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Eutanasia per i detenuti?

Domenica scorsa, in data certa, Frank Van Den Bleeken avrebbe dovuto essere un uomo morto. Privilegi dell’eutanasia, e della pena di morte. Dell’una e dell’altra, nel caso in questione. Van Den Bleeken è detenuto a Bruges. Lo è da quasi trent’anni. “Stupratore seriale e assassino”, così lo presentava l’agenzia di stampa che ce ne ha fatto conoscere il nome. E poco importa che all’epoca dei fatti avesse appena vent’anni: quello che era è. “Recidivo e conscio di esserlo aveva chiesto al ministro della giustizia belga di essere mandato in un centro di cure specializzato nei Paesi Bassi o, in alternativa, di essere ucciso con l’eutanasia”. Al ministro non sembrava possibile la prima e non gli era rimasta che la seconda soluzione, ai sensi della molto liberale normativa belga in materia: sarebbe stata soddisfatta la sua libera scelta.

In Italia, invece, per farla finita bisogna ancora appendersi alle sbarre, inalare il gas dal fornelletto o tagliarsi con sapienza. Lo hanno fatto in quarantatré nel 2014: non pochi, ma meno che in passato. Possiamo esser contenti? Come, forse, lo sarà stato qualche zelante funzionario belga per aver potuto accondiscendere alla “libera scelta” di Van Den Bleeken? Naturalmente no. E non perché a Van Den Bleeken, così come ai quarantatré in Italia si debba vietare di congedarsi dal mondo quando e come ritengano più opportuno, ma solo perché non si può che diffidare di quella “libera scelta”, e anzi bisognerebbe prendersene tutte le responsabilità. Nell’uno come negli altri casi, la condizione detentiva non consente una “libera scelta”: non c’è un altrove verso cui dirigere la propria vita, quanto meno per provarci. Questo avranno pensato Frank e i suoi fratelli, un attimo prima di decidersi. E quella mancanza di alternative è responsabilità nostra.

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