La doppia prigione dei migranti: visita al Cie e al Cara di Brindisi
La strada che conduce a Restinco, lasciata la statale da Brindisi, si snoda in un tratto di aperta campagna. Dopo circa cinque chilometri, sulla destra si apre una biforcazione e si nota una specie di fortino dalle mura giallo ocra. Il sole è alto, il cielo limpido, il caldo opprimente. Sono trenta gradi già alle undici del mattino.
Non ci sono cartelli, ma non abbiamo bisogno d’indicazioni per capire che siamo arrivati al Centro di identificazione ed espulsione (Cie) e al Centro accoglienza richiedenti asilo (Cara) di Brindisi. I militari dell’esercito, che vediamo al di là dei vetri del punto di ingresso, sono la conferma che siamo giunti a destinazione, anche senza navigatore.
Consegnati i documenti, varchiamo il portone, accolti dalla dirigente della prefettura e dal direttore della cooperativa Auxilium, che gestisce entrambi i centri. Con Yasmine, Antonella, Erminia, di LasciateCientrare, siamo stati autorizzati a una visita per verificare le condizioni di detenzione dei migranti nell’ambito dell’iniziativa di visita di Cie, Cara e Centri di accoglienza straordinaria presenti sul territorio nazionale, promossa dalla campagna per la Giornata mondiale del rifugiato. Un blocco di container è sistemato nello spiazzo di cemento dove il sole non concede riparo.
Disorientati e smarriti
Il Cie, riaperto nell’ottobre 2015 dopo i lavori di ristrutturazione, ospita 48 migranti, mentre nel Cara – che ha una capienza ufficiale di 128 persone – ce ne sono circa 220. La sicurezza all’esterno è affidata all’esercito, mentre la sorveglianza interna è di responsabilità della polizia, supportata da carabinieri e guardia di finanza. La gestione di entrambi i centri è stata appaltata dalla prefettura di Brindisi alla cooperativa Auxilium, che gestisce anche il Cara di Castelnuovo di Porto, a Roma, e si è aggiudicata la gara con un ribasso di circa il 10 per cento su una base di gara di 7,7 milioni di euro per tre anni.
La quota di 40 euro al giorno per migrante, stanziata dalla prefettura, copre tutti i servizi di gestione interna, inclusi quelli di mediazione. Il bando di affidamento prevede che ci sia un operatore ogni cinquanta ospiti, fatti i conti ci sono dunque quattro operatori per turno.
I minori, per legge, non dovrebbero entrare in una struttura per adulti. È un caso eccezionale, che si è ripetuto altre volte nel corso dell’anno
Non abbiamo nemmeno terminato le presentazioni che la nostra attenzione è attirata da alcuni ragazzi, evidentemente minori, che, vestiti di un pigiama azzurro, vanno verso un gruppo di tende blu, di telo doppio e pesante, montate a ridosso dei container destinati ai richiedenti asilo ospiti del Cara. Sono – ci dicono – un gruppo di trenta minori eritrei non accompagnati, sbarcati la sera prima a Brindisi.
Yasmine ed Erminia sobbalzano, i minori, per legge, non dovrebbero proprio entrare in una struttura per adulti; la norma, per la loro maggiore tutela, prevede che siano immediatamente sistemati in una comunità per minori. È un caso eccezionale, ci dice la dottoressa Cicoria della prefettura, le tende le hanno appena montate, ma in giornata andranno via. Un caso eccezionale che si è ripetuto altre volte nel corso dell’anno. Ci affacciamo nelle tende, all’interno il caldo è fortissimo, l’aria irrespirabile e non c’è nessuno. I ragazzi sono quasi tutti in fila davanti agli unici due telefoni a schede posti alla destra del cortile, appaiono disorientati e smarriti.
Proseguiamo, decidendo di entrare prima nel Cie, che è separato dalla zona del Cara da un alto muro di cemento che ne definisce il perimetro. Qui superiamo un nuovo controllo dei militari, così rigorosi da informarsi anche sulla professione dei visitatori e da chiedere i documenti alla stessa responsabile della prefettura.
Ci incamminiamo lungo uno stretto corridoio, alla destra del quale ci sono gli ingressi nei tre blocchi detentivi (A, B, C), simmetrici, posti l’uno accanto all’altro. Il primo spazio di ciascun blocco, al quale si accede attraverso una piccola porta blindata, è un’area aperta circondata da mura di cemento e chiusa da una rete metallica posta a circa otto metri di altezza. Una grata di ferro, ricoperta da plexiglass, posta lungo il corridoio d’ingresso, completa l’effetto gabbia. Non c’è alcun riparo dal sole, una piccola seduta di cemento costeggia uno dei lati delle mura. Qui prima si giocava con un pallone di cuoio, poi una pallonata ha rotto una telecamera (il centro è completamente videosorvegliato) e da allora si possono usare solo quelli leggeri: “Con questo non giocano nemmeno i bambini”, ci dice un ragazzo tunisino.
C’è un senso di abbandono che nemmeno in carcere abbiamo mai visto
Superato il “cortile” si entra in un secondo ambiente (sul capitolato d’appalto è definito spazio benessere): alcuni tavoli fissi in cemento, un televisore, alcune sedute, sempre in cemento. Qui si mangia, si gioca a carte, si caricano a turno i cellulari (è possibile tenere solo quelli di vecchia generazione, che non possono scattare foto) e soprattutto si lasciano trascorrere le giornate. Da qui si passa alla parte interna, tre camerate con circa sette posti letto ciascuna. Il letto è un blocco di cemento, sormontato da una sorta di baldacchino di acciaio e cemento, un materasso di gommapiuma e lenzuola di carta. Non ci sono tavoli, comodini, sedie, o arredi di nessun genere. Non c’è nessuno spazio di culto, in un angolo semibuio del corridoio sono stati disposti dei teli per terra per consentire di pregare.
Non ci sono nemmeno specchi, non sono permessi. In una delle stanze del blocco C il muro è corroso da enormi macchie di umidità. “Fa male al cuore tutto questo”, dice sussurrando un ragazzo albanese che ci passa al fianco. Ha ragione, c’è un senso di abbandono che nemmeno in carcere abbiamo mai visto.
A. è sudamericano, ha 28 anni, e ha scontato sei anni di carcere, è in Italia da tredici anni con tutta la sua famiglia, ha una ragazza italiana. In un perfetto italiano ci dice che sì, perfino in carcere si stava meglio. Lì le cose erano più chiare e si avevano più diritti. È in questo posto da ventidue giorni, ha scontato la sua pena, ma nella sentenza aveva anche l’espulsione e ora non sa se al termine dei novanta giorni lo rispediranno su un volo verso una terra dove non ha più nessuno.
In ogni blocco che visitiamo ascoltiamo le stesse storie di smarrimento e di un’attesa senza alcuna certezza. Qui tutti contano il termine dei novanta giorni, sperando di andare via senza essere costretti a un rimpatrio forzato. Chi invece ha fatto richiesta di domanda di asilo come rifugiato (circa il 25 per cento dei reclusi) può vedere prolungata la sua attesa fino a dodici mesi, senza nessuna certezza sull’esito della domanda.
Nel blocco A incontriamo C., un ragazzo moldavo di ventidue anni. È qui da quindici giorni, arriva da Rimini, dove ha la fidanzata incinta di una bambina. Faceva piccoli lavori presso le strutture balneari, è stato arrestato per un banale litigio con i carabinieri mentre stava per usare lo skateboard con alcuni amici. Denuncia di essere stato maltrattato in caserma prima di essere condotto al Cie.
A. è un nigeriano di trentotto anni che non parla italiano. Proviamo a farci capire in inglese, ma non è semplice. Sembra fortemente sedato, sotto l’effetto di psicofarmaci. È in Italia da almeno cinque anni, arrivato con un barcone proveniente dalla Libia, dove era rimasto tre anni passando molto tempo in prigione. In Italia ha scontato una pena di circa due anni e sei mesi nel carcere di Pavia. È qui al Cie da quasi tre mesi. Dice di prendere un medicinale la mattina e uno la sera. Continua a ripetere “I am sick, help me, help me”, lo sguardo fisso nel vuoto. I suoi compagni di blocco chiedono di aiutarlo, spiegano che è sempre in questo stato.
Un mondo kafkiano
Mentre camminiamo nel blocco C, ci avvicina Q. È pachistano e non parla italiano, solo qualche parola d’inglese, timidamente ci tende i fogli del suo procedimento e mostra con insistenza la data dell’ultima proroga di trenta giorni, il 27 maggio 2016. È preoccupato perché oggi, 27 giugno, il termine è scaduto e dovrebbe essere rimesso in libertà. Ha ragione, facciamo più volte il conto anche noi, ma è ineccepibile. Chiediamo informazioni, il direttore telefona all’ufficio immigrazione. La risposta è che loro contano i giorni dal momento della notifica e quindi la data ultima è il 29 giugno. Lo riferiamo a Q. che accenna un sorriso, ma non sa quanto può fidarsi e non lo sappiamo nemmeno noi. I tempi di permanenza non dovrebbero superare i novanta giorni (prima la legge prevedeva diciotto mesi), ma in questo sistema di detenzione amministrativa, in cui non si celebra nessun processo ma si sconta di fatto una pena carceraria, ci si muove in un mondo kafkiano.
Qui tutti, sulla carta, hanno un avvocato, ricorrono spesso tre o quattro nomi, ma nessuno sembra sapere esattamente a cosa va incontro e pochi hanno fatto più di un colloquio con il proprio legale.
Nel dormitorio invaso dall’umidità ci ferma T., che arriva dal Bangladesh e ha ventiquattro anni. Ci racconta in inglese che ha lavorato per molto tempo in Italia come fruttivendolo di strada, con banchetti improvvisati, a Milano e ad Ascoli Piceno. Proprio ad Ascoli è stato fermato, perché non aveva documenti, e poi inviato prima al carcere di San Benedetto del Tronto, poi al Cie. È qui da maggio, ci dice di avere incontrato una sola volta il suo avvocato e non averlo più sentito, non sa cosa aspettarsi. Molti dei ragazzi “ristretti” si lamentano per la qualità del cibo, ci dicono che puzza e che ha un brutto sapore (i pasti sono forniti in vaschette di plastica con una copertura trasparente su cui c’è un’etichetta che indica le date di produzione e di scadenza). Qui, a differenza del carcere, è vietato cucinare, quindi si può mangiare solo il vitto fornito dalla struttura e comprare qualche merendina con il pocket money, la diaria di 1,5 o 2,5 euro al giorno (a seconda delle regioni) che i migranti hanno a disposizione da spendere.
Più di tutto i ragazzi accusano l’assenza di qualsiasi attività all’interno del campo e una condizione di isolamento e ozio forzato
Il caldo è ancora più insopportabile quando, terminata la visita al Cie, andiamo verso lo spazio dedicato ai richiedenti asilo del Cara. La maggior parte delle persone ospitate è in fila davanti alla mensa. Visitiamo alcuni dei prefabbricati dove sono sistemati i richiedenti asilo. A causa del sovraffollamento ci sono sei persone per ciascuna delle due piccole camere di ogni container, con un solo servizio igienico: bagno alla turca, lavandino e doccia.
Molti lamentano di essere trattati come animali, soprattutto per il vitto; mostrano con disgusto i pasti ricevuti. Sollevano l’involucro di una porzione di legumi ed effettivamente ha un cattivo odore. Denunciano anche di non avere acqua a sufficienza: una sola bottiglia d’acqua per l’intera giornata. Una situazione estremamente complessa, soprattutto di notte, quando viene chiusa l’acqua del campo per un problema dell’acquedotto.
Ma più di tutto i ragazzi denunciano l’assenza di qualsiasi attività all’interno del campo e una condizione d’isolamento e ozio forzato, senza televisione, computer o internet, e senza nemmeno poter cucinare. L’uscita dal Cara è consentita dalle 8 alle 20, ma non ci sono mezzi pubblici. Qualcuno si è procurato una bicicletta. In questa condizione di semidetenzione si può restare anche più di un anno, in attesa che sia esaminata la richiesta d’asilo.
Usciamo dopo quattro ore, l’auto un pezzo di ferro incandescente, mentre proviamo a mettere ordine nelle decine di pagine di appunti raccolti. Tra le storie di vite sospese in questa doppia prigione ritroviamo appuntata la frase dell’ospite albanese: “Fa male al cuore tutto questo”.
Correzione, 14 luglio 2016
Nella versione precedente di questo articolo era scritto che la cooperativa Auxilium gestisce anche il Cie di Ponte Galeria a Roma, mentre si tratta del Cara di Castelnuovo di Porto a Roma.
Dopo la pubblicazione dell’articolo abbiamo ricevuto una richiesta di rettifica da parte della cooperativa sociale Auxilium, che pubblichiamo qui.