×

Fornisci il consenso ai cookie

Internazionale usa i cookie per mostrare alcuni contenuti esterni e proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso, consulta questa pagina.

Il virus del capitalismo

Lo sciopero dei lavoratori di Amazon a Seattle, stato di Washington, per chiedere all’azienda maggiori tutele contro il covid-19. 1 maggio 2020.

(Jason Redmond, Afp)

Visto con gli occhi di oggi, il periodo del primo panico da covid-19 dei mesi scorsi si tinge quasi di una luce nostalgica: è vero, eravamo in quarantena, ma ci aspettavamo che durasse un mese o due, e che poi la vita sarebbe tornata a una qualche forma di normalità. Perfino l’immunologo Anthony Fauci aveva detto agli statunitensi di prepararsi al momento in cui si sarebbero goduti le vacanze estive. Percepivamo la quarantena come un periodo eccezionale: quasi una tregua gradita nelle nostre vite troppo indaffarate, nella quale potevamo goderci un po’ di pace in famiglia, leggere libri, ascoltare musica, avere il piacere di cucinare i nostri pasti, sapendo che sarebbe finita presto.

Ora siamo in quella che alcuni chiamano fase whack-a-mole, dal nome del gioco in cui bisogna colpire il pupazzo sfuggente di una talpa: emergono con una certa regolarità dei focolai circoscritti di persone infette, mentre in paesi come Stati Uniti, Brasile e India il numero dei contagi esplode. Solo ora siamo costretti ad accettare che stiamo entrando in una nuova era, in cui dobbiamo imparare a convivere con il virus.

La situazione è incerta, non si capisce con chiarezza quale direzione prenderà il virus. Come ha sintetizzato il virologo tedesco Hendrik Streeck, “non c’è alcuna seconda o terza ondata: siamo in un’ondata permanente”. Ma siamo ancora troppo concentrati sulle statistiche del covid-19, e molti di noi controllano regolarmente il numero di contagiati, morti e guariti su siti come Worldometer. Questa fascinazione per i dati della pandemia ci fa dimenticare che un numero molto più alto di persone sta morendo di cancro, infarto, inquinamento, fame, a causa di conflitti armati o di violenza domestica. È come se il fatto di tenere sotto controllo i contagi da covid-19 facesse sparire tutti i nostri problemi. Ma la vita umana resterà piena d’infelicità: in un certo senso, la vita umana è una cosa infelice che finisce in maniera dolorosa, spesso con una sofferenza insensata.

Esempi eclatanti
Inoltre si sta facendo sempre più chiaro il legame tra la pandemia e la nostra difficile situazione ambientale. Può darsi che riusciremo a domare il virus, ma l’emergenza climatica imporrà misure molto più radicali. Aveva ragione Greta Thunberg quando, poco tempo fa, ha dichiarato che “la crisi climatica ed ecologica non può essere risolta all’interno del nostro attuale sistema politico ed economico”. Di fronte al cambiamento climatico e all’inquinamento, che uccidono milioni di persone ogni anno, una mobilitazione globale come quella che siamo riusciti a creare per il covid-19 sarà ancora più necessaria. Eppure continuiamo a non agire in questo senso. Come ha detto Thunberg in uno splendido rovesciamento della fiaba di Andersen: “Gli imperatori sono nudi. Ogni singolo imperatore. A quanto pare tutta la società è una grande festa nudista”.

Citiamo solo un caso di cambiamento climatico che dovrebbe convincere anche i più scettici: l’ondata di caldo in Siberia, che ha provocato una serie di incendi incontrollati, una grave perdita di gasolio e un’invasione di falene che mangiano gli alberi. Le città russe nel circolo polare artico hanno registrato temperature straordinarie: il 9 giugno Nižnjaja Peša ha toccato i trenta gradi centigradi. Il disgelo del permafrost è perlomeno una della cause della perdita di gasolio che ha spinto Putin a dichiarare lo stato d’emergenza. Le fondamenta di un serbatoio di stoccaggio sono improvvisamente sprofondate a causa del riscaldamento del terreno. Pensate solo ai batteri e ai virus che, congelati da lungo tempo, non aspettano altro che di essere rimessi in circolazione dal disgelo del permafrost.

Lo stesso vale per il legame tra il covid-19 e le proteste contro il razzismo. L’unica vera risposta a un certo dibattito sul movimento Black lives matter (le obiezioni di chi dice “All lives matter”, tutte le vite contano) è un fotomontaggio prodigiosamente brutale che circola oggi negli Stati Uniti. Nella foto si vede Stalin che tiene un manifesto con la scritta “No lives matter”, nessuna vita conta. La verità di questa provocazione è che ci sono cose più importanti che essere semplicemente vivi: non è forse questo il senso profondo delle proteste contro le violenze della polizia sui neri? I neri statunitensi (e chi li sostiene) non chiedono semplicemente di sopravvivere, ma di essere trattati con dignità, come cittadini liberi del tutto uguali ai bianchi, e per questo sono pronti a rischiare molto, comprese, a volte, le loro vite. È per questo che si riuniscono per protestare nonostante la partecipazione alle manifestazioni aumenti il rischio di contagio.

Viene da chiedersi se non avesse ragione il filosofo italiano Giorgio Agamben quando ha criticato le misure di distanziamento sociale e l’isolamento imposto dallo stato durante il lockdown come un qualcosa che implica la nostra riduzione a semplici vite umane. Come se, quando rispettiamo questi ordini, affermassimo che siamo pronti a rinunciare a quello che rende le nostre vite degne di essere vissute, in cambio della semplice sopravvivenza. Ma per restare pienamente umani, dobbiamo quindi rischiare le nostre vite, esponendoci a un possibile contagio? Il problema, in posizioni di questo tipo è che oggi i principali oppositori alle misure d’isolamento si trovano nei ranghi della nuova destra populista, che vede in tutte le misure restrittive, dal confinamento all’obbligo d’indossare la mascherina, un’umiliazione per la nostra libertà e la nostra dignità.

Di fronte a questa rivendicazione, dovremmo rispondere con una domanda cruciale: cosa comporta concretamente, per i lavoratori, l’abolizione del confinamento e dell’isolamento? Comporta che, per poter sopravvivere, queste persone devono avventurarsi in un mondo insicuro, rischiando di essere contagiate.

Questo ci porta al punto centrale della questione: il modo contraddittorio in cui l’epidemia di covid-19 ha influenzato la nostra economia. Da una parte ha obbligato le autorità a prendere misure che, in certi casi, tendono quasi al comunismo: una forma di reddito minimo universale, sanità pubblica e così via. Ma questa inaspettata apertura al comunismo è solo una faccia della medaglia.

Contemporaneamente un processo opposto va avanti con grande violenza: gli stati salvano le grandi aziende e queste accumulano ricchezze.

I contorni del corona-capitalismo stanno gradualmente venendo fuori, e con essi nuove forme di lotta di classe. Per citare un articolo di Joshua Simon pubblicato sulla rivista Social Text: “Le città degli Stati Uniti hanno visto il più grande sciopero degli affitti negli ultimi decenni, almeno 150 scioperi e astensioni dal lavoro (in particolare dei dipendenti dei magazzini di Amazon) e scioperi della fame in strutture detentive per rifugiati. Allo stesso tempo alcune ricerche mostrano che i miliardari statunitensi hanno incrementato la loro ricchezza collettiva di 282 miliardi di dollari in appena 23 giorni, durante le settimane iniziali del confinamento legato al covid-19. Non possiamo che registrare il moltiplicarsi delle disuguaglianze durante la pandemia e il confinamento, le persone che perdono il posto di lavoro, i giganteschi sussidi a favore soprattutto delle aziende più ricche e di chi è già benestante, e le modalità con cui chi è considerato un lavoratore essenziale è costretto a continuare a uscire di casa”.

La principale forma di sfruttamento che caratterizza il lavoro durante la pandemia, prosegue Simon, è “il trasferimento dei costi sui lavoratori. Dalle persone che non hanno il congedo per malattia, agli insegnanti che usano la loro connessione a banda larga e i loro computer portatili per insegnare da casa, tutte le attività lavorative riproduttive e produttive sono scaricate sulle famiglie”. In queste condizioni il capitalista non è più né il principale proprietario dei mezzi di produzione né colui che assume i lavoratori in vista di un rapporto professionale: “Il lavoratore porta con sé i mezzi di produzione. Questo succede in maniera diretta con l’addetto alle consegne di Amazon o l’autista di Uber, che per lavorare usano la propria auto, pagando personalmente benzina, assicurazione e patente”.

Nel suo articolo Simon evoca un cartello mostrato da una manifestante, Sarah Mason, durante una protesta contro le misure di confinamento: “Distanziamento sociale = comunismo”. Abolendo il distanziamento, quello che otteniamo è questa “libertà” dei lavoratori, i quali possiedono i loro mezzi di produzione, vanno in giro per fare commissioni per l’azienda e rischiano di essere contagiati. Il paradosso è che entrambe le versioni del corona-capitalismo – lavorare da casa durante il confinamento e consegnare cibo o pacchi alle persone chiuse in casa per il confinamento – vengono espropriate dal capitale e provocano ulteriore sfruttamento.

La nostra risposta a Sarah Mason quindi dovrebbe essere: sì, il distanziamento sociale è simile al comunismo, per questo ne abbiamo bisogno. Ma quello di cui abbiamo ancora più bisogno è un nuovo ordine economico, che ci permetta di evitare la sfiancante scelta tra rilanciare l’economia e salvare delle vite.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul numero 1365 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

pubblicità