La crisi del cinema in Italia va in onda su Netflix
Due mesi e mezzo dopo la presentazione al festival di Venezia, in una mite serata di metà novembre, Sulla mia pelle è proiettato, caso più unico che raro, nel mini-emiciclo riservato ai gruppi parlamentari a Montecitorio. Il film racconta in maniera asciutta e coinvolgente gli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi, un geometra romano di 31 anni fermato dai carabinieri la notte del 15 ottobre 2009 vicino al parco degli Acquedotti a Roma, trovato con 28 grammi di hashish e qualche grammo di cocaina, e portato in una cella di sicurezza nella caserma dei carabinieri Appia, dalla quale uscirà livido e con due vertebre fratturate. Il precipitare verso una morte più che evitabile, avvenuta il 22 ottobre nel reparto riservato ai detenuti dell’ospedale Pertini, è raccontato in ordine cronologico, facendo procedere in parallelo l’agonia della vittima, che non riesce a rendersi davvero visibile agli occhi di chi gli sta attorno, e l’odissea dei genitori ai quali non è consentito di incontrarlo.
Il caso era stato sviscerato dalle denunce della famiglia, dalle rivelazioni giornalistiche e dalle inchieste giudiziarie, ma la finzione cinematografica suscita emozioni profonde e ha un impatto forte sull’opinione pubblica. Prima di entrare in un palazzo istituzionale, Sulla mia pelle è finito ovunque: nei cinema e nelle università, in centri sociali e nei circoli Arci. I sette minuti di applausi a Venezia sono stati solo un assaggio di quello che sarebbe accaduto in seguito. “A Milano, Roma, Bergamo, Brescia, Bologna, Parma, Senigaglia, Fano, Riccione e in molte altre città italiane ci sono state tantissime iniziative spontanee autorganizzate di proiezione del film”, ha tenuto il conto su Facebook l’associazione Stefano Cucchi, fondata da Ilaria Cucchi, la sorella. Pure nella più compassata camera dei deputati, dove però i parlamentari si contavano sulla punta delle dita, i numerosi giornalisti, i funzionari e i collaboratori degli onorevoli presenti non sono rimasti indifferenti. Il presidente Roberto Fico al termine della proiezione l’ha definito “toccante”.
Eppure, in base agli accordi con i distributori e i produttori, il film sulla morte di Stefano Cucchi rischiava di avere una vita solo in streaming o quasi, seguendo la sorte di altri tre film veneziani: il vincitore della Palma d’oro, Roma, del regista messicano Alfonso Cuaròn; La ballata di Buster Scruggs dei fratelli Coen; e 22 luglio di Paul Greengrass, che racconta la strage di Utøya compiuta nel 2011 in Norvegia dal neonazista Anders Breivik.
Tutti e quattro i film avevano in comune il fatto di essere targati Netflix – quello italiano perché distribuito dall’azienda statunitense, gli altri perché sono stati anche prodotti – e gli esercenti non accettavano che finissero contemporaneamente nelle sale e in streaming, come chiedeva la multinazionale americana. Per questo motivo Sulla mia pelle – uscito due settimane dopo la presentazione a Venezia – è stato boicottato da molti cinema.
L’accordo tra la casa produttrice, la Lucky Red, e il colosso della distribuzione online – 137 milioni di abbonati in tutto il mondo alla fine di settembre, un fatturato di quasi dodici miliardi di dollari e un utile netto di quasi seicento milioni nel 2017 – ha movimentato le giornate veneziane. Per la prima volta in Italia, infatti, non è stata rispettata la prassi che prevede una finestra di 105 giorni tra l’uscita al cinema e la distribuzione su un altro media. Ancor più rispetto agli altri tre – prodotti interamente da Netflix – gli esercenti hanno accusato una produzione italiana di essersi svenduta a una piattaforma diventata famosa grazie a serie tv come House of cards, ma che ha usufruito anche del tax credit, il credito d’imposta sugli investimenti delle imprese nel cinema previsto dalla legge Franceschini del 2016.
“Netflix ci ha chiesto di vedere il film e sono rimasti molto impressionati”, ha detto al quotidiano il manifesto il produttore Andrea Occhipinti. “Abbiamo chiesto in tutti i modi di rispettare una finestra temporale per non dover limitare l’uscita in sala, ma non hanno accettato. Rifiutare un’occasione che si presenta così all’improvviso e che mette a disposizione la potenzialità di una platea mondiale sarebbe stato un delitto”. Occhipinti ha dato le dimissioni da presidente della sezione distributori dell’Anica, la principale associazione del settore, presentate per non prestare il fianco a ulteriori polemiche.
Le paure
Dietro alla protesta di esercenti e distributori si nasconde il timore che lo sbarco in Italia del gigante americano, simboleggiato dalla sponsorizzazione da 376mila euro dell’albero di Natale in piazza Venezia a Roma, con la sua potenza economica e la capacità di imporre un modello di visione casalingo e a basso costo, possa assestare il colpo di grazia alle sale cinematografiche italiane, che già tra il 2016 e il 2017 avevano visto crollare presenze e incassi, con una perdita complessiva di quasi 80 milioni di euro, secondo l’annuale rapporto dell’Anec, l’associazione degli esercenti.
Occhipinti riconosce il rischio, spiega che quando Netflix non esisteva c’era la pirateria e prova a mostrare un’altra faccia della medaglia. “Le piattaforme danno la possibilità di far vedere un film dove non c’è neppure un cinema o dove non sarà mai proiettato”, sostiene.
È il caso di Sulla mia pelle, che grazie a Netflix è arrivato in 190 paesi di tutto il mondo, visibile su computer e smartphone con i sottotitoli in inglese. Anche se la piattaforma non fornisce le cifre, dalla Lucky Red fanno sapere che è andato molto bene nell’Europa dell’est, in Russia, in Medio Oriente, in America Latina e più in generale in paesi che hanno regimi autoritari.
Le polemiche
Le polemiche però non si fermano alle sale italiane. Roma di Cuarón in primavera era stato escluso dal festival di Cannes per gli stessi motivi. Il direttore artistico Thierry Frémaux era stato categorico: “Netflix ha un modello economico che non vuole cambiare e la Francia ha una regola che dice che i film devono uscire nei cinema”. Se fosse uscito nelle sale, per la legge francese Roma sarebbe potuto andare in streaming solo dopo tre anni, e alla fine Netflix ha preferito rinunciare.
A Venezia, il direttore artistico Alberto Barbera gli ha invece spalancato le porte e così l’azienda ha riscosso il suo primo grande successo internazionale come produttore diretto di un’opera d’autore. Il film, uno “splendido ritratto familiare” che “non somiglia a nulla di già visto”, come lo ha definito Francesco Boille su Internazionale, girato in digitale in bianco e nero, sarà su Netflix dal 14 dicembre, esattamente un mese dopo un altro film veneziano firmato dalla piattaforma digitale, La ballata di Buster Scruggs dei fratelli Coen. “Netflix finanzia e fa film non mainstream, questo è molto importante a prescindere da come vengano distribuiti”, ha detto Joel Coen.
La resistenza degli esercenti ad aziende come Netflix – ma pure a iTunes di Apple e a Prime Video di Amazon – ha avuto come esito che Roma, grazie alla Cineteca di Bologna, ha fatto una rapida apparizione in cinquanta sale, dal 3 al 5 dicembre, mentre il western d’autore dei Coen, uscito su Netflix a metà novembre, è rimasto fuori dei cinema, a differenza degli Stati Uniti dove è stato programmato in alcune grandi città come New York, Los Angeles e San Francisco. Non ci si fosse messo d’impegno il presidente della Cineteca, Gian Luca Farinelli, il film di Cuarón, a suo parere “il più bello del secolo”, sarebbe stato visibile solo in rete. “Un peccato non farlo vedere nelle sale”, dice Farinelli, che lo paragona a capolavori del passato come Fanny e Alexander di Ingmar Bergman e ad Amarcord di Federico Fellini.
L’irruzione di Netflix tra le major cinematografiche ha polarizzato le opinioni di chi si occupa di cinema. Sempre a Venezia, il regista americano David Cronenberg – premiato con il Leone d’oro alla carriera – ha attaccato i critici sostenendo che “tutte queste polemiche sono solo effetto di una nostalgia, mentre è invece importante guardare avanti”. Sul fronte opposto, un editoriale comparso sull’ultimo numero del periodico Gli asini ha accusato il direttore del festival di Venezia di aver “venduto l’anima a Netflix, al nuovo ordine capitalista e al suo universale dominio”.
La critica è affilata e scava più a fondo delle polemiche sui tempi di uscita dei film sui diversi mass media. La rivista diretta da Goffredo Fofi contesta un “modello” che punta a “privatizzare anche l’utenza”. Per questo, a suo dire “il cinema vero dovrebbe fare un atto di separazione, dichiarando una vocazione minoritaria e lavorando nei margini e per i margini”.
Il decreto Bonisoli
Il terremoto provocato dall’accordo tra la Lucky Red e Netflix ha spinto il governo a intervenire. Il 15 novembre, all’indomani della proiezione di Sulla mia pelle alla camera dei deputati, il ministro dei beni culturali, Alberto Bonisoli del Movimento 5 stelle, ha annunciato la firma di un decreto attuativo della legge Franceschini, per “regolare le finestre in base alle quali i film dovranno essere distribuiti prima nelle sale e dopo su tutte le piattaforme”.
Il decreto, frutto di un accordo tra il governo e le associazioni del cinema, si applica però solo ai film italiani e prevede che, tra le due uscite, trascorra una “finestra” temporale che, a seconda dei casi, va da 105 giorni ad appena dieci. La sanzione prevista è l’esclusione dal tax credit e da qualsiasi altro contributo statale.
I dati sul cinema italiano diffusi dal ministero per i beni e le attività culturali e dall’Anica al festival di Venezia rivelano che la partita potrebbe essere persa in partenza, almeno dal punto di vista economico, a favore di Netflix. Il dossier parla di un “generale impoverimento del settore produttivo”. I costi totali di produzione hanno registrato un “calo drastico”, dai 344 milioni del 2016 ai 263 milioni del 2017, e il finanziamento pubblico è diminuito costantemente, al punto che i contributi per le opere prime o seconde si sono quasi dimezzati negli ultimi due anni. Viceversa, l’azienda statunitense nel solo 2018 ha investito quasi otto miliardi nella produzione.
Anche le persone che vanno al cinema in Italia sono diminuite. Nel 2017 le presenze in sala sono state quasi cento milioni, il 12,38 per cento in meno dell’anno precedente.
Per quanto riguarda Netflix, invece, una rilevazione di comScore – un’azienda che monitora la rete a fini di marketing – ha contato alla fine di marzo 5,4 milioni di abbonati italiani. Due anni fa erano appena 280mila, di cui 110mila nel mese di prova gratuito. Ora la piattaforma si prepara a finire anche in tv, grazie a un accordo con Sky che dovrebbe essere operativo alla fine del 2019.
I cinema tradizionali invece soffrono, e non da oggi. L’erosione dell’offerta di sale cinematografiche, la crisi verticale di quelle d’essai e la crescita delle multisale sono fenomeni che hanno almeno dieci anni alle spalle. Solo a Roma, in pochi anni hanno chiuso i battenti quaranta cinema e alcuni di questi, come l’ex Palazzo a San Lorenzo e l’America a Trastevere, sono stati occupati da gruppi di attivisti che li hanno riconvertiti ad attività sociali e culturali. L’associazione Piccolo Cinema America, cacciata dall’ex cinema occupato, ha animato la scorsa estate romana, facendo registrare 60mila presenze in piazza San Cosimato, a Trastevere.
A Milano resiste il Mexico, al quale è stato pure dedicato un documentario, e a Perugia l’ex Modernissimo è stato riaperto da una cooperativa di cinefili che hanno indicato un nuovo possibile modello di gestione e fruizione, non solo legato alla proiezione ma come luogo di socializzazione e incontro culturale.
Un piccolo miracolo
Sulla mia pelle può dire di aver vinto la sfida su entrambi i fronti e perfino su un terzo: le proiezioni “spontanee” organizzate nelle università e nei centri sociali. Appena due giorni dopo l’uscita nelle sale, il 14 settembre, una proiezione gratuita messa in piedi dal collettivo Sapienza clandestina nel prato dell’ateneo romano ha richiamato oltre duemila giovani. La proiezione organizzata da Radio Popolare all’Anteo Palazzo del cinema di Milano ha fatto registrare il tutto esaurito.
Nonostante la censura degli eventi su Facebook, bloccati dal social network a causa delle violazioni del copyright, il film è stato visto e discusso in decine di spazi autogestiti, che hanno sfruttato proprio la distribuzione sul web. A fornire le istruzioni è stato il sito di riferimento della galassia antagonista Infoaut: “Come faremo a proiettare un film ancora nelle sale? Semplice, la produzione del film ha venduto i diritti anche a Netflix, basta avere l’account della piattaforma”.
A dispetto dei timori, lo streaming e le proiezioni gratuite non hanno danneggiato i cinema che lo hanno proiettato facendo pagare il prezzo del biglietto. Anzi, il passaparola e le polemiche – non ultima quella tra la famiglia Cucchi e il ministro dell’interno Matteo Salvini, che alla vigilia della proiezione a Montecitorio ha dichiarato di non aver tempo per andare al cinema – hanno funzionato da moltiplicatore.
A settembre, nonostante il boicottaggio degli esercenti, Sulla mia pelle ha fatto registrare il sesto incasso italiano dell’anno, la programmazione è salita da quaranta a novanta sale e a fine novembre il bilancio parlava di centomila biglietti staccati e 550mila euro di introiti. Se fosse stato già in vigore il decreto Bonisoli, Sulla mia pelle, che ha beneficiato del tax credit, avrebbe dovuto scegliere tra il credito d’imposta e Netflix, altrimenti sarebbe rimasto nelle sale al massimo pochi giorni, come Roma. Comunque fosse andata, il piccolo miracolo della moltiplicazione delle proiezioni e degli spettatori non sarebbe stato possibile.