I ritornelli di salsa sono un antidoto contro le dosi di conflittualità iniettate dal potere. Decine di anni passati a gridare “traditore” a chi emigrava svaniscono al ritmo di una canzone interpretata da una delle tante voci dell’esilio cubano, scrive Yoani Sánchez.

Al grido di Azúcar!, Celia Cruz riusciva a far ballare i suoi compatrioti a Hialeah e i militanti del partito comunista che la ascoltavano, a volume bassissimo, da questa parte dello stretto della Florida. La musica ha finito per unirci, mentre gli slogan ideologici fanno di tutto per allontanarci.

Pochi giorni fa il gruppo di salsa Los Van Van, il più importante del paese, è stato al centro di un dibattito per l’inizio della sua tournée negli Stati Uniti. Ci sono state opinioni contrastanti, e più che alla qualità delle interpretazioni si è data importanza a questioni non musicali. Invece di lasciarsi trascinare dalla musica, alcuni emigrati cubani hanno puntato il dito contro i legami del gruppo con il regime e la sua partecipazione a una serie di attività organizzate dalle autorità dell’isola.

È la cultura a perdere quando le valutazioni di partito hanno la meglio sul valore di una canzone. È stata proprio questa la ragione che ha impedito a molti artisti della diaspora di venire a cantare per il loro pubblico nei teatri cubani. Se molto timidamente i musicisti che vivono sull’isola hanno cominciato a esibirsi di fronte alla comunità cubana – rinnegata e stigmatizzata – che vive all’estero, il contrario non è avvenuto. Eppure non abbiamo smesso di ascoltare i “proscritti”, quelli con cui abbiamo ballato nell’intimità delle nostre case, con il volume basso delle cose proibite.

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