Cosa fanno i jihadisti quando non combattono
Thomas Hegghammer ha dedicato gli ultimi quattordici anni allo studio dei gruppi jihadisti. Come la maggior parte degli studiosi dell’islam radicale, in quanto direttore delle ricerche sul terrorismo presso l’Istituto di ricerca della difesa norvegese si è concentrato sulle tattiche militari e sulle dichiarazioni politiche dei gruppi, sulle loro dottrine e sui loro leader.
Tuttavia, è giunto alla conclusione che ciò che i jihadisti fanno nel tempo libero (le barzellette che si raccontano, le poesie che scrivono e recitano, le interpretazioni che si danno a vicenda dei loro sogni, le manifestazioni pubbliche di dolore) ha la stessa importanza ai fini di una comprensione più profonda dei gruppi militanti.
La cultura jihadista è “una delle ultime grandi frontiere inesplorate della ricerca sul terrorismo, che merita un intero nuovo programma di ricerca”, ha sostenuto Hegghammer in una conferenza che ha tenuto nell’aprile del 2015 all’università di St. Andrews.
Ricerca multidisciplinare
Hegghammer appartiene al gruppo crescente di studiosi che analizzano le attività quotidiane, apparentemente inutili, dei jihadisti per spiegare il fascino e la capacità di resistenza dell’estremismo islamico.
Pur riconoscendo a diversi studiosi (tra cui Manni Crone, Behnam Said ed Elisabeth Kendall) il merito di un lavoro pionieristico sulle particolari pratiche culturali che accompagnano la radicalizzazione, Hegghammer sostiene che sono stati fatti pochi tentativi per collegare queste ricerche ed esaminare la cultura “in quanto categoria dell’attività militante”.
“Stiamo solo grattando la superficie”, afferma.
Le ricerche sulla cultura jihadista si stanno sviluppando in modo decisamente multidisciplinare; in un libro di prossima uscita curato da Hegghammer figurano i contributi di studiosi di musicologia, letteratura, antropologia e scienze politiche. Il volume, provvisoriamente intitolato Jihadi culture: what militant islamists do when they’re not fighting, sarà pubblicato dalla Cambridge University Press il prossimo anno.
Oltre alla frequenza con cui i leader jihadisti scoppiano in lacrime, ci sono altre sorprese
Secondo la definizione di Hegghammer, la cultura jihaidista include attività che non si limitano a soddisfare le esigenze militari di base. Alcune sono piuttosto sorprendenti. Un aspetto della cultura jihadista che affascina Hegghammer è rappresentato dalle manifestazioni pubbliche di dolore. Lo studioso osserva che questa pratica è così diffusa che Abu Musab al Zarqawi, leader di Al Qaeda in Iraq fino alla sua morte avvenuta nel 2006, era noto come “il macellaio” ma anche come “colui che piange molto”.
Il messaggio nel sogno
È un segno molto rispettato di devozione piangere durante le letture del Corano, quando si guardano i video di propaganda e si riflette sulla sofferenza dei musulmani in tutto il mondo, quando si parla del martirio e del desiderio di compierlo. Tuttavia non è opportuno piangere sulla morte in combattimento dei commilitoni – in questo caso la reazione corretta è gioire.
Oltre alla frequenza con cui i leader jihadisti scoppiano in lacrime, ci sono altre sorprese. Iain Edgar, professore di antropologia alla Durham university e collaboratore del libro di Hegghammer, ha studiato il ruolo dei sogni all’interno dei gruppi jihadisti.
Edgar è un esperto di culture del sogno in tutto il mondo. Molti musulmani prendono sul serio i sogni, in quanto messaggi potenzialmente divini.
In Pakistan, Edgar ha scoperto che si attribuiva al defunto leader taliban mullah Omar l’abitudine di agire in base ai suoi sogni premonitori. E Osama bin Laden, seguendo l’esempio del profeta Maometto, secondo Edgar avrebbe spesso cominciato la giornata chiedendo se qualcuno dei suoi seguaci avesse fatto un sogno significativo. I leader jihadisti usano i sogni per legittimare le loro decisioni (sferrare un attacco, per esempio) riconducendole all’ispirazione divina e per sottolineare il loro stretto legame con il profeta e i suoi compagni.
“Trovo affascinante l’idea che il sogno faccia ancora parte della politica contemporanea e del più grande conflitto odierno”, afferma Edgar.
Altri studiosi sono interessati alle storie che i movimenti jihadisti creano su se stessi. Bernard Haykel e Robyn Creswell, rispettivamente professore di studi sul vicino oriente all’università di Princeton e assistente di letteratura comparata all’università di Yale, hanno scritto un articolo sulla poesia dei gruppi islamici radicali (pubblicato da New Yorker a giugno, è tradotto in italiano sul numero 1132 di Internazionale). I due studiosi analizzano il ruolo preminente della poesia all’interno della cultura musulmana in generale e dei gruppi jihadisti in particolare, laddove la maggior parte delle altre forme di arte è vietata. La poesia, sostengono, è “una finestra sul movimento che parla a se stesso”.
Le pratiche culturali possono avere un valore strategico vitale, anche se difficile da definire e quantificare
I jihadisti scrivono poesie in cui lamentano le difficoltà che patiscono (ma spiegando perché ne valga la pena), vincono dispute retoriche contro i loro critici, celebrano i commilitoni caduti, prendono posizione su temi politici e teologici, lodano i leader e commemorano le battaglie. Si tratta di una poesia oscura, afferma Haykel, spesso modellata su antiche forme islamiche perché i jihadisti, che pure sono decisi a creare una nuova realtà radicale, hanno scelto il ruolo di eredi della tradizione islamica.
Perché i jihadisti, dei ricercati che passano la loro vita in clandestinità o combattendo, “perdono” tanto tempo in attività apparentemente inutili? Una risposta è che le pratiche culturali possono avere un valore strategico vitale, anche se difficile da definire e quantificare.
Il confine tra attività culturale e attività militare può essere indistinto, afferma Hegghammer. I video di propaganda che supportano il reclutamento hanno un chiaro scopo militare – ma è necessario spenderci tempo per registrarne le colonne sonore?
Nel reclutamento di nuovi membri nei gruppi radicali “si punta alla cultura e ai legami sociali, e in questo modo l’ideologia riesce a farsi comprendere,” dice Jonathan Pieslak, professore associato di teoria e composizione al City college di New York. Il suo libro Radicalism and music (Radicalismo e musica), pubblicato dalla Wesleyan University Press, analizza la cultura musicale di Al Qaeda, degli skinhead razzisti, degli estremisti di ispirazione cristiana e dei militanti animalisti.
La forza della musica
Il suo libro precedente, Sound targets: american aoldiers and music in the Iraq war (Obiettivi sonori: i soldati americani e la musica nella guerra in Iraq)(Indiana University Press, 2009), riguardava l’uso della musica per reclutare i soldati statunitensi nella guerra in Iraq e per ispirare al combattimento. “Così”, dichiara, “ho pensato: cosa sta facendo l’altra parte?”.
Gli estremisti islamici praticano solo una forma di musica, che non riconoscono come tale poiché ritengono che l’islam proibisca la musica. Il nasheed, un genere reso popolare dagli islamisti negli anni settanta, elude questo divieto perché si tratta di un canto non accompagnato da strumenti. È la colonna sonora più comune dei video jihadisti.
Inizialmente i gruppi jihadisti prendevano in prestito vecchi canti popolari; poi, espandendosi, hanno cominciato a produrne di propri, per celebrare i loro leader e rievocare particolari battaglie. Osservando che la qualità del suono è migliorata e che gli arrangiamenti sono diventati più sofisticati, Pieslak ipotizza che “è possibile valutare la forza di un’organizzazione dalla forza della cultura musicale originale che produce”. E afferma che esistono molti parallelismi tra i gruppi radicali che ha analizzato. Tutte le loro canzoni sottolineano il bisogno di difendere una causa nobile e contrastata.
La musica può “plasmare i sentimenti di una persona”, afferma Pieslak, e ha un impatto emotivo molto più immediato rispetto ad altre forme di comunicazione. In un opuscolo intitolato 44 modi per sostenere il jihad, Anwar Al Awlaki, un jihadista ucciso nello Yemen nel 2011, sosteneva che “un buon nasheed può avere una diffusione tale da conquistare un pubblico che sarebbe impossibile raggiungere con una conferenza o con un libro. I nasheed sono una fonte di ispirazione soprattutto per i giovani”.
I jihadisti fanno riferimento a un passato immaginario; sono fuorilegge provenienti da paesi diversi che spesso hanno rotto con gli amici e le famiglie. “Hanno bisogno di una cultura che li supporti”, dice Haykel. Di fatto, “la durata del movimento si può spiegare solo con il fatto che è una cultura”.
Hegghammer, ispirato dal lavoro del sociologo Diego Gambetta su come i criminali comunicano e stabiliscono la reciproca affidabilità, propone un’altra teoria: ci vuole tempo per padroneggiare le particolari espressioni di una determinata cultura. Questo investimento di tempo segnala la devozione alla causa jihadista.
Conoscere la cultura jihadista ha importanti implicazioni per la politica
Lo studio della cultura jihadista presenta sfide particolari. I ricercatori devono svolgere un lavoro etnografico mediato, usando fonti secondarie per ricostruire e immaginare la vita quotidiana dei gruppi esaminati. Fortunatamente, i militanti islamisti producono una grande quantità di materiale su se stessi e sulle loro attività e lo rendono disponibile online.
Tra le fonti figurano diari e autobiografie di jihadisti, documenti giudiziari e verbali di processi, interviste con vecchi militanti e un grande numero di video, registrazioni e testi. Naturalmente questo materiale non può essere preso come oro colato, avverte Hegghammer; l’obiettivo dei militanti è attirare le persone, perciò “si tratta di una versione abbellita della vita sul campo”. Ma la quantità di materiale fa sì che gli studiosi possano trovare validi elementi di analisi.
Guardando i video, Hegghammer si concentra su “ciò che accade sullo sfondo”; è così che si è accorto, per esempio, delle persone che piangono durante la lettura delle poesie.
Oltre che alla difficoltà di intervistare i soggetti, Haykel attribuisce la scarsità di studi sulla cultura jihadista a diversi altri fattori: le competenze linguistiche e le conoscenze culturali richieste, la titubanza a esplorare i forum online jihadisti, la riluttanza a umanizzare gruppi che suscitano orrore ovunque.
Ma gli accademici che si concentrano sulla cultura jihadista affermano che essa ha importanti implicazioni per la politica. Una migliore conoscenza di questi gruppi e del modo in cui reclutano, motivano e conservano i loro seguaci può contribuire a migliorare il controreclutamento, che potrebbe quindi tenere conto del fascino dei gruppi sul piano emotivo e immaginario.
Il fascino ignorato
“Non sempre si tratta della causa, non sempre si tratta della dottrina. Si tratta dei piccoli piaceri della vita del militante jihadista”, afferma Hegghammer. “Cosa che, incidentalmente, è molto in linea con ciò che sappiamo dei nostri soldati. La gente si arruola non per la politica estera ma perché le piace la vita militare. L’ordine, l’avventura, le amicizie: insomma, le gratificazioni sociali immediate”.
Anche se le implicazioni politiche sono importanti, Hegghammer ammette che non sono quelle a motivarlo come studioso. “Lo faccio perché ho l’urgenza di comprendere perché queste persone si comportano così”, afferma. A suo parere, nell’analisi ravvicinata della cultura jihadista c’è un’implicita “critica sia verso chi considera i terroristi dei mostri o dei pazzi, sia verso chi li considera vittime dell’emarginazione, della povertà e del razzismo”, cioè verso le semplificazioni degli osservatori a destra e a sinistra dello spettro politico. “Entrambi gli approcci ignorano il fatto che la vita del jihadista esercita un suo fascino”, afferma.
Analizzando ciò che induce le persone a unirsi a gruppi terroristici, gli studiosi ammettono di sviluppare inevitabilmente una forma di empatia verso i loro soggetti, i cui percorsi personali, se osservati da vicino, formano una catena di scelte comprensibili. “Nessuno si sveglia la mattina e va a farsi saltare in aria”, dice Hegghammer. “È un processo lungo e graduale”.
Potrebbe essere l’elemento di conoscenza più semplice e insieme più inquietante offerto dallo studio della cultura jihadista: non solo il fascino e la possibile longevità di questi gruppi, ma anche la loro umanità.
(Traduzione di Cristina Biasini)
Questo articolo è uscito su The Chronicle of Higher Education.