Dall’altra parte del mare, cosa spinge i tunisini a partire
Anche i tunisini cantano Bella ciao. Era una delle canzoni che suonavano nei giorni della rivoluzione dei gelsomini. H’biba ciao non parla di partigiani né di guerra o di mondine, ma di migranti. L’ha scritta Bendirman, un musicista che è stato un simbolo per i giovani rivoluzionari che nel 2011 chiedevano la fine dello “stato di polizia” e del regime di Zine el Abidine Ben Ali.
“Domani, quando ti sveglierai, non mi troverai, bella ciao. Metti Rai Uno, forse mi vedrai saltellare in terra italiana”, dice la canzone. “Sia che vediamo quel paradiso coi nostri occhi – bella ciao – sia che affoghiamo e moriamo senza sepoltura, la mia anima tornerà da te a nuoto”, continua il musicista tunisino sulle note di uno dei più famosi ritornelli del mondo. A otto anni dall’unica primavera araba che ha prodotto una transizione democratica, i rivoluzionari di allora ancora cantano H’biba ciao, ricordando quei giorni passati a fare picchetti e manifestazioni lungo Avenue Bourguiba, nel centro di Tunisi, a Kasserine o a Sidi Bouzid. Ma è arrivato il tempo della disillusione.
Ben Ali è morto in esilio in Arabia Saudita pochi giorni dopo il primo turno delle elezioni presidenziali; il presidente tiranno che ha governato il paese per 23 anni non tornerà più, ma la Tunisia non ha mai vissuto una fase così critica dai giorni della rivoluzione. Al primo turno delle presidenziali che si sono svolte il 15 settembre l’astensione è stata alta, le forze politiche post-rivoluzionarie si sono presentate divise, i candidati erano 26 e al secondo turno andranno due outsider, due candidati che non vengono dai partiti tradizionali: il giurista ultraconservatore Kais Saied e il magnate della tv Nabil Karoui, che è in prigione, accusato di corruzione.
Un segnale della sfiducia dei tunisini verso i partiti politici e la loro classe dirigente, soprattutto verso quelle formazioni che hanno condotto il passaggio alla democrazia, i laici di Nidaa Tounes e gli islamisti di Ennahda, che erano stati i vincitori delle elezioni nel 2014.
Dopo le presidenziali, il 6 ottobre si svolgeranno anche le elezioni legislative, che daranno un’indicazione più chiara sul futuro del paese, mentre la situazione socioeconomica è perfino peggiorata rispetto al 2011. L’unica certezza è che per molti tunisini emigrare rimane una scelta obbligata. Sono lontani i giorni in cui dalle coste tunisine partivano decine di imbarcazioni, approfittando della mancanza di controlli dovuta alla caduta di Ben Ali nel gennaio del 2011. Ancora oggi, tuttavia, in alcune zone del paese – Sfax, Mahdia, Zarzis, Biserta – le piccole imbarcazioni di legno continuano ad aspettare che scenda la notte per puntare la prua verso le coste siciliane.
Due tentativi
“H’biba ciao”, pensa Mohamed Amin Maatoug quando un pomeriggio di agosto verso le quattro saluta sua madre e le sue sorelle nella casa di famiglia, a Zarzis. Dice che prenderà il pullman per Tunisi per tornare a lavorare in fabbrica, ma in realtà sa che potrebbe non rivederle mai più. Ha un cappellino da baseball ben calzato sulla testa, cerca di nascondere l’espressione di sgomento e malinconia. Prima di andarsene, si volta per guardare un’ultima volta il cortile di casa sua. Siwar, la sorella, lo richiama, ha dimenticato le chiavi. Torna indietro e la saluta di nuovo, poi frettolosamente si chiude la porta dietro alle spalle.
Ha deciso di provare un’altra volta a imbarcarsi per Lampedusa, ma non lo ha detto alla sua famiglia, non vuole che si preoccupino. L’ultima volta, un anno prima, ha rischiato di morire. Partirà dalla spiaggia di El Ogla, insieme a un gruppo di amici: nella notte salperanno due barche di legno, ciascuna con una decina di persone a bordo. Ha lasciato il cellulare a casa, nascosto tra i vestiti, ci tiene troppo e ha paura che finisca in acqua o di perderlo durante il viaggio. I ragazzi aspetteranno che arrivi la notte, che le famiglie tunisine in vacanza abbiano portato via i loro ombrelloni dalla spiaggia e che le luci dei bar sul lungomare siano spente. Intorno alle tre spingeranno in acqua una vecchia imbarcazione di legno comprata da un pescatore, che è anche un trafficante, e faranno rotta verso nordest, sperando di non essere visti dai guardacoste.
“Lambadusa”, come la chiama Amin, è la prima tappa del viaggio. Per i ragazzi di Zarzis, una cittadina di 75mila abitanti nel sud della Tunisia, la piccola isola italiana è un sogno ricorrente. Amin ha sempre pensato che avrebbe provato a raggiungere suo zio che lavora a Parigi, finiti gli studi. Quando si è diplomato come perito meccanico ha chiesto il visto all’ambasciata francese, ma gli è stato negato, così ha deciso di attraversare il mare con un gruppo di amici, pagando un trafficante. La prima volta nell’estate del 2018 è andata molto male: dopo qualche ora di navigazione le condizioni meteo sono peggiorate. Si sono alzate onde alte che hanno messo in pericolo la stabilità dell’imbarcazione: la barca ha rischiato di ribaltarsi per due volte.
I suoi vestiti erano fradici, era bagnato dalla testa ai piedi. Per il brutto tempo la barca ha perso la rotta e per quattro giorni i ragazzi hanno vagato in mare sotto un sole cocente, fino a quando vicino alle isole Kerkenna sono stati intercettati dalla marina tunisina che li ha soccorsi e li ha portati fino a Zarzis, dove sono stati consegnati nelle mani della polizia. Nel gruppo c’erano due ragazzini minorenni di dodici e quattordici anni. La polizia ha chiamato la famiglia di Amin che nel frattempo aveva denunciato la scomparsa del figlio. Aveva la pelle in fiamme quando è arrivato a casa, l’acqua marina che gli aveva impregnato i vestiti durante il viaggio, aveva reso le scottature dovute al sole ancora più profonde, la camicia che portava indosso gli era rimasta appiccicata, sulle braccia aveva delle ustioni profonde. È stato ricoverato in ospedale per diversi giorni e lì ha promesso a se stesso e alla sua famiglia che non avrebbe mai più provato ad attraversare il Mediterraneo. Invece solo un anno dopo lo ha fatto di nuovo.
Un chiodo fisso
Si era trasferito a Tunisi per cercare lavoro, l’aveva trovato in una fabbrica, ma lo pagavano poco. Aveva sempre quel chiodo fisso di voler andare a Parigi da suo zio: anche se aveva deciso di non pensarci più, quell’idea gli tornava spesso in mente come un pungolo. Così insieme ad alcuni amici ha organizzato una nuova traversata, senza dirlo alla sua famiglia. Siwar, sua sorella, lo ha scoperto solo il giorno successivo alla partenza, quando ha ricevuto una telefonata da un amico che gli diceva che suo fratello la notte precedente si era imbarcato.
“Ho avuto molta paura. Ho chiamato subito mia madre e per giorni siamo stati in attesa di una sua chiamata, non riuscivamo a guardarci negli occhi”, racconta Siwar. Dopo 26 ore dalla partenza, Amin ha chiamato casa. È arrivato a Lampedusa, questa volta senza problemi grazie alle condizioni meteorologiche favorevoli.
Quattromila dinari tunisini, il corrispettivo di 1.200 euro. Due imbarcazioni, ciascuna con una decina di persone a bordo, 26 ore di viaggio, cento miglia nautiche. Meno di una settimana dopo il suo arrivo a Lampedusa, Amin è stato trasferito a Porto Empedocle, in Sicilia. Da lì il pullman e poi il treno verso Milano. Lo chiamo al telefono mentre è alla stazione centrale di Milano, ha provato a prendere un autobus, ma alla frontiera lo hanno rimandato indietro. Proverà di nuovo qualche giorno dopo. Ora è a Parigi, a casa dello zio, e ha già trovato lavoro come pizzaiolo in un locale gestito da connazionali.
“Amin si sentiva sfruttato in Tunisia, non era pagato quanto avrebbe voluto e in proporzione al tempo e alla fatica che ogni giorno metteva nel suo lavoro: per questo ha deciso di andare in Francia, per darsi una possibilità, per avere una vita migliore”, spiega Siwar, il volto incorniciato da un chador colorato che le mette in evidenza i tratti del viso eleganti e austeri. “Ha vent’anni e in Tunisia tutti pensano che l’Europa, in particolare la Francia, sia il posto in cui cercare un futuro. Se i tuoi amici, la tua famiglia pensano questo alla fine è normale che provi a farlo”. Siwar ha 24 anni, studia biologia all’università e vorrebbe fare la ricercatrice, aveva avviato la procedura per trasferirsi in Francia con un visto di studio, ma poi ha pensato che avrebbe sofferto troppo a stare lontana dalla sua famiglia, così ha interrotto la trafila e ha deciso di rimanere in Tunisia. “Mi piacerebbe viaggiare, ma solo per turismo”, assicura la ragazza.
Emergenza Lampedusa?
I giornali italiani nell’ultima settimana hanno ricominciato a parlare di una nuova emergenza immigrazione a Lampedusa, perché è stato registrato un lieve aumento degli arrivi di imbarcazioni dalla Tunisia rispetto all’anno precedente, ma Ramdhan Messaoudi del Forum Tunisien pour les droits economiques et sociaux (Ftdes) invita alla cautela e assicura che in concomitanza con delle scadenze politiche ed elettorali c’è sempre stato un aumento delle partenze e una diminuzione dei controlli da parte della guardia costiera tunisina.
Quello dei tunisini è il primo gruppo di migranti arrivato via mare in Italia nel 2019: sono stati 1.807, secondo i dati del ministero dell’interno, il 26 per cento del totale dei migranti arrivati in Italia. Sono lontani i numeri del 2011, quando nel paese arrivarono in poco tempo 15mila persone a Lampedusa, approfittando dell’assenza di controlli in Tunisia. “Nel 2014 avevamo registrato una diminuzione delle partenze, ma nel 2015 ci sono state proteste e una nuova ondata di disordini e di instabilità sociale, questo ha provocato un nuovo aumento”, spiega Messaoudi nel suo ufficio a due passi dal ministero dell’interno a Tunisi.
Nel paese nordafricano ogni anno centomila studenti abbandonano gli studi prima di terminarli, perché non ritengono che sia utile studiare per migliorare la loro condizione. “Il contesto sociale ed economico particolarmente instabile favorisce movimenti migratori in uscita”, continua Messaoudi. I migranti subsahariani sono una percentuale bassa tra quelli che partono dalla Tunisia, ma in aumento. “In passato i subsahariani erano tra il 9 e l’11 per cento dei migranti che partivano dalla Tunisia, nel 2019 la percentuale è salita a causa della situazione deteriorata in Libia e dei bombardamenti dei centri di detenzione libici. Il 35 per cento delle partenze avviene da Sfax”, assicura il portavoce dell’ong tunisina. La maggior parte delle imbarcazioni che partono dalla Tunisia, tuttavia, trasportano tunisini, precisa Paola Pace, portavoce dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim). “I subsahariani preferiscono ancora partire dalla Libia, nonostante le condizioni di sicurezza deteriorate nel paese, a causa dei prezzi della traversata che sono molto più bassi. Gli arrivi da terra dalla Libia alla Tunisia non sono aumentati”, continua Pace.
“Una delle novità che si osservano a partire dal 2015 è il profilo delle persone che scelgono di emigrare: prima partivano solo i ceti più poveri, quelli che non finivano gli studi e che non avevano la possibilità di studiare. Ora emigrano anche i ceti più abbienti, i ragazzi che hanno un diploma. È in aumento il numero dei minori non accompagnati che si imbarcano: nel 2018 sono stati il 35 per cento. Prima erano pochissime le donne che partivano (solo l’1 per cento) ora sono sempre di più”.
Per Messaoudi alla base della scelta di molti tunisini c’è una sensazione generale di disillusione e di perdita di prospettive: “Mancano i servizi e la situazione economica non è buona, ma è soprattutto la mancanza di futuro che spinge i tunisini a partire, la consapevolezza che un titolo di studio non basta a migliorare la propria posizione nella scala sociale. Partono soprattutto i giovani che vivono nelle periferie delle grandi città”. Dal 2011 la Tunisia ha firmato un accordo con l’Italia per la riammissione dei migranti irregolari: a Tunisi arriva un volo a settimana con sessanta tunisini. Ma spesso chi viene rimpatriato, dopo qualche anno o addirittura pochi mesi riprova a partire.
“Le istituzioni non seguono i ragazzi che sono rimpatriati. Sono abbandonati a se stessi e spesso diventano vittime di gruppi terroristici o di gruppi criminali. Nella migliore delle ipotesi provano a partire di nuovo”, conclude l’esperto dell’Ftdes. La concessione di visti da parte dell’Unione europea è uno dei punti sul tavolo del quarto round di negoziati in corso dal 2015 per il Trattato di libero scambio tra Tunisia e Unione europea (Aleca). “I tunisini stanno chiedendo una liberalizzazione dei visti in cambio di condizioni per niente favorevoli sulla libera circolazione delle merci”. Ma intanto l’unica strada per uscire dal paese passa dal mare.
Wassim è un altro ragazzo di Zarzis che incontro sul lungomare, si definisce un trafficante improvvisato: uno che per partire ha comprato un’imbarcazione da un pescatore e ha trovato altre 14 persone con cui condividere il viaggio. Hanno caricato una barca di sette metri di tutti i beni di prima necessità: gasolio, acqua, biscotti. E sono partiti. Ci sono volute 26 ore, come per Amin. Per ottenere il visto sarebbero serviti molti più soldi, quasi nessuno ottiene il visto per l’Europa, ma con la corruzione si possono ottenere molte cose, spiega il ragazzo. “Quando hai un passaporto ‘rosso’ vai dove vuoi, ma non è così se non hai un passaporto europeo. Io qui avevo un lavoro come pasticcere, ma volevo guadagnare di più, comprarmi dei terreni in Tunisia”, racconta il ragazzo seduto sulla spiaggia davanti al mare.
Wassim è riuscito ad arrivare a Lampedusa, ma appena sbarcato è stato trasferito nell’hotspot dell’isola e dopo qualche giorno su un traghetto è stato portato a Porto Empedocle e poi direttamente nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Trapani. Dopo essere stato identificato dal console tunisino a Palermo, è stato fatto salire su un volo per Tunisi con altre 28 persone, ogni migrante era accompagnato da due poliziotti e aveva delle fascette che gli bloccavano i polsi. “È stata una grande umiliazione tornare a casa dopo aver provato ad andare in Europa. Chiederò il visto un’atra volta. Se funziona bene, altrimenti non smetterò di provare”.
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