Le brave ragazze devono imparare a essere cattive
Fino al 2014, Taylor Swift non ne sbagliava una. La principessa bionda della musica country era passata al pop conservando intatta la sua immagine di brava ragazza: era molto bella, ma non si sarebbe mai scattata una foto seminuda; non beveva, non fumava, non andava alle feste. Una santa, insomma. Eppure, due anni più tardi, Swift ha perso buona parte della sua reputazione. Il suo crimine starebbe nell’aver avuto troppi ragazzi, e nell’essere needy, bisognosa di conferme. Ha scritto diverse canzoni dove raccontava le sue delusioni sentimentali, venendo per questo dipinta come il prototipo dell’ex fidanzata fuori di testa, incapace di tenersi un uomo. Continua ad avere successo, ma non viene più considerata un modello da imitare, perché non offre più una performance soddisfacente del genere femminile. Non sta facendo tutto giusto.
La parola inglese trainwreck si traduce con “disastro ferroviario”. Molto spesso la si usa per indicare una donna famosa che finisce nei guai e viene messa alla berlina da giornali e siti web rivolti al pubblico femminile. Le tappe formative del trainwreck sono ripercorse nel libro omonimo della giornalista Sady Doyle, pubblicato negli Stati Uniti da Melville House. Secondo la sua tesi, studiare la storia delle donne-disastro aiuta a capire cosa significasse essere una brava ragazza in periodi storici lontani tra loro, dalla rivoluzione francese a oggi. Per chi sbaglia, però, alcuni passaggi rimangono costanti nel tempo.
Il primo è fare troppo sesso. Poi c’è l’avere un aspetto fisico troppo provocante, o il non vestirsi secondo la moda del momento. Poi arriva la sfera emotiva: essere arrabbiata, ferita, vulnerabile, appiccicosa. E poi ci sono i grandi classici del filone: bere troppo, usare stupefacenti, portare segni visibili di un disagio esistenziale e forse psichiatrico, essere, alla fine, bollata come pazza fuori controllo. Una parabola che si ferma solo quando la protagonista è stata cancellata dalla sfera pubblica, ridotta al silenzio e all’anonimato. Meglio ancora se muore tragicamente, sigillando la sua esistenza terrena come una storia di cattiva condotta e inevitabile punizione. Con la morte, tra l’altro, un po’ di reputazione può essere recuperata. È accaduto a Whitney Houston, ma anche a Diana, ex principessa del Galles.
Il ragazzaccio potrà cavarsela cambiando vita, mentre la donna verrà umiliata e costretta a chiedere perdono
Il trainwreck è un fenomeno squisitamente femminile. A parità di trasgressioni, per gli uomini si parlerà di “ragazzacci”. Una formula che per sua natura contiene il potenziale di una crescita, con la redenzione e il ritorno all’ordine. Definire qualcuno “un disastro ferroviario” non permette di intravedere nessuna trasformazione all’orizzonte, se non il perpetuarsi del disastro, il rallentamento delle stesse immagini. Quindi il ragazzaccio potrà cavarsela cambiando vita, mentre la donna verrà umiliata sempre di più, e poi costretta a chiedere perdono, a piangere di fronte a chi la tormenta.
Nel libro si ripercorre, tra le altre, la storia di Billie Holiday, la regina del jazz che dopo la condanna del 1947 per possesso di eroina restò intrappolata nel cosiddetto “circuito della redenzione”: pubblicava autobiografie e articoli di giornale in cui chiedeva scusa per gli errori commessi, ma soprattutto spiegava le proprie ragioni, nel tentativo di mettere le cose a posto una volta per tutte. Morì nell’ospedale dove aveva appena ricevuto il pagamento per l’ultimo articolo apparso su un settimanale scandalistico. Morale: per rischiare la demolizione basta avere una qualsiasi forma di successo, anche minimo e tangenziale, avere una voce e utilizzarla per articolare un’opinione, avere ottenuto, per caso o per impegno, una visibilità. Mentre una brava ragazza funziona soprattutto come riflesso dei desideri altrui.
Seguendo questa logica, una brava ragazza oggi dovrebbe essere molto efficiente sul lavoro e sempre pronta a mettere mano al portafoglio, ma anche perfettamente invisibile e priva di forti pensieri. O di rivendicazioni sui propri diritti. La perseveranza nell’attaccare chi lo sta facendo sbagliato, quindi, contiene un messaggio preciso: comportatevi bene e non mettetevi in mostra, avete sotto gli occhi il trattamento che viene riservato a chi decide diversamente. Sady Doyle in questo vede un corroborante esempio di patriarcato al lavoro, ma anche una forma sotterranea di gratificazione immediata: per quanto possano andare male le cose a una donna, lei potrà sempre consolarsi – per un momento – pensando di non essere un’attrice appena finita ubriaca e confusa sulle pagine di TMZ.
Un filtro rosso sangue
Ma il confine tra spettatrici e protagoniste sta diventando sempre più labile. Quella vaga consapevolezza del diritto alla privacy nata negli ultimi anni di fronte alle sciagure di alcune celebrità non viene applicata alle ordinarie cittadine colpevoli, per esempio, di apparire in fotografie e filmati diffusi senza il loro consenso. Se il grande pubblico italiano conosce il nome di Tiziana Cantone, questo si deve al suicidio di lei, e prima alla decisione di alcuni mezzi d’informazione di rendere note le sue generalità insieme a una serie di non notizie riguardo i video pornografici amatoriali in cui compariva la donna.
Il fronte del disastro può solo moltiplicarsi quando si prendono storie personali e si applica loro lo stesso filtro rosso sangue che fino a poco tempo fa veniva riservato a un piccolo numero di donne privilegiate, colpevoli di “avere tutto”. Con la differenza che le privilegiate – considerate, a torto o a ragione, lontane dagli assilli quotidiani del loro pubblico medio – possono comunque sperare di correggere il tiro affidandosi a un buon ufficio stampa. E non si tiene mai abbastanza conto del piacere con cui il pubblico prende parte alla denigrazione, specie se i bersagli femminili non sanno o non possono difendersi.
Il regista Asif Kapadia, premio Oscar per il suo documentario su Amy Winehouse, ha deciso di realizzare quel film soltanto dopo essersi accorto di quanto radicata fosse la percezione negativa dell’artista tra i suoi conoscenti, maschi e femmine insieme. “Aveva una bella voce”, gli dicevano, “ma era una persona talmente sgradevole… perché vuoi raccontare proprio la sua storia?”. Nemmeno la santificazione postuma, operata nel giro di pochi giorni dalla morte di Winehouse, e spesso dagli stessi organi di stampa che avevano contribuito al suo collasso, era bastata a riabilitare la cantante. Nella memoria collettiva era rimasto solo il relitto, il naufragio. Puttana, drogata, pazza, che schifo.
Alla prova dei fatti, sono pochissime le donne che usano determinate parole come complimenti, e che magari, in un trainwreck, vedono un modello di emancipazione capace di rompere le regole. Prevale il desiderio di prendere le distanze dall’indesiderabile, per sottolineare la diversità tra se stesse – acute, intelligenti e oneste – e le altre, quelle che sbagliano. E non è una tendenza che ci si lascia alle spalle con l’ingresso nel mondo degli adulti, per quanto, in teoria, l’adolescenza dovrebbe tirare fuori il peggio da una persona. Non ha quasi più senso parlare di “età adulta” quando siamo davanti al cattivismo spacciato come valido criterio di interpretazione della realtà e al prolungamento morboso dell’adolescenza tramite social media.
Nel suo libro Sady Doyle si mette in gioco, scrivendo di quanto da ragazzina odiasse Courtney Love, considerata colpevole di aver rovinato il marito Kurt Cobain con i suoi eccessi, anche se i problemi di droga erano comuni a tutti e due. E lo stesso odio lo provava verso la prima Britney Spears, quella fotografata in shorts e coda di cavallo, ipersessualizzata anche mentre veniva proclamata vergine e innocente. Se Courtney e Britney fossero sparite dalla circolazione, pensava lei, il mondo sarebbe stato un posto migliore, con libertà e fraternità per tutti. Si sente, in questo, la particolare punta di rabbia con cui una donna molto giovane può considerare “problematica” quella che non ha rispettato la storyline delle brave ragazze, riportando il femminismo indietro di cinquant’anni, o, almeno, rovinando la presunta festa a tutte le altre.