In Iraq non si fermano le proteste partite più di venti giorni fa dalla città meridionale di Bassora e poi dilagate in tutto il paese. I giovani che organizzano e partecipano alle manifestazioni si sentono ignorati dai mezzi di informazione internazionali. Un giorno uno di loro, Haider, 22 anni, mi ha chiamato dicendomi con rabbia: “Cosa state facendo voi? Qui è tutto sottosopra, ma niente, Bbc e Cnn non ne parlano neanche!”.

La maggior parte dei manifestanti ha tra i quindici e i venti anni. Sono cresciuti in un mondo dominato dalla globalizzazione e conoscono l’impatto che possono avere i mass media sulla politica. Sono diversi dalla generazione che li ha preceduti, che dipendeva da organizzazioni e partiti politici per mobilitarsi e scendere in piazza. “Noi non vogliamo che i partiti utilizzino la nostra protesta per i loro scopi”, ha detto Ibrahim Saray a un giornalista.

Il 20 luglio, per impedire riunioni e incontri dei giovani, le forze di sicurezza hanno bloccato internet e chiuso tutte le strade che portano verso il centro di Baghdad. Intanto, le autorità facevano pressioni sui mezzi d’informazione perché non parlassero delle manifestazioni. Il governo ha diffuso una lista con i nomi di cinquanta giornalisti da arrestare per aver partecipato alle manifestazioni o semplicemente per aver dato la notizia delle proteste.

Si sentono prigionieri quando il governo iracheno, oltre a usare proiettili e lacrimogeni, li punisce bloccando internet

Sulle strade infuocate dell’Iraq è scorso il sangue dei giovani manifestanti: più di quindici sono stati uccisi e cinquecento sono rimasti feriti negli scontri con le forze di sicurezza e le milizie sciite. Nonostante gli sforzi del governo i manifestanti con i loro cellulari sono riusciti a catturare le drammatiche scene dei corpi trafitti dai proiettili. Dalla strada le immagini sono rimbalzate su Facebook, nella speranza che i mezzi d’informazione globali le diffondano e che le organizzazioni per i diritti umani si diano da fare.

Ma con profonda amarezza i giovani iracheni hanno capito che il mondo è più impegnato a seguire gli stupidi tweet di Donald Trump o a celebrare i divi del calcio. Si sentono prigionieri quando il governo iracheno, oltre a usare proiettili e ai lacrimogeni, li punisce bloccando internet. Il ministro delle telecomunicazioni Hasan al Rashid ha ammesso di averlo fatto perché le scene diffuse da chi scende in strada provocano indignazione tra la popolazione. È in corso una nuova battaglia tra i manifestanti e il governo sul terreno dei mezzi d’informazione. Chi la vincerà?

(Traduzione di Francesco De Lellis)

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