornalismo, che in Sudafrica ha avuto un ruolo fondamentale nel raccontare le ingiustizie e la povertà. Il nuovo coronavirus può essere l’occasione per far emergere storie che altrimenti resterebbero sommerse”.

In questo periodo Longari e i suoi colleghi indossano mascherine chirurgiche e guanti monouso per lavorare. Conservano le mascherine ad alta protezione per il futuro: “In Sudafrica non siamo ancora potuti entrare negli ospedali per via delle leggi sulla privacy che non lo permettono. Ma speriamo che ci daranno presto l’accesso, altrimenti mancherebbe una documentazione importante di quello che sta succedendo”.

Dalle testimonianze di fotografi e fotografe emerge un aspetto comune. La difficoltà che stanno incontrando in questo momento non è solo mantenere la distanza fisica per scattare le foto, ma dover rinunciare al contatto, fisico ed emotivo, con le persone. “Ognuno deve trovare la propria giusta distanza, in cui si sente al sicuro, senza mettere in pericolo se stesso e gli altri, e senza tradire il proprio linguaggio fotografico”, conclude Longari.

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