I ragazzi che resistono nel rione Sanità di Napoli
Là dove Genny Cesarano si è accasciato, colpito da un proiettile vagante, i suoi amici hanno piantato un ulivo. Una lapide ricorda il tragico fatto. Il ragazzo, di appena 17 anni, è stato ucciso da un proiettile vagante alle quattro del mattino del 6 settembre scorso, nella piazza che gira intorno alla splendida chiesa barocca, dal tetto maiolicato in ceramica vietrese, intitolata a san Vincenzo Ferrer.
Era una delle ultime notti di fine estate e Genny, agli ultimi giorni di vacanza prima dell’inizio del nuovo anno scolastico (era iscritto al terzo anno dell’istituto alberghiero) tirava tardi con alcuni amici.
Pare che già poche ore prima, verso le 21.30, una “paranza di bambini”, armata di tutto punto e a bordo di motorini, avesse scorrazzato per le strade del quartiere con atteggiamento intimidatorio. Il missionario comboniano Alex Zanotelli, che vive in un monolocale di pochi metri quadri annesso alla chiesa e affacciato sulla piazza, dice di aver sentito dei colpi verso quell’ora, “dei botti molto forti, che in genere segnalano l’arrivo di un carico di droga o il compleanno di un boss”. Era solo l’avvisaglia di quello che sarebbe accaduto di lì a poco.
Antonio Cesarano, il padre di Genny, non riesce a passare sul luogo del delitto e dà appuntamento nel chiostro della chiesa. È uno dei leader dei precari Bros, un progetto regionale di formazione per la raccolta differenziata dei rifiuti che in 18 anni ha sfornato quasi quattromila corsisti, nessun assunto e un conflitto sociale ormai cronicizzato.
Ma gli ultimi mesi li ha trascorsi a combattere per un altro obiettivo: riabilitare l’immagine del figlio, non un baby-camorrista ucciso per un regolamento di conti come qualcuno aveva sostenuto subito dopo l’uccisione, bensì una vittima innocente di un raid intimidatorio per far capire al quartiere chi sono i nuovi padroni.
Le chiamano paranze di bambini, stese, e qualcuno, più impropriamente, baby gang
Genny Cesarano come Silvia Ruotolo, la giovanissima Annalisa Durante e da ultimo Maikol Russo: il giovane venditore ambulante di calzini alla stazione Garibaldi è stato scambiato per un affiliato a un clan, che sarà poi ammazzato a Melito, nella periferia nord, appena una settimana dopo, ucciso davanti al bar in cui lavorava il fratello, la notte di capodanno. Effetti collaterali di un conflitto a bassa intensità che ha visto morire settecento persone dagli anni ottanta a oggi e non dà tregua a una delle capitali dell’Europa mediterranea. Eppure, la sua soluzione non è in nessuna agenda politica, a Roma come a Bruxelles.
I guappi con il kalashnikov
“Quella notte mio figlio era in piazza con un gruppo di amici, come spesso accadeva. Scherzavano tra loro, cose normali fra ragazzi di quell’età. Non avrebbero mai immaginato quello che poteva accadere”, dice Antonio Cesarano.
Sono arrivati a bordo di quattro scooter, passando sotto il ponte fatto costruire da Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat agli inizi dell’ottocento. Il ponte consentiva di raggiungere la reggia di Capodimonte dal centro della città senza attraversare le forche caudine di un quartiere assediato dalla povertà e dalla sovrappopolazione e oggi intitolato alla partigiana Maddalena Cerasuolo, che durante le quattro giornate di Napoli riuscì a impedire che i nazisti lo facessero saltare.
Le chiamano “paranze di bambini”, “stese”, e qualcuno, più impropriamente, “baby gang”, e sono i guappi della postmodernità camorristica: figli e nipoti di malavitosi in carcere o ammazzati, rifiutano le vecchie gerarchie e provano a ridisegnare i confini del potere mafioso, vicolo per vicolo, a colpi di kalashnikov e mitra Uzi importati dalle guerre ai confini dell’Europa.
A scorrere l’elenco dei 51 ragazzi finiti nelle maglie di un’inchiesta della direzione distrettuale antimafia partenopea, si ritrovano cognomi noti da decenni nella geografia malavitosa delle budella di Napoli: Amirante, Brunetti, Giuliano, Sibillo.
La notte del 6 settembre Zanotelli ha sentito i colpi proprio sotto la sua finestra e ha pensato che fossero ancora una volta “fuochi d’artificio”. Invece avevano cominciato a sparare all’impazzata ancora prima di arrivare sotto il ponte, vicino all’ascensore che porta fuori dalla “malanapoli”, dove pochi mesi prima era rimasto a terra un altro ragazzo, Ciro Esposito, 21 anni, figlio del boss Pietro, colpito da nove colpi di pistola e oggi ricordato da una lapide protetta da una grata.
Ciro è stato il primo morto ammazzato dell’anno e suo padre l’ultimo, nel 2015 horribilis del rione Sanità. Pierino Esposito è stato ucciso in pieno giorno, a pochi metri dall’ulivo che i ragazzi del quartiere hanno piantato sul luogo dell’omicidio di Genny Cesarano e dall’ascensore davanti al quale hanno crivellato di proiettili suo figlio.
Mancano scuole, sicurezza, lavoro
Alle quattro del pomeriggio del 14 novembre, mentre l’Italia piangeva la ricercatrice veneziana Valeria Solesin e i morti degli attentati di Parigi e il quartiere Sanità si preparava a una notte bianca dedicata a Genny Cesarano, i killer sono tornati a colpire: a bordo di uno scooter, si sono presentati con la solita sventagliata di kalashnikov in aria, poi hanno mirato al bersaglio senza fare economia di proiettili.
Il boss, di 45 anni, colto di sorpresa ha tentato la fuga in moto. Ferito, è caduto e, una volta a terra, è stato finito con un colpo alla nuca. In quello stesso momento, Giovanni Catena, di 29 anni, era uscito per andare a buttare la spazzatura dal bar affacciato sulla piazza, nel quale lavorava. È stato colpito anche lui, al ventre. Sentiti i colpi, Alex Zanotelli si è precipitato all’esterno con la sua assistente Felicetta e un frate francescano. Sono stati loro a stendere un lenzuolo sul cadavere. Giovanni Catena, ferito gravemente, per fortuna si è salvato, anche se la pallottola gli rimarrà conficcata nella pancia.
L’abbiamo rivisto in piazza, il 5 dicembre scorso, a guidare la manifestazione del neoformato movimento Popolo in cammino che ha sfilato nel centro della città. L’hanno chiamato il corteo dei parroci perché è stato indetto da quattordici preti di quartieri a rischio (ma i preti in marcia erano un cinquantina, e con loro gli studenti e gli attivisti dell’associazione Libera).
L’hanno fatto precedere da una lettera aperta al governo in cui erano indicati tre fronti d’azione: la scuola, la sicurezza e il lavoro. “Alla Sanità non c’è neppure un asilo comunale, solo una scuola elementare, tre classi delle medie e un istituto superiore che è il primo in Italia per evasione scolastica. In questo modo stiamo preparando i ragazzini per la camorra. Inoltre, qui non c’è nessun controllo e nessun tipo di politiche sociali, men che meno si interviene per usare i giovani in lavori utili alla comunità”, spiega Zanotelli, che è uno degli organizzatori di quella manifestazione e osserva questa guerra che insanguina Napoli affacciato sulla piazza della Sanità, concentrato dei mali e della prorompente vitalità di questa città.
La notte del 6 settembre il missionario comboniano, che si è trasferito quindici anni fa dalla baraccopoli di Korogocho, in Kenya, non si è invece neppure affacciato al balcone. Solo al mattino ha saputo che davanti alla porta della sua abitazione, sempre aperta, avevano ucciso un ragazzo: “Quando mi sono svegliato, mi hanno detto che avevano ammazzato Genny. Era domenica e allora ho chiamato il parroco e gli ho detto che non me la sentivo di dire messa con il sangue fresco per terra. L’unica cosa che potevamo fare era una cerimonia in piazza, ma il questore l’ha vietata”.
Antonio Cesarano, padre di una vittima della violenza mafiosa, non chiede vendetta ma giustizia sociale
Le autorità temevano incidenti: perfino il funerale è stato fissato alle 7.30 del mattino per limitare al massimo la durata e la partecipazione. Ma i divieti non hanno frenato l’indignazione e il quartiere si è stretto ugualmente attorno alla famiglia di Genny. Già alle 7 la piazza era gremita di gente, in chiesa i ragazzi della Sanità si erano disposti in cerchio attorno alla bara bianca e, finita la cerimonia, un fiume di persone è partito in corteo fino a piazza Cavour, disobbedendo alle disposizioni della prefettura.
Il quartiere dei limoni
Con i suoi 67mila abitanti condensati in cinque chilometri quadrati, un budello di vicoli e palazzi barocchi che reclamano un intervento urgente dell’Unesco, il rione Sanità è uno dei luoghi più suggestivi e allo stesso tempo incasinati della capitale del Mezzogiorno d’Italia.
Lo scrittore Ermanno Rea è nato ai suoi margini e ci veniva da bambino in visita ai nonni materni. Lo ha scelto come luogo simbolo del suo prossimo romanzo (in uscita per Feltrinelli) e lo definisce “una Napoli al quadrato”, dove ogni aspetto della napoletanità è amplificato.
Eduardo de Filippo vi ambientò una delle sue commedie più famose, Il sindaco del rione Sanità. Vittorio de Sica girò qui una delle scene indimenticabili di Ieri oggi e domani: una Sophia Loren con il pancione percorre al contrario la salita Cinesi, così detta perché nel settecento il missionario Matteo Ripa, fondatore dell’università L’Orientale, tornando dalla Cina vi aveva fatto costruire una scuola per i giovani che lo avevano seguito da Pechino.
Salvatore di Giacomo fu ispirato dal codice d’onore che vigeva nei suoi vicoli quando scrisse Sfregio, storia di una donna che difende il suo protettore-fidanzato camorrista che l’ha sfregiata con una rasoiata:
Ha tagliata la faccia a Peppenella
Gennareniello de la Sanità;
che rasulata! Mo la puverella,
mo proprio è stata a farse mmedecà.
Po’ ll’hanno misa ’int’ a na carruzzella,
è ghiuta all’Ispezzione a dichiarà,
e ’o dellicato, don Ciccio Pacella,
ll’ ha ditto: – Iammo! Di’ la verità.
Ch’ è stato, nu rasulo, nu curtiello?
Giura primma, llà sta nu crucefisso
(e s’ ha tuccato mpont’ a lu cappiello).
Di’, nun t’ ammenacciava spisso spisso?
– Chi? – ha rispuost’ essa. – Chi? Gennareniello!
– No!… V’ ’o giuro, signo’! Nun è stat’ isso!…
Nel quartiere che diede i natali al principe Antonio de Curtis, in arte Totò, oggi non crescono più gli aranci e i limoni descritti da Pompeo Sarnelli nella settecentesca Nuova guida de’ forestieri. Tra gli ex voto di santi e madonne spuntano piuttosto le immagini, sempre più numerose, di giovani e giovanissimi prematuramente deceduti. Per “far tacere le pistole”, il ministro dell’interno Angelino Alfano si è fiondato a Napoli, il 4 febbraio, per annunciare l’invio dell’esercito, una misura emergenziale già adottata più volte in passato. I clan, con suprema noncuranza, l’hanno accolta con cinque morti ammazzati in appena una settimana.
Aspetti sorprendenti
Antonio Cesarano è convinto che con la sola repressione non si va lontano. “Il quartiere ha bisogno di risposte sociali”, dice. Lui, padre di una vittima della violenza mafiosa, non chiede vendetta ma giustizia sociale.
Ma il ministro Alfano non ha ascoltato lui e neppure le analoghe richieste di Alex Zanotelli e degli altri preti di frontiera. Se si fosse presentato ai funerali di Genny, avrebbe potuto sapere come stanno provando a far rinascere il quartiere i giovani che si sono stretti attorno alla bara.
Avrebbe potuto incrociare ragazzi come Nando, “amministratore delegato” della cooperativa che gestisce le catacombe e il b&b intitolato al “monacone” spagnolo san Vincenzo Ferrer, ristrutturato magnificamente dall’artista partenopeo Riccardo Dalisi in un’ala della cattedrale barocca, o Adele, che ha studiato archeologia all’università, ha imparato il francese a Grenoble e l’inglese a Malta e ora fa la guida turistica nei labirinti del sottosuolo.
O come i 47 elementi (sette violini primi, sette violini secondi, sei viole, cinque violoncelli, quattro contrabbassi, tre flauti traversi, tre clarinetti, tre oboi, tre trombe, tre corni francesi, tre percussioni) del Sanitansamble, un’orchestra da camera formata da ragazzi sottratti alla strada.
O ancora avrebbe potuto imbattersi in una delle “storie di ordinario coraggio” raccontate da Cinzia Massa e Vincenzo Moretti in Rione Sanità (Ediesse), oppure fare visita al Nuovo teatro Sanità, fondato dal collettivo Sott’o ponte in una chiesa ottocentesca sconsacrata, nel cui sottosuolo sono sepolti preti e suore di un vicino monastero, chiusa da quindici anni e messa a loro disposizione dal parroco del quartiere don Antonio Loffredo, che ha raccontato la sua esperienza nel libro Noi del rione Sanità (Mondadori).
La “Napoli al quadrato” della Sanità, a ben guardarla, svela aspetti sorprendenti. Genny, hanno urlato forte ai funerali e poi in una successiva fiaccolata i giovani che stanno provando a far rinasce il quartiere, “era uno di noi”.