Tra i brutti edifici di cemento e le ville con il giardino stanno aprendo nuovi locali. Una zona che per decine di anni è stata solo un quartiere dormitorio adesso vede spuntare come funghi le insegne luminose dei bar.

Con la ripresa del lavoro autonomo si moltiplicano caffetterie, bar, palestre e parrucchieri. Pochi di quelli che aprono attività commerciali in questo momento si ricordano la rinascita di piccole aziende private a metà degli anni novanta. E nemmeno il trauma della chiusura a causa di tasse altissime, restrizioni assurde e ispezioni eccessive. Accanto al chioschetto messo su con poche risorse vengono costruiti spazi che fanno concorrenza al miglior hotel dell’isola. Opere d’arte alle pareti, mobili intagliati, lampade fatte a mano sono solo alcuni dei dettagli di questi nuovi locali.

C’è un passaparola continuo: “hanno aperto un ristorantino messicano”, “uno chef svedese è venuto a fare lezioni a chi vuole aprire un locale in centro”, “in quel posto vendono le paellas più buone del pae­se”. Sembrerebbe che questo flusso di creatività sia inarrestabile e che non sarà possibile – come in passato – tarpargli le ali. Il quartiere è diventato la meta di chi prima fuggiva in Calle 23 o sul Malecón per passare la serata. Ma non godiamo ancora appieno dei tavoli apparecchiati con tovaglie impeccabili e dei camerieri in giacca e cravatta. Alcune domande si ripresentano a ogni forchettata: “Li lasceranno in pace o li metteranno ancora una volta fuori gioco?”.

*Traduzione di Sara Bani.

Internazionale, numero 925, 25 novembre 2011*

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