Rapita da Brighton
Sono in una camera d’albergo al piano attico, a Brighton, e cerco di tenere la finestra spalancata per far entrare il più debole e impercettibile alito di vento nella stanza. È una camera molto graziosa – del genere da vasca di rame nel bagno e patatine fatte artigianalmente, non come nelle pensioni lugubri – eppure con questo caldo afoso è come se mi trovassi in una soffitta con la carta da parati che si stacca, a bere gin caldo da un bicchiere sporco.
Nell’atmosfera immobile della notte, si sentono delle voci provenire dalla piazza sottostante. Grida e risate fragorose, qualcuno che prova a intonare qualche canto.
La cosa, essendo le 4 del mattino, normalmente mi farebbe infuriare, ma tanto sono già piuttosto sveglia grazie al fatto che tutti i gabbiani della costa meridionale si sono dati appuntamento sul parapetto del mio balcone per sbattere le ali e starnazzare l’uno contro l’altro e tutti contro di me.
Sprizzare gossip
Allora lascio perdere l’idea di dormire e prendo il mio libro, che oltretutto si sposa perfettamente con l’atmosfera, il posto e l’ora. Si tratta di Shepperton Babylon: the lost worlds of british cinema (La Babilonia di Shepperton: le parole perdute del cinema britannico), di Matthew Sweet, che tratta principalmente del lato oscuro e nascosto dell’industria cinematografica britannica. Il racconto è pieno di aneddoti di bravate causate dall’abuso di cocaina e di bellissimi uomini truccati; ci sono poi un locale per bisex chiamato Fifty-Fifty, incidenti stradali e sparatorie, sesso orale spettacolare e toupet ridicoli, orge e stupri, scambi di identità e bigamia. E siamo solo ai primi capitoli sugli anni venti del novecento.
Il libro sprizza gossip da tutte le parti, riuscendo a inserire in ogni pagina una quantità di materiale tale da riempire interi volumi. Per esempio, in un solo paragrafo un regista di nome Stuart Paton diventa cieco a causa di uno strano incidente, poi recupera la vista, in seguito viene a sapere che sua moglie è fuggita con un altro uomo, lo dichiarano morto e infine si risveglia dalla morte apparente sul tavolo dell’obitorio. Se non fossi già sveglia, ci penserebbe la lettura a svegliarmi.
Dovevo fermarmi una notte ma dopo quattro giorni sono ancora qui. È un sorta di effetto Brighton
Sono venuta a sapere che Ivor Novello, che avevo sempre conosciuto come un autore di canzoni, era in realtà molto un idolo delle folle degli anni venti dello scorso secolo. La sua canzone del 1914 Keep the home fires burning ottenne un grande successo durante la guerra – certo, va detto però ciò che di solito non si racconta: il testo era stato scritto da una donna, la statunitense Lena Guilbert Ford, che rimase uccisa nel 1918 in un raid aereo tedesco sferrato su Londra, fatto che permise a Novello di prendere tutti gli applausi per sé.
Novello ottenne un grande successo con un’opera teatrale che scrisse appositamente per il Theatre Royal Brighton; questo mi riporta al luogo dove mi trovo in questo momento, visto che il motivo per cui sono venuta a Brighton è partecipare a un evento letterario organizzato proprio in quel teatro. Nel mio camerino, attaccato alla parete, c’era una locandina con il nome di Ivor Novello. Mi sembra di riconoscere un filo rosso che collega e unisce tutto.
All’inizio la mia intenzione era di fermarmi soltanto una notte, ma una cosa tira l’altra come si dice, ed eccomi ancora qui quattro giorni dopo. È una sorta di effetto- Brighton. È la mia ultima notte di soggiorno qui. Nella sudaticcia intimità della mia stanza, mi spoglio fino a rimanere in mutande, mi verso una vodka e guardo Brighton rock su Bfi player. Nel film Brighton viene descritta come una città fatta di vicoli bui e bassifondi putridi che, come ci assicura il titolo, ha cambiato radicalmente aspetto – sebbene una delle cose che amo di più guardandolo sia notare quanto poco sia cambiata, come tutto sia rimasto praticamente invariato da allora.
Ci sono le stesse strade strette lungo cui ho camminato proprio questo pomeriggio, le terrazze del Regency e, se possibile anche più sbiadito, ecco anche il Grand Hotel, inattaccabile a vederlo, che fu raso al suolo dai bombardamenti e ricostruito del tutto. L’aria salmastra deteriora e copre di ruggine ogni cosa, e così qui nulla sembra mai davvero nuovo, mai davvero pulito, né riesce a scrollarsi di dosso quel caratteristico mix di tetro squallore e fascino.
L’atmosfera del film è carica di ansia e senso di pericolo incombente – un uomo cieco vende fiammiferi e lamette da rasoio, il parco giochi è un incubo e si percepisce costantemente un senso di violenza sottaciuta. Volti che appaiono distorti e ti fissano in maniera inquietante, con quei sorrisi troppo tesi o troppo bianchi e dappertutto un senso di repressione, come se qualcosa di tenuto forzatamente a bada stesse per esplodere.
Un impiegato della reception dai modi gentili mi ha portato un ventilatore e, posizionandolo nella giusta traiettoria rispetto alla finestra, sono finalmente riuscita a ottenere una leggera brezza nella mia stanza. Il film è finito e fuori ancora non inizia il chiasso del giorno, né i gabbiani si sono spinti fino a sbattermi le ali addosso. Probabilmente dovrei andare a dormire… oppure bermi un drink.
(Traduzione di Mariachiara Benini)