Il deprezzamento medio della valuta nei 23 casi di maxisvalutazione che hanno coinvolto i paesi del G20 è del 35,9 per cento. Come dimostra Francesco Daveri su lavoce.info, i benefici portati da queste svalutazioni sono stati annullati nel giro di un paio di anni dall’aumento del differenziale d’inflazione con gli Stati Uniti.
I casi più eclatanti sono l’Argentina e la Turchia, che tra il 2001 e il 2002 hanno svalutato la propria moneta rispettivamente del 211 e del 144 per cento. Ma mentre il governo argentino si è limitato a correggere uno squilibrio esistente (dovuto alla parità tra peso e dollaro, portata avanti forzosamente per quasi dieci anni), la Turchia si è vista divorare il potenziale guadagno di competitività dalla spirale inflazionistica.
In base a un calcolo approssimativo, il beneficio competitivo che deriva da una svalutazione della moneta è pari alla metà del deprezzamento nominale. Ma se la svalutazione è effettuata da vari paesi contemporaneamente l’effetto è nullo. Questo è avvenuto, per esempio, all’indomani della grande depressione, quando la strategia fu adottata da così tanti paesi che finì per non avere alcun effetto. A farne le spese fu l’intero commercio internazionale.
In Italia, grazie all’abolizione della scala mobile (il meccanismo di adeguamento dei salari all’inflazione) e a un’attenta politica dei redditi, la maxisvalutazione del 1992 non ha comportato una fiammata inflazionistica. Le istituzioni che presiedono alla contrattazione salariale hanno un ruolo fondamentale in questo ambito.
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