Forse possiamo cogliere qualche segno di crisi nell’uso dei compiti a casa. Lo desumiamo dal numero 46 dei quaderni con cui l’Ocse man mano analizza più a fondo i dettagli delle indagini Pisa, Pisa à la loupe. I compiti a casa sono stati un pilastro della venerata trimurti che ha retto negli ultimi due secoli l’insegnamento nelle scuole: lezione orale dell’insegnante, interrogazione dello studente per verificare che ripeta esattamente le parole dette dall’insegnante, e i compiti a casa per rafforzare la capacità di ripetere.
Nella vita e nel lavoro il più e meglio s’impara interagendo con gli altri, cooperando e cercando di mandare a effetto quel che apprendiamo. Non così a scuola. Turba l’idea che la classe si trasformi in laboratorio, luogo di apprendimento attivo e cooperativo, e l’insegnante fornisca non formule da ripetere, ma consigli e assistenza sul cammino autonomo degli apprendimenti.
Dove l’idea prende piede si avverte sempre meno la necessità dei compiti a casa. Ora il rapporto Ocse dice che tra 2002 e 2012 in tutti i paesi decrescono in media da sei a cinque le ore settimanali dedicate dai quindicenni ai compiti a casa. Il pilastro vacilla. Tempo per i compiti e successo scolastico sono correlati per gli studenti dei ceti avvantaggiati. Invece i compiti accrescono lo svantaggio per gli altri. Soprattutto, il tempo per i compiti è un terzo della media Ocse in sistemi di alta efficienza – in Finlandia, Corea, Giappone – e tende invece al doppio in Italia e Russia.
Questo articolo è stato pubblicato il 9 gennaio 2015 a pagina 88 di Internazionale, con il titolo “Compiti a casa al tramonto?”. Compra questo numero | Abbonati
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