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Cinque regole per sconfiggere il caporalato

L’entrata di un campo di arance a Rosarno, il 31 marzo 2014. (Patrick Tombola, Laif/Contrasto)

Sun Tzu, nel suo trattato sull’arte della guerra (quarto secolo avanti Cristo), prescrive una piena consapevolezza prima di muovere battaglia. “Misurare gli spazi”, ovvero conoscere il terreno, è la prima regola del maestro cinese; “quantificare le forze” la seconda. Ai dati ottenuti andrà poi applicato il “calcolo numerico”, la “comparazione” e, infine, la valutazione delle “possibilità di successo”.

Proviamo a utilizzare queste regole per analizzare il modo in cui gran parte dei mezzi d’informazione e (a ruota) le istituzioni dichiarano periodicamente guerra al caporalato, cioè al reclutamento illegale di manodopera in agricoltura.

La “misurazione degli spazi” è apparentemente semplice: in questa estate del 2015 la Puglia è di nuovo al centro dell’attenzione, ma la questione non è strettamente meridionale (anche Slow Food ha appena raccontato il caporalato nelle Langhe). Però, giunti al secondo passaggio suggerito dallo stratega orientale, la “quantificazione delle forze”, cominciano subito le difficoltà, perché la retorica prevalente si ferma a chi vede (i “caporali” e gli agricoltori), trascurando del tutto il contesto.

Si scorra la rassegna stampa seguita alla morte di caldo e sfinimento a Nardò (Salento) di Mohamed Abdullah, bracciante quarantasettenne dal Sudan, e non vi si troverà quasi accenno alla filiera del pomodoro. Ampi sono i resoconti delle brutalità dei caporali (“gli schiavisti”): le minacce, la sottrazione di parte del salario e in aggiunta la vendita a caro prezzo dei mezzi indispensabili durante il lavoro (l’acqua, un panino) e durante la permanenza nei ghetti (il posto letto, l’elettricità, il trasporto).

Il caporalato viene trattato come un corpo estraneo ai processi economici

Si parla delle spaventose condizioni di lavoro, della complicità delle aziende agricole che assumono servendosi dei caporali e dell’inadeguatezza delle istituzioni preposte al controllo. Ci viene poi addebitata, da alcuni commentatori, una corresponsabilità quali consumatori di pomodori, sughi e passate “per cui vogliamo spendere troppo poco” – discorso retorico che colpendo gli incolpevoli finisce, ineluttabilmente, per distrarre dall’individuazione dei veri responsabili.

Ma poco o nulla si dice della storia economica di quei pomodori, del modo in cui tra il campo e il supermercato producono profitto, e per chi lo producono. Quindi, tornando alle regole del maestro Sun: non c’è “quantificazione delle forze” né “calcolo numerico”, non si può di conseguenza arrivare a una “comparazione” e non c’è dunque alcuna “possibilità di successo”.

A ben vedere il caporalato viene anzi trattato come un corpo estraneo ai processi economici, e quindi – Sun Tzu ne riderebbe di certo – sembra quasi che l’esercito contro cui si minaccia guerra sia privo di ufficiali e di stato maggiore e sia composto esclusivamente da, appunto, caporali. C’è da domandarsi come sia possibile che un tale esercito tenga in scacco le istituzioni.

Carne da cannone

Naturalmente, invece, una catena di comando e uno stato maggiore ci sono, anche se chi ne fa parte non può essere rappresentato con le tinte forti che s’attagliano ai caporali. Il pittore tedesco George Grosz, negli anni venti del secolo scorso, disegnava signori della guerra dal petto decorato e capitani d’industria con il sigaro nell’atto di brindare mentre progettavano come meglio affamare i poveri e farne carne da cannone. Ma quella che allora era una comunicazione efficace oggi è del tutto inutilizzabile.

Lavoratori stagionali immigrati in un campo di Brindisi, il 3 aprile 2014.

Il capitalismo contemporaneo è una rete di relazioni e processi impersonali che copre l’intero pianeta, il suo sottosuolo, il suo spazio aereo fin oltre l’atmosfera: farne il ritratto in una sola immagine è impossibile. Ciò nonostante qualche tratto di china sulla produzione del profitto nella filiera agroalimentare può essere utile per interpretare il quadro complessivo.

Il primo che proviamo a tracciare riguarda i modelli distributivi del cibo e la loro evoluzione. Sentiamo, a questo proposito, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, meglio nota come Antitrust:

In termini di incidenza sul totale del commercio alimentare, fresco e confezionato, la grande distribuzione organizzata (gdo) è passata dal 50 per cento circa del 1996 all’attuale 72 per cento. A fronte di tale andamento si sono registrati una netta contrazione del dettaglio tradizionale, passato dal 41 per cento circa del 1996 all’attuale 18 per cento, e un leggero rafforzamento del peso degli altri canali (commercio ambulante, gli acquisti diretti presso le aziende agricole eccetera), passati dal 9,2 per cento al 10,6 per cento.

Per gdo si intendono i supermercati (dal mini all’iper), quasi sempre appartenenti o affiliati a una catena distributiva (Coop, Conad, Esselunga, Selex, Auchan, Carrefour eccetera). La gdo, spiega la citata indagine dell’Antitrust, è in grado di esercitare uno smisurato buyer power (potere contrattuale negli acquisti) nei confronti dei propri fornitori. Questi fornitori (o subfornitori) a loro volta, scaricano sui lavoratori le conseguenze del loro risicato margine di profitto. In diverse filiere, come quella del pomodoro, “la presenza di un gran numero di lavoratori vulnerabili e disponibili a salari bassi [… consente] a molte aziende di reggere alla crescente pressione sui prezzi dei prodotti agricoli operata da commercianti, industrie conserviere e catene della grande distribuzione organizzata (Ben oltre lo sfruttamento: lavorare da migranti in agricoltura, il Mulino, n. 1/14).

Va da sé che il reclutamento e il disciplinamento di quel “gran numero di lavoratori vulnerabili” ingaggiati a pessime condizioni è garantito e può essere garantito solo da caporali.

I luoghi di produzione

Il secondo tratto del nostro schizzo rappresenta l’indifferenza ai luoghi di produzione. Non c’è regione, stato e neppure continente che tenga: le grandi aziende di trasformazione e la gdo comprano dove trovano docilità nel fornire agli standard richiesti e a minor costo, e l’esclusione di un fornitore o di un intero territorio derivano dalla semplice pressione di pochi tasti. Si potrebbe quasi dire che è la costante possibilità di quel gesto digitale e asettico ad alimentare il concreto potere di minaccia dei caporali.

A questo punto entrano in gioco le politiche dell’Unione europea, che incentivano la trasformazione dei sistemi agricoli nordafricani orientandoli verso l’export (al servizio di gdo e grandi grossisti e trasformatori del nostro continente), con il risultato di impoverire la maggioranza dei contadini e dei braccianti tanto qui quanto sull’altra sponda del Mediterraneo. E naturalmente entrano in gioco le politiche migratorie, in costante e sotterraneo dialogo con la creazione di lavoro ricattabilissimo.

Oltre a quello della brutalità dei caporali, c’è un altro polo discorsivo utilizzato nella lotta allo sfruttamento estremo in agricoltura: quello della “legalità”. Che, almeno secondo Coldiretti, la principale associazione di rappresentanza degli agricoltori italiani, potrebbe essere rafforzata da una maggiore diffusione del voucher come strumento retributivo per i braccianti. Cos’è un voucher?

Un metodo di pagamento delle ore lavorate attraverso un ‘assegno’ di 10 euro lordi che può essere riscosso all’Inps e acquistato in varie sedi, tra cui tabacchini e poste. […] Il ‘lavoratore-voucher’ non ha diritto a ferie, malattie, maternità, tredicesima, quattordicesima e a indennità di disoccupazione [… e] acquistando un voucher al giorno si può coprire a livello assicurativo e contributivo un’intera giornata di lavoro (Il regime del salario, Connessioni precarie).

In verità è assai probabile che, con gli attuali rapporti di forza, il voucher non costituisca affatto un’emersione del lavoro nero. Anzi: sui campi dei pomodori (negli agrumeti, tra i filari di vite e così via) alcuni lavoratori potrebbero essere messi “in regola” con un voucher al giorno, assicurando a caporali e datori di lavoro l’impunità anche in caso di controllo, mentre verso altri braccianti si potrebbe usare l’impossibilità di pagarli con voucher (magari perché privi di documenti in regola) per imporre loro condizioni salariali ancora peggiori.

E comunque, più in generale, risulta problematico appellarsi alla “legalità” nel mercato del lavoro quando le leggi che lo normano sembrano ormai ispirarsi a forme di caporalato soft (tramite esternalizzazioni, intermediazioni, eliminazione dell’indennità di malattia e, in fieri, della pensione, negazione del diritto di sciopero eccetera).

Questi sono solo pochi tratti di penna, come promesso: siamo ancora ben lontani da una valida “quantificazione delle forze”, lontanissimi da un “calcolo numerico” e di “comparazione” non è neppure il caso di parlare. Ma, almeno, il maestro Sun smetterà di ridere di noi.

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