L’allenatore che porterà la prima pugile italiana alle Olimpiadi
Pure ora che potrebbe volare a Rio de Janeiro ad accompagnare la sua allieva Irma Testa, prima pugile qualificata a un’Olimpiade nella storia d’Italia, Lucio Zurlo non ha cambiato le sue abitudini.
Come ogni pomeriggio, arriva in tuta alla Boxe Vesuviana, dove trova ad attenderlo un gruppo di ragazzi con la borsa in spalla, ai quali apre le porte della palestra. Poi si concede l’ennesimo caffè della giornata, sempre nello stesso bar dietro l’angolo, tappezzato di simboli del Savoia, squadra di calcio dal passato remoto glorioso che nel campionato 1923/24 vinse il girone centromeridionale per poi perdere lo scudetto in finale contro il Genoa, dove ha un conto perennemente aperto. “Non riesco a rinunciarci, lo bevo anche la sera prima di andare a dormire e a volte di notte, tra un risveglio e l’altro”, dice.
Alla Provolera (la polveriera) di Torre Annunziata, un labirintico dedalo di viuzze a un passo dal mare che prende il nome dalle fabbriche di armi dell’epoca borbonica, quest’uomo di 79 anni dal fisico asciutto, i toni pacati e la battuta pronta è conosciuto da tutti come il maestro. La sua notorietà non ha mai varcato i confini del quartiere e lui stesso non ha mai dato mostra di voler abbandonare i luoghi dove è nato, soprannominato la polveriera per via di una fabbrica di schioppi di epoca borbonica, convertita in spolettificio per granate dopo la prima guerra mondiale e oggi trasformata in officina per automezzi militari.
La Boxe Vesuviana è proprio lì, tra la Provolera e il confinante quadrilatero di stradine denominato non si sa perché “delle carceri”, su cui torreggia il nobiliare palazzo Fienga, che racchiude nel suo scheletro quasi due secoli di storia della cittadina: nell’era d’oro dell’industria molitoria torrese è stato un pastificio, poi il 21 gennaio 1946 fu l’unico edificio a sopravvivere all’esplosione di un treno militare alleato carico di tritolo e bombe d’aeroplano, che rase al suolo l’intero borgo marinaro uccidendo 54 persone.
Negli anni ottanta fu trasformato nel quartier generale del clan Gionta, che dettava legge tra i vicoli del quadrilatero delle carceri. Ci abitavano 55 famiglie, tra le quali quella del boss Valentino, che aveva fatto dipingere di giallo oro le pareti e ricoprire del prezioso metallo infissi e cornici. Quando è stato definitivamente sgomberato, alla metà di gennaio del 2015, è spuntata fuori perfino una poltrona-trono dai bordi dorati.
Ho ricevuto soddisfazioni in grande quantità, non solo sul piano sportivo ma soprattutto su quello umano
Lucio Zurlo sarebbe potuto andar via più volte da una realtà difficile come quella della Provolera, accettando le varie offerte che gli venivano presentate. Ha però sempre rifiutato, preferendo rimanere nella sua palestra, dove mancava tutto e dove era costretto a fare pure le pulizie, tra i ragazzi “dagli 8 anni in su” tirati via dalla strada. “Quando non volevano venire li andavo a prendere casa per casa”, racconta. Per tutti è stato allenatore ma pure “padre, confessore, amico”, perché “un insegnante deve anche essere un buono psicologo”. In 54 anni di attività, dice, “ho ricevuto soddisfazioni in grande quantità, non solo sul piano sportivo ma soprattutto su quello umano”, visto che “molti ragazzi si sono salvati grazie alla boxe e solo una minoranza non ce l’ha fatta”.
Tra i suoi pupilli, oggi, c’è un ragazzo senegalese che non può combattere gare ufficiali perché non ha il permesso di soggiorno. In palestra hanno fatto una colletta per raccogliere i 500 euro necessari a iscriverlo al corso di allenatore, che nelle sue intenzioni dovrà servirgli per aprire una filiale della Boxe Vesuviana nel suo paese.
Dall’underground partenopeo ai Giochi olimpici
In giro per il mondo “il maestro” di Torre Annunziata ha preferito mandare i suoi allievi. Solo nel 1972 se ne andò alle Olimpiadi di Monaco con il primo pugile della sua palestra qualificato ai giochi: lo “stilista del ring” Ernesto Bergamasco. Era nel Villaggio olimpico quando un commando dell’organizzazione palestinese Settembre nero fece strage di atleti israeliani. Ma, “a dire la verità, non me ne sono nemmeno accorto”, confessa. Anche se Bergamasco fu sconfitto al primo incontro da un pugile tailandese, si trattò del primo grande exploit sportivo della Boxe Vesuviana, al quale seguiranno altre quattro Olimpiadi, nonché numerosi titoli italiani ed europei.
Eppure, Lucio Zurlo non è mai salito su un ring di persona. Da giovane ha provato a fare di tutto: calcio, atletica leggera, scherma, rugby. Finché si innamorò del pugilato, “perché è lo sport più sincero, nel quale ci si picchia alla luce del sole, senza ipocrisie, e quando finisce il match si diventa amici”. Può apparire singolare, ma la violenza codificata della boxe e l’autodisciplina che ne deriva aiuta i ragazzi a non cadere in quella di strada, decisamente più pericolosa. Andare ad allenarsi a Napoli, negli anni cinquanta, era “un’odissea”: un viaggio di un’ora “appeso al treno”, poi a piedi fino alla Fulgor di Geppino Silvestri che sfornerà campioni del calibro di Patrizio Oliva, “lo sparviero di Poggioreale”.
Per questo Zurlo si spostò in una palestra della più vicina Pompei, dove però “non facevano pugilato, si picchiavano e basta”. Qui, racconta oggi con un sorriso beffardo, “ho compiuto l’unica cattiveria della mia vita: ho fatto un corso da allenatore e li ho fatti chiudere”. Un seminterrato abbandonato di un ex edificio scolastico fu la prima sede della Pugilistica Oplonti, che riprendeva il nome della città sepolta con Pompei, Ercolano e Stabiae nell’eruzione del Vesuvio del 79 dopo Cristo, oggi patrimonio dell’umanità Unesco. “Quando entrai la prima volta in quei locali fui letteralmente aggredito da topi grandi come ratti”, ricorda.
Lucio Zurlo affrontò gli anni bui di Torre Annunziata allenando giovani talenti
Zurlo racconta l’underground pugilistico dell’epoca con ironia e disincanto. Una volta, per far superare i controlli a un suo allievo sovrappeso, fece salire sulla bilancia, “il più grande nemico dei boxeur”, un suo fratello gemello, nascosto nel bagagliaio dell’automobile e tirato fuori al momento opportuno.
C’era poi Giovanni Maiorano, un atleta che non amava vincere. “Un muratore possente, non è un pugile ma nelle mani ha una forza impressionante”, lo definisce Patrizio Oliva nel suo libro di memorie Sparviero. “Era a fine carriera e non gli interessava il risultato”, racconta Zurlo. Preferiva sbarcare il lunario vendendosi le gare in modi originali. Il “maestro” era ammirato dalla grande abilità di Maiorano nel costruirsi le sconfitte senza che nessuno se ne accorgesse. La sua specialità era mettere ko gli avversari, tenerli stretti per evitare che cadessero e spingerli alle corde sibilando agli allenatori: “O mi date le scarpe, che era un modo elegante per dire la mazzetta, o lo lascio cadere”. Quando voleva, però, sapeva vincere: un giorno, indisposto da un pugile romano che lo prendeva in giro, abbandonò ogni remora e lo mise knock out in men che non si dica.
Il pugile-pescatore che disse no a Don King
Dagli anni settanta a oggi, la polisportiva Oplonti del “maestro” Zurlo, che nel frattempo aveva cambiato nome in Boxe Vesuviana per “aprirsi ai paesi vicini”, ha sottratto alla criminalità decine di ragazzi e sfornato numerosi talenti. Come Gaetano Caso, che si trovò a gareggiare con uno spagnolo duro e scorbutico cinque giorni prima del matrimonio e la sua unica preoccupazione fu quella di non arrivare all’altare con un occhio gonfio o un labbro tumefatto.
Oppure l’“imprevedibile e geniale” Pietro Aurino, sua croce e delizia, che riuscirà a diventare campione europeo, a sfiorare il titolo mondiale e a salire sul ring ai Giochi di Atlanta del 1996 prima di essere arrestato per concorso esterno in associazione camorristica, spaccio e traffico d’armi. “Era il Maradona del ring, tutta Torre Annunziata veniva a vederlo”, dice Zurlo, che ancora oggi non riesce a darsi pace per non essere riuscito a evitare che la sua carriera si concludesse tra le sbarre. Appena uscito dopo otto anni trascorsi in cinque carceri diverse, l’ex enfant prodige tutto genio e sregolatezza è tornato dall’allenatore che l’aveva iniziato alla boxe: “Mi ha detto che voleva riprendere ad allenarsi, e sono rimasto stupefatto nel vedere che non aveva perso l’antico smalto”.
E ancora, il pugile-pescatore Giuseppe Langella, immortalato su una parete della palestra al fianco di Don King, il mitico organizzatore dell’incontro tra George Foreman e Muhammad Alì nel 1974: “Voleva portarlo negli Stati Uniti, ma lui rispose di no, perché teneva a cché ffà ’a Torre”, spiega il maestro. “Aveva da fare a Torre Annunziata”, ogni notte su un peschereccio da mezzanotte alle cinque del mattino. Non se la sentiva di abbandonare reti e lenze.
La strage di Sant’Alessandro e l’omicidio Siani
Tra i vicoli ancora si ricorda la mattanza avvenuta al Circolo dei pescatori il 26 agosto del 1984. Per dare una lezione al boss Valentino Gionta, che non voleva rivali “in casa propria”, i clan della nuova famiglia usciti vincenti dalla guerra con la nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo organizzarono un assalto in piena regola. Per entrare nel quadrilatero senza essere avvistati dalle guardie armate dei Gionta usarono un cavallo di Troia: un bus rubato a Marcellina, una frazione di Santa Maria del Cedro sull’alto Tirreno calabrese, con la scritta “gita turistica”. A bordo non c’erano però innocui turisti, bensì quindici persone armate di tutto punto. Al termine del raid, ricostruito da Marco Risi nel film Fortapàsc, si contarono otto morti, tra i quali un innocente che si trovava per caso nel circolo, e sette feriti.
Furono anni bui per Torre Annunziata, che Lucio Zurlo affrontò facendo quel che aveva sempre fatto: allenare giovani talenti, tra i quali pure un rampollo dei Gionta, che “arrivava sempre accompagnato” da una scorta di camorra e che lui ha trattato come tutti gli altri, senza alcun timore reverenziale. Un’attività sociale che gli ha sempre garantito la riconoscenza dell’intero quartiere.
La pubblicazione di un retroscena su quella che è ricordata come la strage di Sant’Alessandro costò un anno dopo la vita a Giancarlo Siani, giovane collaboratore del Mattino di Napoli. In particolare, stando a quello che ha raccontato dal carcere di Poggioreale uno dei killer, a provocare la condanna a morte del giornalista fu una rivelazione considerata infamante dal clan Nuvoletta. A quanto pare, Nuvoletta, per porre fine a una faida interna alla nuova famiglia con il clan Alfieri di Nola, aveva messo sul piatto la testa del superlatitante Valentino Gionta, “divenuto un personaggio scomodo” e fermato a Marano, quartier generale dei Nuvoletta, che non potendo sopportare l’accusa d’“infamia” prevista dal codice mafioso per chi fa arrestare una persona, per lavare l’onta decisero di uccidere Siani.
Per ironia della sorte, come racconta Antonio Franchini nel romanzo L’abusivo, pare che Siani fosse dispiaciuto di poter “scrivere solo il pezzo nel quale riassumeva lo scenario della strage”, dovendo lasciare spazio all’inviato ufficiale del quotidiano. Oggi, negli stessi vicoli, spadroneggia il “clan dei figli dei carcerati”, una malavita meno strutturata ma dal grilletto facile, che controlla le piazze di spaccio e non risponde più neppure a padri e zii reclusi.
Per questo l’attività con i ragazzi del fondatore della Boxe Vesuviana acquista un valore, se possibile, ancora più importante.
La farfalla all’occhiello
Alle soglie degli ottant’anni, Lucio Zurlo ha compiuto l’ennesima impresa: qualificare alle Olimpiadi (nella categoria 60 chilogrammi) una donna, la prima a parteciparvi nella storia della boxe italiana. Irma Testa, 19 anni e un curriculum già di tutto rispetto, soprannominata the Butterfly, la farfalla, per la leggerezza con cui si muove sul ring, è il fiore all’occhiello della Boxe Vesuviana, palestra scarna e senza alcun accessorio del cuore ex operaio di Torre Annunziata, dove un tempo si contavano ben sessanta tra mulini e pastifici e dove la camorra ha attecchito sulle macerie della crisi industriale.
Irma Testa ha indossato i guantoni alla Boxe Vesuviana per la prima volta quando aveva dodici anni. Da allora ha vinto un bronzo e un argento agli europei, nel 2015 la medaglia d’oro ai mondiali femminili juniores e attualmente è considerata la pugile under 20 più forte al mondo. Intervistata da Fabio Fazio a Che tempo che fa, ha ironicamente sostenuto di temere solo sua madre: “È una napoletana di quelle che, quando esci fuori a giocare in cortile, ti dice ‘se ti fai male, ti do il resto’”. Afferma che “la boxe insegna ad avere autocontrollo, a non agire d’impulso e a non fare le cose azzardate” e punta alla medaglia d’oro.
Lei e la campionessa italiana Mina Morano sono la punta di diamante di una squadra composta da venti ragazze. Una di loro, Rosaria Montuori, studente liceale, ha piantato un cartello vicino ai quattro scalini che portano sul ring. C’è scritto “sul primo respira forte, sul secondo raccogli tutta la concentrazione, sul terzo punta al tuo obiettivo, sul quarto carica tutta la forza che hai prima di buttarla fuori, varcata la soglia colpisci, colpisci e colpisci ancora, il tuo avversario non è mai migliore di te. Mai”. Il “maestro” Zurlo è fiero di loro: “Sa cosa vuol dire convincere una donna a fare boxe, qui a Torre Annunziata?”. Sottintende: una piccola rivoluzione.