Nell’universo classista delle ripetizioni private
“Ci sono dei professori che fanno ripetizioni a pagamento. Invece di rimuovere gli ostacoli, lavorano a aumentare le differenze. La mattina sono pagati da noi per fare scuola eguale a tutti. La sera prendono denaro dai più ricchi per fare scuola diversa ai signorini. A giugno, a spese nostre, siedono in tribunale e giudicano le differenze. Non è che il babbo di Gianni non sappia che esistono le ripetizioni. È che avete creato un’atmosfera per cui nessuno dice nulla. Sembrate galantuomini”.
Nel 1967 don Lorenzo Milani e i suoi ragazzi della scuola di Barbiana in Lettera a una professoressa raccontavano una scuola classista che discriminava i figli dei contadini (i Gianni) dai figli dei dottori (i Pierini); a distanza di cinquant’anni esatti l’accusa potrebbe essere identica e resterebbe ugualmente inascoltata.
Da insegnante di liceo mi capita spesso di partecipare ad assemblee sindacali e politiche, dibattiti e convegni, e ogni volta che pongo il problema delle ripetizioni è come se nominassi un tabù. La maggioranza dei colleghi che ho conosciuto dà ripetizioni; in alcuni casi si tratta di una sorta di doppio lavoro, in altri è diventato – in termini economici e di tempo – il lavoro principale. Eppure il tema delle ripetizioni private non ha interessato nessuna delle proteste che hanno accompagnato la legge Gelmini o quella sulla Buona scuola.
Di fronte a riforme che non hanno affrontato per nulla la questione della remunerazione dei docenti – il contratto nazionale è fermo da dieci anni – le ripetizioni sono per molti insegnanti, e per quelli precari ancora di più, una specie di salvagente economico e allo stesso tempo un limbo, una galassia gassosa. Metterle in discussione, ripensarle, sembra impossibile.
Cosa prevede la legge
Dal decreto legislativo numero 297 del 1994 all’interpello 40/2010 del ministero del lavoro, agli insegnanti viene chiesto di avvertire i dirigenti nel caso in cui decidano di dare ripetizioni (e quindi ottenere un salario aggiuntivo) e gli si chiede anche di non farle agli studenti del loro stesso istituto e di dichiarare al fisco le entrate. Ma tutto questo, ovviamente, non accade.
Anzi, l’idea condivisa è che le carenze del sistema scolastico non siano transitorie ma strutturali, e che le ripetizioni private non siano un’eccezione. Così, accanto agli istituti statali, è normale che esistano e si moltiplichino centri studi, insegnanti privati, siti dedicati.
Per chi vuole provare a fare l’insegnante dopo essersi laureato, tipo me quindici anni fa, è quasi obbligatorio passare da questa trafila, disseminare curriculum tra scuole paritarie e centri studi, attaccare foglietti davanti ai cancelli delle scuole pubbliche, chiedere agli amici di far partire un passaparola; e mentre ci si districa nel labirinto delle vie d’accesso a una cattedra nell’istruzione pubblica – scuole di specializzazione, tirocini formativi attivi, graduatorie a esaurimento, corsi regionali, chiamate dirette – si passano due, tre anni, se non cinque o dieci, a farsi le ossa dispensando corsi di recupero e ripetizioni.
I centri studi
L’alta richiesta di lezioni di recupero genera la crescita di un settore che si regge sul malfunzionamento del sistema scolastico. Ci sono centri studi che hanno finanziamenti dalle regioni per aiutare ragazze e ragazzi di scuole elementari, medie e superiori; ma ce ne sono altri che sono semplici “diplomifici” pronti a imbarcare tutti quelli che vogliono una promozione facile; e ci sono poi quelli dove si possono andare a prendere ripetizioni ogni tanto.
Studenti bocciati alle superiori possono frequentarne uno, facendo lezioni in minigruppi o seguendo corsi individuali, recuperare l’anno perso e tornare tra i banchi della scuola pubblica. Quanto può costare il recupero di un anno? Sui tre-quattromila euro; l’offerta di mercato è alta proprio dove il bene offerto dalla scuola pubblica è insufficiente. La nicchia non è così piccola, coordinatori e responsabili di molti centri studi sono consapevoli di questo vuoto e cercano di ricavarsi il loro spazio.
Ma quando gli chiedo di parlare del loro lavoro, non si vedono come persone che sfruttano economicamente un difetto del sistema; si considerano piuttosto una toppa che almeno in parte rimedia alle falle di una barca che altrimenti affonderebbe molto rapidamente.
Molti centri studi non forniscono una preparazione di qualità
“Abbiamo bisogno dei centri studi. I centri studi sono un sostegno alla scuola pubblica, usano un metodo anche migliore. Spesso anche gli insegnanti che arrivano dalla scuola pubblica e si propongono da noi non hanno le capacità che servono qui: quelle di lavorare in modo tempestivo sulle fragilità dei ragazzi”, mi dice Alfredo Giannini, insegnante e coordinatore del centro studi Minerva (circa cento iscritti all’anno a Roma). Giannini sostiene convinto che senza realtà come la sua molti studenti abbandonerebbero la scuola.
Il coordinatore di un altro centro studi del Lazio, che preferisce rimanere anonimo, è anche più netto: “Senza di noi la dispersione scolastica sarebbe alle stelle. I ragazzi che non riescono a integrarsi nella scuola pubblica, nel centro studi trovano un ambiente dove possono essere seguiti in maniera individuale”.
La segretaria e coordinatrice del centro studi Performance scuola di Napoli mi dice: “I ragazzi si lamentano perché le classi della scuola pubblica sono affollate, hanno troppi compiti da svolgere a casa. Gli studenti non riescono a tenere il passo con lo studio, gli insegnanti dedicano poco tempo all’aspetto umano. Chi resta indietro è spacciato, e le classi vengono decimate”.
Usano un tono autorevole, mi fanno discorsi ammantati di retorica pedagogica, sono consapevoli che c’è bisogno di loro. Ma i centri studi nella maggior parte dei casi non forniscono una preparazione di qualità, non richiedono un impegno costante ai ragazzi, sebbene assicurino quasi sempre la promozione. Riducono i programmi alle nozioni fondamentali o alla compilazione di una tesina per ottenere l’idoneità alla classe successiva, insomma assolvono solo a una parte della funzione educativa.
In un’intervista di qualche tempo fa, un insegnante di uno di questi centri analizzava diversi punti critici: “Gli studenti non sono realmente tenuti a studiare. Possono non presentarsi a lezione, non fare i compiti a casa, non studiare per le verifiche e non seguire la lezione. Non ci sarà nessuna conseguenza, nessuno li punirà. Hanno pagato per avere un servizio: non sono loro che devono rendere conto all’insegnante, è il contrario”.
Tutto questo è possibile perché questi centri sono ormai percepiti come una specie di ammortizzatore sociale – quasi l’unico, viste le poche alternative offerte dalla scuola pubblica – rispetto alla dispersione scolastica.
Una parentesi: la dispersione scolastica
Su quest’ultimo tema bisogna aprire una parentesi, perché aiuta a capire il terreno di coltura in cui affondano le radici i centri studi, le ripetizioni fatte da singoli insegnanti e i siti dedicati.
Non è mai al centro del dibattito pubblico, ma il più grande problema della scuola italiana è questo: nel 2016 la dispersione scolastica è ancora al 14,7 per cento, con picchi del 24 per cento in Sicilia o in Sardegna. La media europea è dell’11 per cento, l’obiettivo per il 2020 è del 10 per cento. Di fatto oggi in Europa stanno peggio dell’Italia solo la Spagna, il Portogallo, Malta e la Romania.
Se scorporiamo i dati troviamo che il tasso di abbandono di ragazze e ragazzi nelle scuole superiori è del 4,2 per cento all’anno; e ancora più drammatico, perché riguarda le scuole dell’obbligo, è lo 0,93 per cento delle scuole medie e lo 0,77 per cento che abbandona nel passaggio tra le medie e le superiori.
L’elefante nella stanza è enorme, ed è faticoso perfino spostarlo di qualche centimetro. Teniamoci la sua fotografia – utile ad avere sempre presente il quadro della situazione – e passiamo alla seconda tappa di questo viaggio nell’universo delle ripetizioni, ovvero le classiche lezioni private.
Lezioni private
Non è facile farsi un’idea di questo mercato in Italia. Il ministero dell’istruzione non è in grado di fornire dati precisi. L’indagine più recente, spesso citata come riferimento, è del 2016 e l’hanno svolta i ricercatori Lorenzo Castellani e Giacomo Bandini per la fondazione Einaudi su un campione di 983 famiglie.
Leggendola si possono fare delle valutazioni. Ci viene detto per esempio che la metà degli studenti delle scuole medie e superiori dichiara di avvalersi di ripetizioni private, che il giro d’affari è di 900 milioni di euro all’anno, e che il 90 per cento non è dichiarato al fisco.
Per molti professori le ripetizioni sono un modo per integrare lo stipendio. La busta paga di un insegnante di ruolo alle superiori ammonta a poco più di 1.400 euro netti. Con le lezioni private fatte in nero – secondo diverse testimonianze che ho raccolto – alcuni arrivano anche a tremila euro. Secondo Castellani “se si riuscisse a farle emergere, per esempio permettendo a chi le fa di aprire partite iva a regime agevolato, basterebbe tassarle al 5 per cento, e il fisco recupererebbe 40 milioni all’anno”. Non poco.
Cosa ne pensano gli studenti? Quelli delle superiori che ho intervistato mi dicono che praticamente tutti in classe prendono ripetizioni: “Senza quelle di matematica e inglese, avrei lasciato la scuola”, mi dice Carla (nome di fantasia), al quarto anno di un tecnico commerciale. “Prendo ripetizioni in tutte le materie da due anni, da quando ho cominciato il liceo”, mi dice Giulia, quinto ginnasio, “anche se mi rendo conto che è una spesa enorme per i miei. Quelle di matematica mi costano 25 euro all’ora, ma solo perché abbiamo deciso di comprare una specie di pacchetto di venti ore, altrimenti costano di più”.
Una madre con due figli iscritti alle superiori mi racconta un quadro abbastanza disarmante: “Quando hai un figlio che comincia la scuola superiore non pensi che avrà bisogno di ripetizioni. E invece è scontato. Per me era un’ipotesi di emergenza, ma ho visto che per tutti i compagni era la norma. Cominciavano a prenderle da settembre. Un ‘potenziamento vitaminico’, l’ha definito un’altra madre”. Un padre di due ragazze – una al primo anno del liceo di scienze umane, un’altra appena diplomata – parla di una condizione comune a molte famiglie: “Il costo delle ripetizioni fa parte del bilancio annuale, come quello per il cibo, i vestiti e le visite mediche”.
L’articolo 34 della costituzione fa propria una delle conquiste fondamentali della modernità – dai primi esperimenti nella Germania postluterana alle proposte politiche di Condorcet nei primi anni della rivoluzione francese – dichiarando che la scuola è aperta a tutti, è libera ed è gratuita. Nei fatti non sembra così, e i costi per le famiglie lo provano.
Un’indagine del 2015 dell’Unione nazionale consumatori (Unc) ha provato a fare una stima, ed è venuto fuori che il costo medio è di 25 euro a lezione, una cifra che può arrivare anche a 40 o 50 euro per una di greco. “Se i debiti formativi sono più di uno, oppure ci sono più figli che devono recuperare, la spesa diventa veramente impegnativa per una famiglia e, per alcune, decisamente insostenibile”, sostiene Massimiliano Dona, segretario dell’Unc.
Su internet
In un mercato sregolato e non monitorato, i prezzi salgono e scendono a seconda della variabilità dell’offerta. Per esempio, sono aumentati dopo la drastica diminuzione dei corsi di recupero offerti dalle scuole (il ministro Giuseppe Fioroni li aveva istituiti dieci anni fa, poi sono stati finanziati sempre meno). Mentre dopo l’apertura di siti come Skuola, Lezioniprivate, Trovaripetizioni, Superprof, Ripetizioni, Repeatit2 si sono leggermente abbassati. Osservare queste piattaforme da più vicino ci permette di compiere la terza tappa nel mondo delle ripetizioni.
Ogni settimana nasce una nuova startup, alcune durano il tempo di una stagione (come Reepeto e Tutorando, che avevano avuto una certa fortuna negli anni passati), ma sono sostituite subito da altre più funzionali, con app e geolocalizzazione. Fare incontrare domanda e offerta in questo modo è molto più semplice dei foglietti attaccati ai cancelli della scuola, mentre il passaparola può essere sostituito da un sistema di valutazione tramite giudizi e stelline.
Valeria Pesce, la responsabile di Lezioniprivate, mi spiega: “Gli utenti si registrano, confermano il loro indirizzo email e poi possono inserire annunci sia per l’offerta sia per la ricerca di lezioni private. C’è un filtro antispam e si scoraggiano gli annunci delle scuole. Gli annunci sono visibili a tutti, non è necessario registrarsi per contattare chi ha messo un annuncio. Dal momento del contatto in poi, la relazione è esclusivamente tra studenti e insegnanti”.
Praticamente nessuno di questi siti fa da tramite per i pagamenti, evitando così tutta la questione fiscale. Alcuni guadagnano con le pubblicità, altri ancora non fanno profitti.
Lezioniprivate ha al momento più di 20mila utenti attivi, ossia utenti che hanno inserito almeno un annuncio. Il sito deve sostenere pochissimi costi: dominio, hosting, manutenzione tecnica, servizio clienti. Finora non ha molti ricavi (i gestori cercano di non inserire pubblicità invadenti), e non ha ancora un modello d’impresa da cui trarre profitti, ma i fondatori sono consapevoli del valore commerciale della comunità che hanno creato.
Il fondatore di Trovaripetizioni è Alessio Loreti, un ragazzo di 22 anni, studente di ingegneria al politecnico di Milano: ha aperto il sito nell’ottobre del 2016, ma ha già le idee chiare sulla sua (presunta) funzione pedagogica. “Se tu insegnante ti comporti male, io ti metto zero stellette e ti faccio un commento duro, perché insegnare è questo, tu non puoi far male alle persone”, dice. Ha anche già capito come potrebbe guadagnare. “Ormai le mamme usano internet, sono poche quelle che vanno in cartoleria a strappare il numero di telefono dell’insegnante”, spiega, “così mi è venuta l’idea per il mio progetto. L’abbiamo promosso da ottobre 2016 e sembra piacere molto, in pochi mesi abbiamo già 730 iscritti”.
Dice di averci investito “qualche migliaio di euro per comprare vari domini e per pagare il ragazzo che ha fatto il sito”. E aggiunge: “Il servizio è gratuito per gli studenti, ma stiamo inserendo spazi a pagamento per i centri studi, che pagheranno anche per avere i contatti degli utenti. Questa non sarà l’unica entrata, metteremo un forum con psicologhe che scriveranno articoli sui problemi legati allo studio e lì ci saranno i banner pubblicitari”. Immancabile l’app: “A breve ce ne sarà una, con il telefono mi geolocalizzo e vedo intorno a me chi fa ripetizioni. E magari si può pensare anche a un sistema in cui quest’attività di tramite viene pagata, anche se non mi piacerebbe sfruttare gli insegnanti”.
C’è chi rivendica il modello di Airbnb, come Youclassme. E chi importa quello di Superprof, sito fondato in Francia nel 2013 da Wilfried Granier. Superprof è un’azienda con decine di dipendenti, presente in più di dieci paesi (tra cui gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Spagna), con una comunità mondiale di un milione e mezzo di insegnanti, ed è diventata una specie di multinazionale delle ripetizioni online. Nell’ottobre 2016 ha inglobato i siti spagnoli Donprofessor e Myprofeparticular, attraverso il quale si è affermata in Messico; e a gennaio di quest’anno l’italiano Corsiintreclick.
Il sito cambia da paese a paese: mentre in Francia si rifà al modello di Netflix o Spotify – ossia si paga un abbonamento fisso e si possono fare le lezioni desiderate – in Italia per adesso funziona solo come piattaforma che fa da tramite tra studente e docente.
Intervistati, gli insegnanti italiani di Superprof mi raccontano di essere tutti piuttosto soddisfatti: lavorano facilmente, trovano utenti, non gli dispiace essere valutati dagli studenti. “Lo trovo un ottimo canale per connettere insegnanti e studenti, ben strutturato. Ho avuto la possibilità di entrare in contatto con molti studenti ben disposti a imparare un’altra lingua”, dice un’insegnante che preferisce rimanere anonima.
I responsabili del sito possono commentare i giudizi scritti dai professori sulle lezioni e sul funzionamento della piattaforma, lasciando sul forum messaggi di questo tenore (maiuscole e refusi compresi):
Buongiorno Gianna, La ringrazio per aver preso il tempo di condividere la sua esperienza con Superprof, lasciandoci un bel commento sul sito Recensioni Verificate (…) Poiché il suo commento è molto positivo, mi permetto di contattarla per chiederle se fosse disponibile a modificare il suo voto da 4 a 5 stelle. Sarebbe per noi davvero importante, poiché, come potrà immaginare, tutte le recensioni online influiscono molto sull’andamento dell’attività (…) Ad ogni modo, la ringrazio per il suo tempo e le auguro un buon proseguimento di lezioni! Resto a sua disposizione per qualsiasi cosa. Cordiali saluti, Gloria di Superprof
Anna, una docente di italiano e storia, mi spiega come funziona il portale: “Un insegnante può iscriversi e può decidere se pagare nove euro al mese per avere una visibilità maggiore sul portale. Ma io per esempio non li ho pagati, e la prima volta sono stata contattata solo una settimana dopo l’iscrizione. L’alunno ti contatta tramite sms o email e dopo la lezione decide se darti delle stelline o lasciarti un commento. Ma puoi acquistare visibilità anche solo per il fatto che ricevi molti messaggi”.
Anna si fa pagare poco, anche meno di dieci euro all’ora; la concorrenza su internet è talmente alta che i prezzi devono essere per forza bassi, soprattutto all’inizio, e i docenti praticano più o meno consapevolmente una sorta di dumping: quando accedono al portale chiedono tariffe minime, in modo da avere più clienti possibile e quindi acquisire visibilità. Poi magari – una volta raggiunta una clientela fidelizzata – si assestano su prezzi leggermente più alti.
La crescita esponenziale di questo tipo di siti mostra come la richiesta di lezioni online sia in aumento. Quando chiedo a Lorenzo Castellani, uno dei due autori dello studio per la fondazione Einaudi, quali sono dal suo punto di vista le ragioni dietro numeri così alti, risponde che “anche se non ci sono studi comparati, questa pratica delle ripetizioni è nettamente più diffusa che in altri paesi, e tutto questo è probabilmente dovuto a una cattiva organizzazione della scuola”.
Una conclusione che somiglia a quella di Alfredo Giannini del centro studi Minerva: “Il motivo mi sembra abbastanza chiaro. La colpa è dei tagli alla scuola pubblica in questi ultimi dieci anni: le classi diventano sempre più affollate, e questo non permette agli insegnanti di seguire bene i loro studenti”.
Lo stigma della bocciatura
La ragione che porta così tanti studenti e genitori a sobbarcarsi la fatica e la spesa delle ripetizioni – in tutte le loro declinazioni – è semplice ed è legata al discorso che facevamo all’inizio sulla dispersione: la bocciatura in Italia è spesso l’anticamera dell’abbandono scolastico.
Non recuperare un anno o due può avere come conseguenza quella di entrare a far parte dell’ampia categoria di neet (not in education employment or training), cioè delle persone che non studiano, non lavorano e non seguono corsi di formazione. In Italia – secondo i dati Istat – rientra in questa categoria il 25,7 per cento dei giovani tra i 15 e i 29 anni, cieè 2,3 milioni di persone.
È evidente quindi che le lezioni private sono uno dei più grandi dispositivi di disuguaglianza in Italia. Com’è che scriveva don Milani? La mattina insegniamo a scuola in modo che tutti abbiano le stesse opportunità, il pomeriggio diamo ad alcuni (quelli con le famiglie che possono permetterselo) più opportunità degli altri.
Nel 2007, il ministro dell’istruzione Giuseppe Fioroni prendeva atto di una situazione critica: il 42 per cento degli studenti era promosso con debiti formativi e solo uno su quattro decideva di seguire corsi di recupero a scuola. Oggi le rilevazioni del ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca non sanno dirci quanti corsi di recupero sono attivati ogni anno, per quante ore, quanti insegnanti sono coinvolti; e questa mancanza di monitoraggio è grave.
La scuola non può tutto, è vero, fatica a compensare le disuguaglianze che esistono nella società italiana; ma è anche vero – ed è questo l’aspetto più critico – che alcune di queste disuguaglianze le crea proprio l’istruzione pubblica.
Sono disuguaglianze grazie alle quali il mondo descritto finora prolifera e su cui vale la pena soffermarsi per andare oltre il sintomo ed esaminare le ragioni della malattia.
Il tempo per i compiti a casa
Un primo elemento da tenere presente è il tempo che gli studenti italiani dedicano ai compiti a casa. Come si legge nel rapporto Pisa 2013, in media uno studente italiano studia a casa quasi nove ore alla settimana, invece delle due ore e mezzo di uno studente finlandese, le quattro ore e mezzo di un francese, e le poco più di quattro della media Ocse. Tra i paesi sviluppati l’Italia è quello dove si studia di più a casa dopo la Russia, che arriva a dieci ore di media alla settimana.
In Italia oggi c’è arbitrio totale su quanto lavoro vada svolto a casa e quanto in classe. Non è un tema nuovo. Già nelle circolari ministeriali degli anni sessanta si metteva in guardia dall’affidare allo studio a casa il maggior peso del lavoro scolastico.
Come sottolinea il rapporto Pisa, studiare molto a casa può amplificare il divario tra studenti con provenienze socioeconomiche differenti. Avere genitori capaci di seguire i figli nei compiti, avere degli spazi autonomi dove studiare, avere facilmente accesso a un computer e a internet, avere molti libri da consultare a casa, sono tutti fattori che possono essere discriminanti. Se il tempo passato a scuola è così poco rispetto al tempo globale dello studio, se nelle scuole pubbliche c’è così poca possibilità di avere a disposizione delle attività di recupero, allora il ricorso alle ripetizioni private sarà la conseguenza naturale di queste mancanze.
Una scelta cruciale
Non basta. Un altro fattore determinante che causa classismo e disuguaglianza, anche questo spesso trascurato, è la scelta delle scuole superiori, che ha conseguenze sulle opportunità sociali, professionali, culturali di ragazze e ragazzi. Giulia Cavaletto, ricercatrice a Torino, lo spiega molto bene in uno studio intitolato Questioni di classe:
Resta fortissima l’associazione tra percorsi formativi dei giovani e ambiente socio-culturale di provenienza: i differenziali tra i figli di genitori che possiedono al massimo la scuola dell’obbligo e i figli di genitori in possesso della laurea restano altissimi sia rispetto alla scelta della filiera, sia alla prosecuzione universitaria, sia al rischio di abbandono, sia infine rispetto alla possibilità di trovarsi in condizione di Neet.
Questa tabella, basata su dati Istat, è molto eloquente.
Fa male ripeterlo, ma la scuola crea disuguaglianze. La responsabilità diretta si esplica per esempio attraverso i consigli orientativi che gli insegnanti delle scuole medie forniscono ai genitori.
Quando si arriva al momento di scegliere tra il classico o un professionale, il docente si rivolge ai genitori con frasi del tipo: una scuola tecnica è più nelle sue corde; suo figlio è più portato per il liceo; quel ragazzo ha un’inclinazione per le materie pratiche; secondo me il liceo non fa per lei.
Diversi studi – quello di Cavaletto già citato, quello di Marco Romito condotto in una scuola di Milano, quello di Marco Pizzalis su diverse scuole della provincia di Cagliari – sono tutti concordi, e spietati, nel ricondurre al consiglio di orientamento una delle cause principali della permanenza di divari sociali, proprio perché l’introiezione del classismo è la premessa della scelta. È chiaro che una scelta sbagliata può favorire percorsi di studio più accidentati e quindi il ricorso alle ripetizioni private.
Le alternative possibili
Oggi la priorità della scuola non può che essere nella lotta alla dispersione scolastica, e gli investimenti sui corsi di recupero gratuiti sarebbero la risposta più efficace a fronte di una richiesta enorme.
Questa visione è ben chiara a chi lavora sul campo. Per esempio alle ragazze e ai ragazzi dell’Unione degli studenti, che qualche mese fa hanno lanciato il progetto di usare aule autogestite all’interno delle scuole per organizzare ripetizioni peer to peer, gratuite o a prezzi popolari (che non superino i cinque euro all’ora), per “fare fronte a un grave disagio materiale di milioni di studenti, e denunciare con forza l’inesistenza di un vero diritto di studio”.
Un’iniziativa strutturata è quella messa in piedi anche da organizzazioni filantropiche come quella della Deutsche bank, che qualche mese fa ha deciso di finanziare Portofranco, un centro milanese di aiuto allo studio, fondato dal sacerdote Giorgio Pontiggia nel 2000 e animato oggi da circa 350 volontari che svolgono 20mila ore di lezione all’anno per 1.700 studenti, di cui 500 stranieri. Un risparmio per le famiglie che Franco Valeri, il presidente della fondazione, calcola un po’ al rialzo in 500mila euro all’anno.
Per fortuna anche al ministero dell’istruzione forse c’è una tendenza a invertire la rotta. La nuova ministra Valeria Fedeli ha da poco varato quaranta milioni di stanziamenti per i progetti speciali sull’orientamento e sul contrasto alla dispersione scolastica, e da quando è stata eletta ha citato più volte il nome di Lorenzo Milani e la sua denuncia ormai cinquantenaria di una scuola che divideva i Gianni dai Pierini.
La nuova presidente dell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione (Invalsi), Anna Maria Ajello, ci tiene a sottolineare che nelle prossime rilevazioni sarà messo in evidenza il lavoro fatto dalle scuole che intervengono proprio per compensare questi divari. Ed è anche un buon segno che il docente che da anni si occupa di questi temi, Marco Rossi Doria, sia stato richiamato dal ministero come consulente sulla dispersione scolastica e le povertà educative.
Rossi Doria mi racconta che in almeno due casi l’Italia è efficacemente inclusiva, e cioè con gli alunni stranieri e con quelli disabili. Nel primo caso si è passati da poche migliaia a più di 850 mila, ed è innegabile che la scuola italiana sia il primo fattore d’integrazione, con un modello – riconosciuto dall’Ocse – migliore anche rispetto ad altri paesi d’Europa. Nel secondo, la spesa sociale, nonostante i tagli, continua a essere consistente: quattro miliardi di euro, che consentono a 210mila bambini e ragazze e ragazzi di seguire lezioni in classi normali e non in classi differenziali.
Bisogna intervenire sul resto, insiste Rossi Doria:
Faremo una cabina di regia, cercheremo di spendere meglio i soldi. C’è stato un rallentamento abbastanza grave nel precedente governo; sono stati disattenti, ora si sta cercando di rimediare. Perché il problema serio nell’intervenire sulle disuguaglianze scolastiche è che se noi sovrapponiamo la mappa della dispersione con la mappa delle povertà c’è purtroppo una fortissima corrispondenza.
Bisogna investire in infrastrutture pubbliche, dalle scuole professionali alle biblioteche. E poi bisogna far proprie e replicare (con gli aggiustamenti del caso) esperienze che in questi ultimi venticinque anni hanno avuto successo: da Provaci ancora Sam! a Torino a Chance a Napoli, al progetto durato tre anni delle scuole aperte di pomeriggio in alcune aree deboli della regione Puglia.
Come conclude Rossi Doria: “Noi sappiamo esattamente quello che si potrebbe fare, e forse abbiamo anche i fondi, ma spesso questi fondi sono utilizzati male, non per cattiva politica ma per sciattocrazia, che significa soprattutto non dare continuità a ciò che si è fatto bene, non monitorare i risultati, non imparare dagli errori del passato, o per l’incapacità di seguire il principio di una discriminazione positiva che è stata così importante per tutto il movimento di educazione democratica in Italia, da don Milani in poi: dare di più a chi parte con meno”.
Vedremo se non rimarranno solo buone intenzioni.
Si ringrazia il liceo scientifico statale John Fitzgerald Kennedy di Roma per la gentile collaborazione nella realizzazione del servizio fotografico.