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A Napoli la vita dei rom è più complicata che altrove

Campo rom di Poggioreale, Napoli, 2024. (Ciro Battiloro per Internazionale)

Floriana cammina tra i container usati come abitazioni, superando un gruppo di ragazzini che sta giocando a pallone sull’asfalto. Casa sua è l’ultima in fondo: modulo 22, due piccole stanze e un bagno in cui vive con la figlia. Floriana ha 38 anni, viene da Bucarest, in Romania, ma più della metà della sua vita l’ha trascorsa qui, nella periferia est di Napoli. “Quando vivi in un campo rom sei abituato a spostarti, ma non per scelta. La prima volta ce ne siamo andati perché ci avevano tirato pietre e petardi, poi hanno dato fuoco alle case. La seconda volta è stata la polizia a sgomberarci. Ora abitiamo in un campo del comune, ma io non ho i documenti e non posso trovarmi un lavoro in regola. Tra qualche anno non so dove sarò”.

Il campo di via del Riposo dove vive oggi è stato costruito dal comune di Napoli nel 2017, dopo lo sgombero di quello enorme di Gianturco, che ospitava circa 1.200 persone: in quegli anni, mentre altre città andavano nella direzione del superamento dei campi, a Napoli se ne apriva uno nuovo. L’organizzazione Amnesty international l’ha definita una “violazione degli standard internazionali sui diritti umani” e ha invitato la Commissione europea ad avviare una procedura d’infrazione in base alla direttiva sull’uguaglianza razziale. Ma non è servito a niente: il campo esiste ancora e ospita circa 130 persone, che vivono in 33 abitazioni di 17 metri quadrati ciascuna. All’interno c’è una stanza, una piccola cucina, un bagno.

“Qui dentro ci dobbiamo stare in otto”, dice Alina, mentre stende i panni su fili tirati tra una casa e l’altra. “Abbiamo dovuto spostare la cucina all’esterno perché non ci stavamo tutti, e come noi tante altre famiglie”.

Campo rom di Casoria, Napoli, marzo 2024.

Già nel 2000 il Centro europeo per i diritti dei rom aveva descritto l’Italia il “paese dei campi”, l’unico stato europeo in cui sono state le istituzioni ad aver progettato quelli che sono definiti dall’organizzazione come “ghetti etnici”. Secondo la mappatura realizzata dall’associazione 21 luglio, che difende i diritti delle persone rom, sinti e caminanti, oggi ci sono ancora più di 120 campi in Italia: al loro interno vivono poco più di tredicimila persone, su un totale di circa 180mila rom e sinti presenti nel nostro paese. “Si tratta di numeri piccoli, per trovare una soluzione per queste persone basterebbe la volontà politica”, spiega Jonathan Lee dello European Roma rights centre. “I campi sono un’anomalia italiana: in nessun altro paese è lo stato ad aver creato la segregazione”. Un’anomalia cominciata a partire dalla seconda metà degli anni ottanta, quando alcune regioni istituirono il sistema dei campi come soluzione temporanea al crescente numero di rom in fuga dalla crisi nei Balcani. Quarant’anni dopo, però, i campi sono ancora lì.

Nel 2011 la chiusura dei campi diventa un obiettivo fissato dalla Commissione europea. Il governo italiano lo recepisce l’anno dopo, con la strategia nazionale di inclusione delle comunità rom, sinti e caminanti. Il piano conta su una serie di finanziamenti nazionali ed europei per portare avanti progetti su quattro ambiti: casa, scuola, salute, lavoro. “Alcuni fondi sono stati spesi bene, altri male, certi non sono mai stati usati e si sono persi”, spiega Roberto Bortone dell’ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar), coordinatore della strategia. “I popoli romaní sono una minoranza non riconosciuta in Italia, il che rende difficile definirli in quanto beneficiari dei progetti, e complica anche la raccolta dati”.

Negli ultimi anni diverse città si sono mosse per superare il modello dei campi. L’indagine Abitare in transizione, condotta dall’Unar e dall’Istat, analizza i progetti in 745 comuni italiani: tra il 2012 e il 2020, le persone che effettivamente sono uscite dai campi per vivere in un alloggio stabile in Italia sono state 3.104. A Napoli sono stati attivati due progetti, ma secondo i dati dell’indagine solo una persona è poi andata a vivere in una casa. A Torino sono state 663, a Roma 93. “La città di Napoli e l’intera area metropolitana sconta un ritardo gravissimo nella strategia per il superamento dei campi”, dice Carlo Stasolla, fondatore dell’associazione 21 luglio. “In quelli di quest’area ci sono 3.290 rom che ci vivono, con una densità quasi quattro volte superiore rispetto alla media italiana. È la situazione peggiore nel nostro paese: le persone sono in una condizione di deprivazione assoluta, con le quarte generazioni che ancora dormono in auto o in tenda”.

Campo rom di Casoria, Napoli, marzo 2024.

Non solo, nei campi si continua a morire, com’è successo quest’anno a due persone in quelli di Napoli. La prima vittima è stata una bambina di sette anni, che il 13 gennaio ha toccato i cavi elettrici nel campo di Giuliano. La seconda David, 22 anni, che il 29 febbraio è stato folgorato dalla corrente in quello di Cupa Perillo a Scampia. Il suo corpo è rimasto senza sepoltura per tredici giorni perché non aveva la residenza. Sulla spinta dell’indignazione, il 22 marzo la comunità rom ha organizzato un presidio davanti al comune, ottenendo l’apertura di un tavolo per risolvere il problema della residenza.

“Il superamento dei campi rom è una questione che ci portiamo dietro da anni”, dice l’assessore al welfare di Napoli, Luca Trapanese. “La soluzione non è semplice, anche perché l’emergenza abitativa è trasversale: a Napoli affittare una casa è difficile anche per le famiglie in cui qualcuno lavora, mentre mancano i fondi per ristrutturare gli alloggi popolari”. E anche quando i soldi ci sono, non sempre sono utilizzati: “Il comune ha perso 27 milioni di euro per progetti già approvati, che la vecchia amministrazione non ha mai portato a compimento”.

Campo rom di Casoria, Napoli, marzo 2024.

Tra i progetti che invece hanno visto la luce c’è il centro Grazia Deledda per l’accoglienza di rom originari della Romania, inaugurato nel 2015 e presentato dal comune come una sperimentazione per “restituire la dignità dell’abitare a persone che avevano vissuto nella precarietà”. La struttura si trova a Soccavo, nella periferia est di Napoli, e nasce all’interno di un’ex scuola che già dal 2003 accoglieva rom: grazie a fondi nazionali e di coesione europei per più di un milione di euro l’edificio è stato completamente ristrutturato tra il 2014 e il 2015.

Oggi, però, quella ristrutturazione sembra un ricordo lontano: il tetto è danneggiato e quando piove entra l’acqua, l’umidità sta corrodendo le pareti, i pannelli sul soffitto sono rotti in più punti e ci sono fili elettrici pendenti. “Quando salta la corrente o si rompe un tubo, siamo noi a chiamare il tecnico e pagare la riparazione”, racconta George, uno degli abitanti, mentre indica il quadro elettrico danneggiato.

Il centro ospita circa 150 rom, che dormono in quelle che prima erano aule scolastiche, mentre le cucine e i bagni sono in comune. “Nelle docce non c’è neanche una tenda per tutelare la nostra privacy”, dice George. “Il riscaldamento non funziona e nelle stanze usiamo le stufette elettriche”. Negli anni, inoltre, sono sempre meno gli operatori impiegati nella struttura: analizzando i bandi comunali rivolti al terzo settore, risulta che nel 2018 al centro Deledda fossero previsti quattro operatori, mentre oggi ne restano solo due. “Controllano chi c’è e verificano che i bambini vadano a scuola”, racconta George. “Per il resto non fanno granché: quando abbiamo bisogno siamo lasciati soli”.

Campo rom di Poggioreale, Napoli, 2024.

Il comune si è detto a conoscenza delle manutenzioni che andrebbero fatte nell’edificio. “È già stato stanziato un fondo di quattro milioni di euro per alcune ristrutturazioni di alcune strutture, tra cui anche il centro Deledda. I lavori dovrebbero partire a breve”, promette l’assessore Trapanese. Altri soldi potrebbero insomma essere investiti in una struttura che, comunque, presenta diverse criticità.

“Il centro Deledda non rispetta le normative sulla gestione dei centri di accoglienza”, spiega Carlo Stasolla. “È realizzata e gestita su base etnica, e pertanto viola il principio di non discriminazione. E poi non ha carattere di temporaneità: le persone sono lì da anni e non c’è un reale progetto di inclusione lavorativa e abitativa su di loro”.

George, che ha 28 anni, racconta di essere entrato nel centro quando ne aveva 14. “Ho quattro figli, nati tutti all’ospedale qui dietro”, racconta. “Parlano perfettamente italiano, vanno a scuola, ma sono cittadini di serie b: senza residenza non puoi costruirti una vita. Non puoi avere il medico di base, il pediatra, non puoi chiedere l’assegno familiare, non puoi metterti in lista per una casa popolare. Sei senza diritti”.

Oltre al centro Deledda, il comune di Napoli gestisce anche due campi cosiddetti formali: uno è quello in via del Riposo, l’altro è il Villaggio della solidarietà, situato alle spalle del carcere di Secondigliano e nato nel 2000 dopo che un grande incendio in un altro campo aveva lasciato senza casa decine di famiglie. Anche in questo caso, l’idea iniziale era che si trattasse di una soluzione temporanea: in realtà le persone vivono qui da più di vent’anni, e i primi container oggi sono stati inglobati da altre stanze costruite in legno o mattoni.

Per ottenere un alloggio nei campi gestiti dal comune, le famiglie devono firmare il cosiddetto patto di emersione, un accordo che impone una serie di obblighi, tra cui mandare i bambini a scuola e chiedere il permesso se ci si vuole allontanare per più di due settimane o se si vuole ospitare qualcuno. “Il comune mette in competizione diversi diritti, come quello alla scuola e quello alla casa”, afferma Gigi Mete, responsabile dell’associazione N:ea, che si occupa di progetti d’inclusione per le persone rom. “Paradossalmente, nei campi autogestiti le persone hanno più libertà di autodeterminarsi”.

Campo rom di Poggioreale, Napoli, 2024.

Questi ultimi si trovano vicino a quelli gestiti dal comune. In quelli informali non ci sono elettricità e fognature, e il problema dello smaltimento illegale dei rifiuti rende la vita degli abitanti molto difficile. “Almeno qui abbiamo potuto costruirci una casa con tutti i confort, solo che in qualsiasi momento potrebbero arrivare e buttarcela giù”, racconta Alex mentre si siede sul divano, appena rientrato dal lavoro. Il salone è ampio, con una grande tv al plasma e la cucina a vista. “Usiamo il generatore per l’elettricità, le bombole di gas per cucinare e le stufe a legna per scaldarci”, racconta Alex, che ha 40 anni, una moglie e cinque figli. La loro casa è nel campo di Cupa Perillo a Scampia, dove vivono circa 350 persone, quasi tutte nate in Italia. “Io sono nato e cresciuto a Napoli, ma al momento non ho la cittadinanza né la residenza. Eppure in casa mia si parla napoletano, diciamo solo qualche parola in romaní”. Il campo, che in passato ha ospitato fino a 1.200 persone, oggi è in stato d’abbandono e in alcuni punti i rifiuti hanno superato in altezza i tetti delle case. “Quando piove è un disastro, si forma un fiume al posto della strada”, racconta la figlia Vesna, dodici anni. “La prof si arrabbia se non vado a scuola, ma attraversare il campo con l’auto quando diluvia è praticamente impossibile”.

La vita nel campo ha conseguenze anche sulla salute delle persone: “L’aspettativa di vita si abbassa perché spesso manca la prevenzione, molti rom non hanno il medico di base e l’accesso ai servizi sanitari è più complicato”, spiega Crescenzo Caiazza, infermiere che lavora nell’ambulatorio di Emergency di Napoli Ponticelli.

Il mese scorso il comune ha presentato un nuovo progetto che dovrebbe aiutare le persone a lasciarsi alle spalle il campo di Cupa Perillo: agli abitanti saranno assegnate per tre anni 33 case confiscate alla camorra, per un totale di 207 posti, mentre altre quaranta persone potranno accedere a progetti del terzo settore. Nel frattempo si lavorerà sui progetti di autonomia delle famiglie: 26 riceveranno un assegno da diecimila euro dopo aver lasciato la propria casa nel campo, e per settanta persone sarà attivato un tirocinio. L’investimento totale è di 8,2 milioni di euro.

“Il piano presenta varie criticità”, commenta Emma Ferulano, attivista dell’associazione Chi rom e chi no, che da anni lavora nel campo. “Innanzitutto non è sufficiente a garantire una sistemazione a tutti gli abitanti, che sono più dei posti messi a disposizione. Inoltre, il percorso verso l’autonomia è molto limitato: i tirocini sono pochi e su otto milioni solo 260mila euro vanno direttamente alle famiglie. Il rischio è di assistere allo sradicamento di un pezzo di popolazione dal proprio quartiere, senza che ci sia una reale alternativa: invece di realizzare progetti speciali per le persone rom, bisognerebbe includerle nel welfare cittadino e garantire anche a loro il pieno diritto all’abitare la città”.

A prescindere dal piano del comune, il campo di Cupa Perillo si sta svuotando da anni: le condizioni di vita sono sempre più precarie, ci sono stati diversi incendi –l’ultimo avvenuto lo scorso novembre – e molte persone sono emigrate. “Se avessi la possibilità me ne andrei anche io. Chi vorrebbe far crescere i suoi figli in mezzo alla spazzatura, a respirare fumi tossici?”, conclude Alex. “Se non hai le armi per combattere, vai in guerra sapendo già che perderai. Noi non vogliamo essere trattati come persone da salvare, non chiediamo l’elemosina. Vogliamo solo che ci siano garantiti i nostri diritti”.

I nomi delle persone rom intervistate sono stati cambiati.
I ritratti non sono delle persone citate nell’articolo.

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