Cosa si prova quando tua figlia va al gay pride dopo la strage di Orlando
Quando sono stata guest editor del programma Today di Bbc Radio 4, un paio d’anni fa, uno degli argomenti che ho proposto era “i giovani e internet” e in particolare il modo in cui la rete può rappresentare un grosso aiuto per gli adolescenti che cominciano a conoscere se stessi e a cercare amici e alleati. L’idea era nata dall’esperienza di mia figlia, che ha dichiarato la sua omosessualità a 15 anni, ma aveva già trovato una comunità online che offriva aiuto, sostegno e amicizia.
Quando ero adolescente, non conoscevo nessuno che fosse gay. O meglio, lo conoscevo ma non lo sapevo. Una mia amica aveva un ragazzo con cui era sempre in crisi, e quando poi lui ha fatto coming out anni dopo, ho capito il perché. All’epoca non parlavamo di queste cose, né ci facevamo tante domande. Cantavamo Glad to be gay e pensavamo di essere molto avanti, mentre non sapevamo proprio niente.
I miei figli, invece, sanno tutto e mi hanno insegnato moltissimo, soprattutto in fatto di teoria e terminologia. Io ero ancora convinta di essere molto avanti, ma ho scoperto che avevo 53 anni e che ero rimasta parecchio indietro. Sono stati loro a trascinarmi allegramente nel secondo decennio del duemila, mentre io strizzavo gli occhi e mi davo una spolverata, come se mi fossi appena risvegliata da un lungo sonno.
È stata un’esperienza assolutamente felice, da entrambe le parti. Un’adolescente che dichiara la propria omosessualità in una famiglia accogliente. Un breve abbraccio e qualche lacrima, perché non lo avevo intuito (“Il tuo gayradar non funziona, mamma”), e risate per gli indizi che non avevo colto (“Tutte quelle sere passate a guardare l’Eurofestival insieme, e ancora non l’avevi capito?”). Non è che pensassi che uno dei miei figli non potesse essere gay. È che ero ancora la loro mamma e non mi ero resa conto che non erano più bambini.
Nel lontano 2007 ho scritto una canzone intitolata A-Z, sugli adolescenti gay vittime di bullismo a scuola, una specie di rivisitazione di Smalltown boy dei Bronski Beat, che avevo sempre adorato. Ma all’epoca mia figlia adolescente non era bullizzata a scuola, viveva felice e contenta e nessuno aveva niente da ridire. E io pensavo: “È stupendo. Che periodo fantastico quello in cui viviamo”. Andavano insieme al Pride – gay, etero e bi – avvolte in bandiere e con arcobaleni dipinti in faccia. Scattavamo foto e festeggiavamo, e continuavo a pensare: “Che periodo fantastico quello in cui viviamo. Evviva il presente!”.
Com’è possibile che il nostro desiderio di cambiamento ci induca a illuderci che il cambiamento sia già avvenuto?
Ma poi c’è stata Orlando. Oddio, Orlando, che mi ha colpito come uno schiaffo in faccia, lasciandomi distrutta e in lacrime: mi sentivo una stupida per avere dimenticato che là fuori c’era ancora gente che poteva desiderare di fare del male alla mia bellissima figlia intelligente e spiritosa, che ama la scienza e Ru Paul. Avevamo vissuto in un sogno? Ci eravamo sbagliati? Volevamo solo goderci le belle notizie, tutto qui. La libertà, i diritti. Dare per scontate cose elementari come sposarsi e avere dei figli. La quotidianità: niente di cui dover essere grati a qualcuno.
Com’è possibile sapere e allo stesso tempo non sapere le cose? Com’è possibile che il nostro desiderio di cambiamento ci induca a illuderci che il cambiamento sia già avvenuto? Naturalmente, sapevo che c’era ancora molta strada da fare. Ma c’è sapere e sapere: si può sapere qualcosa a livello razionale e saperlo a livello viscerale. L’amore rende forti e vulnerabili insieme. Le persone che ami sono la crepa nella tua armatura, dove penetra la lama. E Orlando è stata una grossa lama.
“Four dead in Ohio”, cantava Neil Young, in un lamento funebre per gli studenti uccisi alla Kent State University nel 1970. E quel pezzo continua a tornarmi in mente, anche se con parole diverse. Cinquanta morti a Orlando. Cos’è che diceva uno degli sms inviati dal bagno del Pulse, il locale della strage? “Mamma… sono intrappolato in bagno… Morirò”. Mamma. È lì che è affondata la lama. E oggi saluto mia figlia – 18 anni, ormai, ma sempre la mia bambina – che va al Pride per la terza volta, ma quest’anno con uno stato d’animo diverso. Vigile. Freddo e determinato.
Sto leggendo The argonauts di Maggie Nelson, un libro sul matrimonio omosessuale, l’identità di genere non binaria, la famiglia, la maternità e soprattutto l’amore. E sono incappata in questa frase: “A volte, dobbiamo sapere una cosa molte volte. A volte dimentichiamo e poi ricordiamo. E poi dimentichiamo, e ricordiamo ancora. E poi dimentichiamo”. Io prometto di non dimenticare mai più.
(Traduzione di Diana Corsini)
Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman.