All’Europa servono nuovi mezzi per lottare contro le discriminazioni
Mentre negli Stati Uniti si apre il processo all’assassino di George Floyd, in Europa e in Francia i conflitti identitari s’inaspriscono. Invece di lottare contro le discriminazioni, il governo francese guidato da Emmanuel Macron si è lanciato in una gara con l’estrema destra a caccia dei professori di scienze sociali e del presunto islamo-gauchisme nelle università. È un fatto grave anche perché invece sarebbe urgente creare un vero modello francese ed europeo di lotta alle discriminazioni. Un modello che accetti la realtà del razzismo e sia in grado di analizzarlo e correggerlo, situando al tempo stesso la lotta alle discriminazioni in un contesto più generale di politica sociale a vocazione universalista.
Cominciamo dalla questione dell’analisi del razzismo. Molte ricerche hanno dimostrato la sua diffusione, ma al momento non esiste un osservatorio delle discriminazioni che garantisca un monitoraggio continuo dei fatti. In Francia il difensore dei diritti (l’autorità indipendente per combattere le discriminazioni) ha fatto notare nei suoi rapporti le discriminazioni nel mercato del lavoro e in quello immobiliare, ma non ha i mezzi per realizzare un monitoraggio sistematico. Per esempio, in uno studio condotto nel 2014 con il patrocinio dell’Istituto Montaigne, alcuni ricercatori hanno inviato curriculum falsi a dei datori di lavoro, in risposta a circa 6.231 offerte d’impiego, e hanno osservato quante proposte di colloqui di lavoro ricevevano. Quando hanno usato dei nomi fittizi di origine musulmana, le risposte sono state pochissime. Anche i nomi ebrei venivano discriminati, ma in misura minore. Il problema è che questo studio poi non è stato aggiornato e quindi nessuno sa se la situazione sia peggiorata o migliorata.
Come l’antisemitismo o l’omofobia, l’islamofobia non è una fatalità e può essere vinta
In Francia e in altri paesi europei c’è un bisogno urgente di un osservatorio incaricato di dire come questi indicatori evolvono ogni anno. È fondamentale anche misurare dove si concentrano le discriminazioni. Come l’antisemitismo o l’omofobia, l’islamofobia non è una fatalità e può essere vinta. L’osservatorio delle discriminazioni, che potrebbe essere messo sotto l’autorità del difensore dei diritti, dovrebbe inoltre garantire il monitoraggio annuale delle discriminazioni all’interno delle aziende (salari, promozioni, formazione e così via). Per questo bisogna introdurre nelle rilevazioni per il censimento delle domande sul paese di nascita dei genitori. Senza questi indicatori, è impossibile lottare contro le discriminazioni.
Il punto è che tutto questo può essere fatto senza introdurre delle categorie etniche come quelle usate negli Stati Uniti e nel Regno Unito secondo il principio della discriminazione positiva, la disparità di trattamento in favore di chi appartiene a una minoranza. Il problema non è tanto che questo sia vietato dalla costituzione francese ma semmai che usando categorie simili si correrebbe il rischio di cristallizzare delle identità meticce, senza che la loro efficacia nella lotta alle discriminazioni sia stata dimostrata. Da quando queste categorie sono state introdotte nei censimenti britannici, nel 1991, nel Regno Unito le discriminazioni non sono diminuite rispetto agli altri paesi. Inoltre c’è confusione nelle risposte: metà delle persone nate in Turchia, in Egitto o nel Maghreb si considera “bianca”, le altre “asiatica” o “araba”. Se nessun paese europeo ha ripetuto quest’esperienza, forse il motivo non è solo che nessuno si preoccupa delle discriminazioni in Francia, in Germania, in Svezia o in Italia. L’introduzione di domande sul paese di nascita dei genitori nei censimenti permetterebbe di fare dei passi avanti.
Più in generale, le politiche di discriminazione positiva sviluppate a partire da categorie etniche negli Stati Uniti o nel Regno Unito, di casta in India o territoriali in Francia sono spesso ipocrite. Permettono di pulirsi la coscienza a buon mercato, tralasciando di finanziare i servizi pubblici indispensabili a rompere il ciclo delle disuguaglianze.
Come ha mostrato Asma Benhenda nel suo libro Tous des bons profs (Tutti dei bravi professori) il salario medio per insegnante in Francia cresce in proporzione al numero di studenti socialmente più avvantaggiati di un istituto. Detto in altri termini, i magri premi di produzione dati agli insegnanti che lavorano nelle scuole delle periferie più disagiate non bastano a compensare la forte presenza tra loro di professori precari o con poca esperienza. Quando nelle scuole preparatorie all’università si creano mille borse di studio senza aumentare le risorse per i milioni di studenti svantaggiati nei vari percorsi universitari, non si fa altro che incoraggiare un sistema di istruzione basato su forti disuguaglianze. Bisogna darsi i mezzi per lottare contro le discriminazioni, ma bisogna soprattutto sostenere le politiche sociali universali, senza le quali il cammino verso l’uguaglianza resterà un’illusione.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul numero 1401 di Internazionale con il titolo “Un modello europeo contro le discriminazioni”. Compra questo numero | Abbonati
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