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Un salto nel tempo con Hilary Mantel

Vizerskaya, Getty Images

Continuo a chiedermi cosa scrivere, quale sia il tono migliore. Davvero non ne ho alcuna idea. In questo momento sto scrivendo, ma la mia mente è totalmente annebbiata quindi perdonatemi se non sarà un grande articolo.

Spero di riuscire ad adattarmi alle nuove circostanze, così come tutti dobbiamo fare.

Il mio ultimo pezzo adesso suona come un vecchio diario di centinaia di anni fa, con l’uscita notturna a Soho, il viaggio in treno a Whitstable e i discorsi compiaciuti sulla solitudine e l’isolamento. Adesso abbiamo varcato una soglia che ci porta in uno spazio dove ogni cosa è una questione di vita e di morte, in cui la nostra concentrazione è dedicata totalmente a malattia e salute.

Ben e io ci siamo già passati nella nostra vita quando avevamo entrambi 29 anni e lui si è ammalato gravemente, rimanendo ricoverato in ospedale per settimane, gran parte delle quali in terapia intensiva, sospeso tra la vita e la morte.

La possibilità del disastro
Quest’ultima settimana mi ha fatto molto ripensare a quel periodo. La sensazione di nodo allo stomaco, svegliarmi con quel terrore innominabile, il tirarmi su a sedere, sollevata del fatto che fosse solo un sogno. E poi il momento in cui si torna alla realtà. Ho scritto di questo nel mio primo libro, Bedsit disco queen, parlando di come ci sarebbe voluto molto tempo prima di poter superare quello stato ossessivo di attesa perenne e smettere di stare continuamente in allerta, tenendomi forte in attesa di ricevere brutte notizie.

Alla fine sostenere quel livello d’ansia era diventato semplicemente troppo estenuante. Si è piano piano affievolito, o forse indurito, o magari ha trovato un posto da qualche parte dentro di me e io mi sono abituata a convivere con la possibilità del disastro senza mai farmi sopraffare.

Immagino che sarà di nuovo così. Quella volta trascorsi il tempo con puzzle e i romanzi di P.G. Wodehouse. Stavolta, dopo aver passato qualche giorno cercando di leggere qualcosa, mi sono imbarcata nella lettura del nuovo romanzo di Hilary Mantel, The mirror and the light, il che potrebbe sembrare un’impresa ridicolmente ambiziosa viste le sue 912 pagine. Ma poi, effettivamente, sono stata subito rapita dal racconto e grata di essere rigettata indietro di secoli, fino al 1536, in un mondo fatto di intrigo, di fascino e di duplicità. Stranamente ha un che di confortante. Forse perché parla di eventi che ormai sono nel passato. Ci sono obiettivi e certezze di cose ormai realizzate. In fondo ciò che molti di noi odiano di più è l’incertezza, il senso di essere all’inizio di qualcosa di negativo, ma di non sapere ancora quanto sarà negativo.

Ho capito che non funziona immergermi in fatti, notizie e dettagli, né leggere articoli infiniti

Ho letto un bellissimo post su Facebook di una donna che ha lavorato in una zona colpita dal disastro che dice che questa è la fase peggiore, il momento in cui ti trovi in cima alle montagne russe e di fronte a te c’è la caduta.

Chi soffre d’ansia si sente così la maggior parte del tempo. E sapere che tutti si trovano in questo stato ti dà una sorta di sollievo. Ti senti meno sola, meno pazza. Adesso sono più consapevole di quali siano i miei punti deboli e quindi so che non funziona immergermi in fatti, notizie e dettagli, né leggere articoli infiniti. Ho una tendenza a esagerare il rischio, a sentirmi tremendamente, “unicamente” vulnerabile. Come mi ha detto una volta il terapista. E quindi devo separare le cose che posso controllare da quelle su cui non ho alcun controllo. E se c’è qualcuno in casa nostra di estremamente vulnerabile, quello è Ben. Questo come conseguenza diretta della sua malattia di tanti anni fa.

Piccole faccende
E infatti ha ricevuto il peggiore, il più temuto messaggio del Servizio sanitario nazionale, che l’ha informato di doversi mettere in autoisolamento per 12 settimane. E quindi i ragazzi e io abbiamo addirittura aumentato le precauzioni che già seguivamo. Mi sono spostata nella stanza degli ospiti, ricordando a me stessa che siamo fortunati ad averne una. Ma certamente resta il fatto che si tratta di quasi tre mesi senza un abbraccio, mentre il mondo intero è stretto nella morsa della pandemia.

Ben nei momenti di crisi diventa piuttosto zen e da qua lo posso sentire tenersi occupato con piccole faccende, a una certa distanza da me, e ascoltare John Coltrane, più o meno di continuo.

Conversiamo brevemente, a distanza. E ci mandiamo messaggi stupidi. Io mi tengo occupata e mi consolo facendo liste. Cosa comprare nel caso i negozi fossero pieni, o cosa abbiamo in frigo oppure i pasti che posso preparare con ciò che abbiamo in frigo.

Mando un messaggio a Ben, che è nella sua stanza, per dirgli che ho finito di fare colazione e che adesso la cucina è a sua disposizione e lui risponde: “Ma mi lasci in pace, per favore? Io qui sono occupato ad autoisolarmi!”.

E io gli sono grata di avermi fatto ridere.

(Traduzione di Maria Chiara Benini)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman.

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