Un operaio della Fiat Automoveis di Betim, in Brasile, guadagna in media 800 euro al mese. A parità di potere d’acquisto con l’Italia fanno circa 1.050 euro. Non molto meno dei quasi 1.200 che porta a casa un operaio italiano.

Anche il cuneo fiscale in Brasile è di poco più basso del nostro, e lo stesso vale per le tasse sugli utili e per i costi di licenziamento. Perché quindi la Fiat realizza circa la metà dei suoi profitti globali in Brasile e ha i conti in rosso da noi?

Le ragioni sono tre. A Betim si producono 78 auto per dipendente contro le 53 di Melfi, le 30 di Mirafiori e le 7 di Pomigliano. Sono vetture di qualità diversa, ma in Brasile la produttività è aumentata proprio mentre migliorava la qualità delle auto prodotte: grazie ai forti incentivi alla produttività, il 20 per cento del salario di un operaio brasiliano è legato al risultato, contro il 5 per cento in Italia.

Ed è una componente variabile del salario nel vero senso del termine, cioè può essere anche sottratta alla retribuzione di base quando non si raggiungono i risultati prestabiliti. La seconda ragione è che la Fiat è stata la prima grande casa automobilistica a investire in Brasile ed è ancora la leader del mercato. Terzo, il mercato italiano è saturo, quello brasiliano no. Da noi ci sono due vetture ogni tre abitanti, in Brasile una ogni sei.

Sul secondo e sul terzo fattore è impensabile, oltre che indesiderabile, cambiare le cose, ma sul primo la Fiat e il sindacato dovrebbero concentrare gli sforzi: rinnovare gli impianti e legare il salario alla produttività per ottenere salari più alti.

Internazionale, numero 871, 5 novembre 2010

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