Gli antifascisti di domani
Piove parecchio, è un inverno monotono e lunghissimo, quando un paio di mesi fa arrivo a Milano senza ombrello, invitato dal collettivo studentesco del liceo Parini per partecipare a un incontro sul tema neofascismo e antifascismo. Siamo ancora dentro la camera dell’eco della campagna elettorale, all’indomani dei fatti di Macerata, cioè dell’omicidio di Pamela Mastropietro e della tentata strage di Luca Traini.
Nell’aula magna si sono assiepate due-trecento persone, molte con il quaderno in mano, pronte a farmi delle domande. Le guardo, poggio su una sedia la giacca fradicia, provo ad anticiparle: qual è secondo voi la differenza tra populismo e fascismo? Quanti di voi conoscono bene la storia di Giacomo Matteotti? Chi mi parla di Gianfranco Fini e della svolta di Fiuggi? Poi leggo ad alta voce e scrivo alla lavagna la definizione che dà Emilio Gentile nel suo libro Fascismo. Storia e interpretazione:
Il fascismo è un fenomeno politico moderno, nazionalista e rivoluzionario, antiliberale e antimarxista, organizzato in un ‘partito milizia’, con una concezione totalitaria della politica e dello stato, con una ideologia a fondamento mitico, virilistica e antiedonistica, sacralizzata come religione laica, che afferma il primato assoluto della nazione, intesa come comunità organica etnicamente omogenea, gerarchicamente organizzata in uno stato corporativo, con una vocazione bellicosa alla politica di grandezza, di potenza e di conquista, mirante alla creazione di un nuovo ordine e di una nuova civiltà.
Che ne pensate? L’assemblea si accende, ragioniamo sulle sfumature, il rapporto tra violenza e politica, il maschilismo implicito del fascismo, la questione della memoria storica. Alla fine delle due ore, le ragazze del collettivo che l’hanno organizzato vengono da me: “Questo dibattito è un’eccezione. Qui quasi nessuno è interessato alla politica, ci siamo noi, qualche fascista, per fortuna pochi, la lista che ha vinto le elezioni d’istituto aveva come programma di cambiare il distributore automatico, e di comprare un biliardino”.
Il Parini è un liceo storico del centro di Milano. Nel 1966 sul giornale scolastico, La zanzara, uscì un’inchiesta intitolata “La posizione della donna nella società italiana”. L’episodio viene ricordato dagli storici come una delle micce da cui si è innescata la rivoluzione culturale del sessantotto. Il pezzo fu ripreso dai mezzi di comunicazione nazionali e internazionali: tra gli studenti stava nascendo un’onda che di lì a poco avrebbe raggiunto ogni spazio pubblico.
Oggi invece il Parini arriva sulle pagine dei giornali perché durante una gita scolastica è stata trovata dell’erba in una classe di quindicenni, o perché di notte alcuni laboratori sono stati devastati, con computer spaccati e disegni di celtiche sui muri. Gli studenti vengono descritti al massimo come scapestrati, indisciplinati, maleducati, imbelli.
Chiavi di lettura facili
La vulgata secondo cui le ragazze e i ragazzi di oggi sono disimpegnati, non sono attirati dalla politica, sembra la chiave di lettura più facile per descrivere una generazione. È la conclusione che hanno introiettato anche loro stessi – viene fuori quando ci parlo, prima e dopo le elezioni del 4 marzo. Nei fatti però, altrettanto spesso, proprio coloro che si autorappresentano così, mi fanno conoscere un altro tipo di storie che mettono in discussione platealmente questo ritratto.
Una è quella di Valeria Grassi, che ha 22 anni, è di Torino, e lunedì 19 marzo è stata arrestata – insieme ad altri quattro ragazzi, di cui tre poco più che maggiorenni – perché partecipava al corteo contro il comizio di CasaPound in città. Era il 22 febbraio e alla fine ci sono stati scontri con le forze dell’ordine. A casa sua sono stati trovati 800 adesivi con la scritta “Qui abita un antifascista” – realizzati dopo che a Pavia qualcuno dell’estrema destra ne aveva usati degli altri per indicare le case di militanti di sinistra.
Il fatto che Grassi avesse quegli adesivi a casa è diventata una prova per chi l’ha accusata di resistenza a pubblico ufficiale. Da più di un mese è costretta all’obbligo di firma tre volte alla settimana al commissariato di zona. Me lo ricorda lei stessa con un’alzata di spalle. Ha un tono sicuro e ironico, e idee molto chiare su un sacco di cose, a partire dal modo in cui i giornalisti, i politici e perfino i giudici provano a definire l’antifascismo in Italia oggi: “C’era bisogno di elezioni come queste, in cui la polarizzazione tra fascismo e antifascismo è stata molto strumentalizzata, per compiere operazioni di polizia del genere. La repressione è stata perfetta. Tieni conto che nelle premesse del giudice nell’ordinanza di arresto, c’è un passaggio in cui si dice che le organizzazioni neofasciste sono l’espressione fisiologica di una democrazia matura: ecco, questo è lo stato dell’arte”.
La cerco quest’ordinanza, ed effettivamente resto a bocca aperta, quando a un certo punto leggo:
L’obiettivo di impedire in ogni modo la libera manifestazione del pensiero avverso costituisce, invece, una forma di violenza politica che si pone alla stessa stregua del ‘fascismo storico’ da cui i manifestanti si professano, pure, così distanti.
L’antifascismo militante è da considerare un’imitazione del fascismo storico? Il giudice che ha arrestato Valeria Grassi e i suoi compagni avvalora una tesi che ormai circola da un po’, e cioè che esista un “fascismo degli antifascisti”, strumentalizzando la citazione di volta in volta attribuita a Pier Paolo Pasolini o a Ennio Flaiano.
Grassi ha invece le idee molto chiare su quello che è l’antifascismo oggi: “C’è chi usa l’antifascismo come pretesto, e chi pensa che significhi tornare a essere protagonisti in politica. Da un punto di vista generazionale, è molto evidente nei nuovi movimenti femministi, nell’antirazzismo, nel ritrovarsi con il proprio corpo in piazza, magari per la prima volta. Quella diventa la tua educazione politica, quello è antifascismo”.
L’antifascismo necessario
Anna la vedo spesso prima di conoscerla. Quattro, cinque volte nell’ultimo anno, durante alcune manifestazioni. La noto perché è sempre in prima fila nei cortei: quello per il diritto alla casa, quello di Non una di meno, quello contro l’alternanza scuola-lavoro. La chiamo per un’intervista poco dopo le elezioni: “È stata la prima volta che ho votato, e non c’era nessuna lista che mi convincesse fino in fondo, alla fine ho votato Potere al popolo”.
Sta preparando la commemorazione per le Fosse Ardeatine: “Per toccare con mano la storia della resistenza, nonostante le istituzioni siano spesso assenti”. Ha 18 anni, è di Roma, fa parte di un collettivo studentesco e del coordinamento dei collettivi di Roma, e racchiude il senso di una militanza molto ampia proprio nell’antifascismo: “Per me l’antifascismo è sempre qualcosa di necessario, il che vuol dire stare in piazza o lì dove c’è bisogno, ed eliminare ogni atteggiamento paternalistico, spazzando via ogni dibattito su come rifondare la sinistra, su come rivedere il rapporto con la storia. La domanda che mi faccio non è tanto cos’è essere antifascisti, ma cosa fa l’antifascismo. E cerco di metterlo in pratica ogni giorno. Per me non si può prescindere da modelli di società utopiche, ispirate dalle comunità zapatiste o dal federalismo democratico di Öcalan”.
Sembra remotissima, ma l’esperienza dell’Unità di protezione del popolo (Ypg) – soprattutto delle loro combattenti in Kurdistan – è un orizzonte comune. Come una specie di patria d’elezione tiene insieme i militanti di Roma, quelli di Milano, quelli di Torino.
L’idea di partire e andare a rischiare la vita in Siria contro il gruppo Stato islamico o contro le truppe di Recep Tayyip Erdoğan ricorda i volontari europei nella guerra civile spagnola, soprattutto gli anarchici del Partito operaio di unificazione marxista (Poum), stretti a un certo punto nella battaglia tra fascisti e stalinisti.
Esperienza generazionale
Ho provato a mettermi in contatto con Maria Edgarda Marcucci ossia Eddi – 26 anni, torinese, partita nel settembre 2017 per la Siria – nei giorni della battaglia di Afrin, ma era ovviamente impossibile, e lei stessa, ho scoperto attraverso la madre, mi ha detto che non vuole parlare di quello che succede lì finché non tornerà.
Ma anche solo guardando il suo video, in cui spiega le ragioni della sua scelta, viene da pensare alle prime pagine di Omaggio alla Catalogna (1938) di George Orwell.
La sua esperienza, nonostante sia così estrema e unica, è indiscutibilmente generazionale, e questo elemento è rivendicato da molti. Che ci faccio qui, in quest’Italia dove è difficile immaginare un futuro politico o sociale?, sembrano chiedersi alcune ragazze e ragazzi. Per alcuni di loro andare a combattere in Kurdistan non è così paradossale. Qualche giorno prima avevo letto il romanzo-reportage di Davide Grasso, Hevalen (2017). Anche lui è andato in Siria, e ha affiancato l’Ypg per otto mesi. Poi è ritornato in Italia. Un brano all’inizio del libro racconta la sua vocazione. Il momento in cui ha deciso di arruolarsi ha coinciso con i momenti successivi all’attentato del Bataclan a Parigi, contraddistinti dallo sconforto per le risposte delle istituzioni e il rifiuto di quelle della politica:
Con Valeria Solesin, e con le altre vittime, avevo stabilito in segreto un canale personale. I giovani europei avevano pagato. Noi, la generazione Erasmus, precaria e in viaggio, emigrante e fuori sede. Eravamo stati scelti come bersaglio dai guerrieri di Allah perché espressione di un modo di vivere inaccettabile. Dopo pochi giorni il Bataclan avrebbe riaperto, nel primo anniversario della strage. Non ci sarei stato. Stavo tornando in Italia, per abbracciare la mia famiglia incredula. Il fasto dell’imminente cerimonia di Stato, in ogni caso, non mi interessava. La violenza era necessaria; ma ero partito per non delegarla a quegli squali in giacca e cravatta, ai loro intrighi e ai loro segreti, che infiniti Bataclan avevano distrutto nel resto del mondo.
La violenza necessaria. Quando leggo queste parole penso al rapporto tra violenza e antifascismo, una questione complicata. Su questo tema lo storico Claudio Pavone ha scritto pagine importanti. Il suo libro Una guerra civile (1991) è una bussola per chi vuole capire la differenza fondamentale tra la violenza utile – necessaria contro il regime – e violenza fascista – nutrita di machismo, di fatalismo, di autoritarismo, di sadismo.
Una brutta aria nella storiografia
“Sulla differenza tra le due violenze, quello che scrive Pavone è ancora un punto fermo”, ribadisce lo storico Carlo Greppi. Lo incontro a Roma a metà marzo, ci ripariamo dalla pioggia sotto i portici dell’Auditorium di Renzo Piano, dove ha appena presentato il suo nuovo libro. 25 aprile 1945 racconta la storia di tre padri della repubblica, Raffaele Cadorna, Ferruccio Parri e Luigi Longo – uno monarchico, uno azionista, uno comunista.
Greppi spiega che per uno studioso oggi occuparsi di quello che è successo in Italia tra il 1943 e il 1945 vuol dire essere dentro il dibattito politico – l’intervista con Giampaolo Pansa di Aldo Cazzullo in cui Pansa sostiene che “la storia della resistenza come la conosciamo è quasi del tutto falsa, e va riscritta da cima a fondo” è uscita solo pochi giorni prima.
Lo storico dice che “tira una brutta aria nella storiografia. La stessa categoria dell’antifascismo, quanto più ce ne sarebbe bisogno, tanto più viene messa in discussione”. E aggiunge: “Siamo nella fase dell’anti-antifascismo, una posizione ormai condivisa. Pensa a tutti gli storici che dicono che qualsiasi cosa sia successa dopo il 1945, non si può parlare di fascismo perché il fascismo è finito con la guerra”.
Per Greppi, questa interpretazione non tiene conto del fatto che “il fascismo – neofascismo, postfascismo – è tornato. Non è che sia stato sottovalutato un problema, è stato proprio negato”.
Quello che è successo, dice Greppi, viene visto da molti come una specie di partita di calcio. “Ma non è vero che la lotta di liberazione è stata una guerra tra ‘neri’ e ‘rossi’: nella resistenza coesisteva un numero impressionante di anime. E soprattutto, per quanto riguarda i valori, parliamo di due universi che non possono coesistere, e si combattono. Un conto è ammettere la complessità e le contraddizioni nell’esperienza dei partigiani; un conto è ridurre tutto a un minestrone in cui tutto si somiglia e in cui una posizione vale l’altra: così si fa il gioco dei fascisti. È triste da dire, ma in Italia scagliarsi contro una presunta egemonia culturale, dare voce ai complottisti e ai fascisti, rende. Fare ‘controstoria’ è diventato un business”.
Da Macerata a Roma
Il 10 febbraio sono a Macerata per la manifestazione antifascista organizzata dopo l’attentato di Traini, insieme ad altre trentamila persone. Pioviggina, e fa talmente freddo che il corteo invece di sfilare sembra correre, circumnavigando le mura della città vecchia e le antiche porte che sono state chiuse con le camionette della polizia. Negozi, bar, saracinesche: tutto è chiuso.
Camminiamo in una città fantasma a cui il sindaco, in modo insensato, ha imposto un giorno di coprifuoco. Nonostante l’Associazione ricreativa culturale italiana (Arci), l’Associazione nazionale partigiani italiani (Anpi) e Libera non abbiano aderito, sono tante le loro sezioni che hanno scelto di partecipare; ed è pieno soprattutto di ragazzi di vent’anni o meno, e in tanti scendono in piazza per la prima volta.
La manifestazione è stata convocata dal centro sociale Sisma di Macerata e da altre associazioni. Il collettivo Antifa Macerata, che ha aderito alla manifestazione, qualche giorno dopo prova a ragionare su quello che è successo in un documento intitolato Si riparte da Macerata! Ma per andare dove?.
Le accuse sono molto pesanti. Alcune criticano Minniti, “a parole antifascista, non solo ha lasciato spazio alle organizzazioni neo-fasciste (…) ma le ha protette dai cortei antifascisti con manganelli, cannoni d’acqua e lacrimogeni”. Altre i sindacati, che hanno “attivamente partecipato allo smantellamento dei diritti del lavoro, alla precarizzazione delle nostre vite, all’allungamento dell’età pensionabile e alla limitazione sistematica del diritto di sciopero”. Altre ancora l’associazionismo e il suo “approccio assistenzialista portato avanti dalle proprie organizzazioni, fatto di appalti milionari e programmi che infantilizzano i migranti, alimentano il conflitto tra poveri e generano profitti attraverso la creazione di forme di dipendenza impedendo ogni possibilità di emancipazione e autodeterminazione”.
Anpi, Arci, Cgil e altre venti associazioni e partiti convocano una manifestazione antifascista due settimane dopo quella di Macerata, il 24 febbraio. Il tentativo è stato quello di provare a riavvicinare le due anime, ma il rischio è stato di averne evidenziato le differenze, anche generazionali. Di fronte all’attore Giulio Scarpati che introduce sul palco i vecchi partigiani, i manifestanti non riempiono metà di piazza del Popolo, a Roma. L’età media è sessant’anni. E se la lettura delle lettere dei condannati a morte della resistenza tocca sempre il cuore, il resto appare come una sfilata dovuta, in cui perfino gli appelli di Scarpati – “Guai a far naufragare la resistenza nel rituale” – sembrano un’excusatio non petita.
Poco dopo, il sociologo Federico Bonadonna mi dice: “Nessuno ha parlato di politiche reali di accoglienza, reddito, casa, lavoro, scuola. Il fascismo è il nemico ideale: consente di non mettere in discussione le drammatiche politiche antisociali che hanno portato il 12 per cento degli italiani in condizioni di povertà estrema e i giovani disoccupati al 20 per cento”.
Da Palermo a Milano: l’impegno quotidiano
Il giorno stesso a Palermo la manifestazione è piena di studenti. Sfilano esibendo in modo situazionista dei rotoli di scotch – qualche giorno prima il dirigente provinciale di Forza nuova Massimo Ursino è stato aggredito e legato con del nastro adesivo. Giorgio Martinico, del centro sociale Anomalia, mi spiega che il gesto situazionista è una risposta alle provocazioni dei neofascisti: “Palermo fino a quindici anni fa era una città dove la presenza fascista era forte. Ci abbiamo messo tanto a combatterla. Abbiamo organizzato presidi e abbiamo negato ‘agibilità politica’ ai fascisti. Oggi a Palermo non c’è nessuna recrudescenza fascista. In campagna elettorale, gli esponenti di Forza nuova come Massimo Ursino hanno provato a cercare consenso, facendo le ronde nei quartieri popolari. Lo scotch è un modo per esprimere una posizione: basta piangersi addosso e denunciare, serve un antifascismo militante”.
Gaia Benzi, 27 anni, ricercatrice di italianistica e attivista della palestra popolare Scup a Roma, ha provato a capire come si può andare oltre le reazioni estemporanee per riempire di senso questo antifascismo militante. In Costruire l’antifascismo oltre l’emergenza scrive:
Le iniziative antifasciste all’apparenza più lodevoli e, diciamo così, ‘d’impatto’, se prive di un radicamento territoriale rischiano di essere percepite come ‘guerra tra bande’. E la contrapposizione sul piano chiamiamolo militare – di forza bruta, fatta di azioni che si concentrano principalmente sui partitini dichiaratamente fascisti, che vanno braccati e ostacolati e sfidati pubblicamente – risulta spesso incomprensibile nelle pratiche a una maggioranza silenziosa non fascista che pure potrebbe e dovrebbe essere inclusa nel discorso. Un antifascismo dal retrogusto machista, che rischia di essere indistinguibile a un occhio esterno. (…) Mi sembra che oggi ci sia bisogno soprattutto di potenziare quei ragionamenti e quelle pratiche che si concentrano nell’attaccare il retroterra che gonfia le vele delle destre: ragionare, cioè, su come levare ai fascisti il terreno sotto i piedi.
Essere antifascisti in un paese in cui il disimpegno e l’antipolitica sono sempre più diffusi e creano un terreno fertile per il neofascismo, non è semplice. “Siamo i figli di una generazione di cinquantenni che passa il proprio tempo a insultarsi su Facebook”, mi aveva detto uno studente di sedici anni alla manifestazione di Non una di meno a Roma l’8 marzo. “Il fascismo è l’espressione di un vuoto culturale”, dice Carlo Scarponi, giovane militante di Antifa Macerata, citando Cultura di destra di Furio Jesi. Quando gli chiedo quali sono i suoi libri di riferimento, mi risponde elencando testi spesso citati anche dalle ragazze e dai ragazzi che ho incontrato in questi mesi: dall’intersezionalità delle lotte di Angela Davis alla resistenza climatica di Naomi Klein. Femminismo, postcolonialismo e molto marxismo: dopo anni di antiintellettualismo – anche a sinistra – tante e tanti guardano ad autrici e autori radicali per costruirsi una biblioteca politica.
A Milano l’antifascismo è un impegno quotidiano. Il gesto del sindaco Beppe Sala – che il 18 marzo ha portato dei fiori sulla targa che ricorda Fausto e Iaio, uccisi quarant’anni fa da militanti neofascisti dei Nuclei armati rivoluzionari – sarebbe difficilmente replicabile in altre città.
In via Monte Rosa incontro uno degli attivisti storici dello spazio sociale Cantiere, Leon Blanchaert. Blanchaert riassume in poche parole il cuore delle battaglie di ragazze e ragazzi di oggi: “Gli studenti sono riusciti a ritrovarsi intorno a due mobilitazioni, gli Studenti meticci e Non una di meno, quindi intorno all’antirazzismo e all’antisessimo. Ce l’hanno fatta meno su temi loro, come l’alternanza scuola-lavoro”.
È quello che mi conferma L.M., 26 anni, attivista del Cantiere da quando era un ragazzino: “La riconquista di spazi di libertà e diritti per tutti – per neri gialli verdi blu, etero lesbiche gay trans – è il modo in cui le giovani generazioni vengono a contatto con l’antifascismo”. Ma aggiunge anche un’altra considerazione: “Certo se tutti i giorni sei bombardato dalla televisione che parla di invasione o dalla balla dei 35 euro al giorno per gli immigrati, non è difficile capire come si forma una cultura razzista. Per fortuna Milano è una metropoli, in cui se escludi le cinque-sei scuole del centro, hai studenti di tutto il mondo: cinesi, arabi, indiani, e lì è difficile che attecchisca un’idea per cui c’è chi vale di più e chi di meno”.
Sono passate due settimane dalle elezioni, e Salvini sembra riuscito a riportare l’estremismo di destra al centro della scena – a Milano, per esempio, strizzando l’occhio a movimenti neofascisti come Lealtà e azione. La sua vittoria, mi dice Blanchaert, va inquadrata in un quadro più complesso: “Esiste una questione che riguarda il suffragio universale e che politicamente nessuno affronta – anche se in parte è stato fatto con le manifestazioni per lo ius soli”.
Per spiegarla, Blanchaert invita a tenere presente alcune cifre: “Quasi il 12 per cento delle persone che vivono in Lombardia è straniero. Molti sono residenti qui da tanto tempo, ma non hanno diritto di voto”. E analizza le conseguenze di questo diritto negato: “Bisogna anche considerare che l’esclusione dei cittadini stranieri dal voto genera numerosi effetti sul dibattito pubblico. Per esempio i partiti non si devono preoccupare di urtare le sensibilità di chi non vota. A Milano, dove vivono 1,3 milioni di persone, hanno votato Lega e Fratelli d’Italia circa 130mila elettrici ed elettori su un milione: quindi, poco più del 10 per cento”.
Nuovi modelli di impegno
A Napoli la situazione dell’antifascismo si concretizza in altre storie ancora. La retorica nazionalista è presente nelle scuole, anche se in classe ci sono ragazze e ragazzi di tutto il mondo. Errico F., 17 anni, studente del liceo scientifico Vincenzo Cuoco e militante del Coordinamento Kaos, mi racconta le conferenze sull’antirazzismo che sono state organizzate nell’ultimo anno parallelamente alle partite dell’Afro Napoli – la squadra di calcio composta quasi per intero da ragazzi senegalesi, nigerini, tunisini, capoverdiani che abitano tra il rione Sanità e piazza Garibaldi – che oggi gioca nel campionato di Promozione.
L’esempio che cita Errico lo ritrovo in decine di altre esperienze che mi vengono raccontate nelle manifestazioni, nei cortei, nei centri sociali, nelle reti antifasciste durante questo ultimo anno: “Devi assolutamente sentire x, ti do il numero di y, c’è il compagno z a Genova che, devi conoscere quello che fanno a Padova, a Catania, a Bologna…”. Tutti mi raccontano di squadre di calcio formate da ragazzi italiani e stranieri, di palestre popolari, di occupazioni abitative. La militanza nasce e si sviluppa in questi contesti in modo imprevisto.
È questo il modello che si è imposto dopo la crisi dei centri sociali, sgomberati o diventati – negli anni duemila – luoghi nostalgici, in cui spesso non c’è stato un ricambio generazionale tra i militanti. Alcuni, poi, sono stati trasformati in trattorie, pub, discoteche…
Giulio Bartolini, responsabile della palestra popolare Valerio Verbano a Roma e uno dei fondatori del Coordinamento nazionale sport popolare (Conasp) me lo spiega bene. Chiacchieriamo davanti ai grandi murales che raffigurano Valerio Verbano, giovane attivista di sinistra ucciso nel 1980, e Carlo Giorgini, militante e maestro di karate morto qualche anno fa di malattia: “La palestra non può essere né una nicchia né un contenitore di indottrinamento, ma un luogo a cui le persone possono accedere senza distinzioni, soprattutto economiche. Fare sport oggi è un lusso: le palestre normali ti chiedono cento euro al mese. Noi accogliamo. O meglio, spesso andiamo a prendere quei ragazzini che stanno sul muretto a pippare cocaina alle quattro del pomeriggio e li portiamo dentro. Vengono da famiglie complicate, spesso i genitori sono analfabeti. Che faccio? Mi metto a spiegargli Karl Marx? Il passaggio dalla pratica sportiva all’educazione ai valori o all’attivismo viene da sé, frequentando gli altri iscritti. C’era un ragazzino che faceva boxe che pensava che Valerio Verbano ero io, che m’ero intestato la palestra a nome mio. Gli ho spiegato tutta la storia di Valerio, e quest’anno la sorella in terza media c’ha scritto la tesina. Ci si sono ritrovati, è la loro storia”.
La suggestione del radicalismo di destra cresce quanto più diminuisce l’idea di fratellanza, prossimità, giustizia, ossia l’idea democratica
Un altro ragazzo, Giulio B., 28 anni, ha messo per la prima volta piede nella palestra a 18 anni e non se n’è più andato. Oggi fa l’educatore e mi racconta che “il passaggio di consegne tra generazioni è difficile”. Spiega che “è difficile trasmettere la memoria delle lotte della città e del quartiere, dalla resistenza alle lotte recenti, come quella per la casa” e aggiunge che “la scuola non ci aiuta”.
Del difficile rapporto tra generazioni – una questione cruciale – mi aveva parlato anche Carlo Greppi, che dall’inizio degli anni duemila organizza i viaggi della memoria: “All’inizio eravamo poco più grandi dei ragazzi che accompagnavamo, adesso potremmo essere i loro genitori. Un’esperienza importante, duemila ragazzi all’anno che con la nostra associazione Deina accompagniamo in vari lager nazisti in Europa. È questo, credo, essere antifascisti: mostrare le terrificanti conseguenze di un’ideologia che nel novecento ha messo a ferro e fuoco il mondo. Li portiamo su quelli che David Bidussa ha definito come ‘i luoghi del futuro che non vogliamo avere’”.
Il ruolo della scuola
Dunque, la scuola. La scuola che “non ci aiuta”, nelle parole di Giulio B., e quella che organizza i viaggi della memoria citati da Greppi. È di un anno fa il rinnovo del protocollo d’intesa siglato dall’Anpi e dal ministero dell’istruzione per “divulgare i valori espressi dalla costituzione repubblicana e gli ideali di democrazia, libertà, solidarietà e pluralismo culturale”. Perché è chiaro, come dice Gianfranco Pagliarulo, vicepresidente dell’Anpi, che “la suggestione del radicalismo di destra cresce quanto più diminuisce l’idea di fratellanza, prossimità, giustizia, ossia l’idea democratica”.
Tuttavia, durante l’incontro che l’associazione dei partigiani ha organizzato un paio di mesi fa – attraverso la rivista Patria indipendente – tra storici dai cinquant’anni in su e ragazze e ragazzi di vent’anni di varie organizzazioni, è venuto fuori un confronto che in parte critica l’approccio dell’Anpi.
Martina Carpani, 21 anni, coordinatrice nazionale di Rete della conoscenza, replica alla visione di Pagliarulo, che le sembra paternalista, insistendo sulla questione generazionale e dicendo che non si può non tenere conto di una disoccupazione giovanile al 33 per cento: “L’idea della politica come progetto, come trasformazione radicale, è andata sempre di più scomparendo, fino a morire, e questa scomparsa secondo me è stata alla base della frattura tra le istituzioni, i partiti, e le generazione più giovani. Non c’è la volontà di gestire i processi di trasformazione. I famosi braccialetti di Amazon sono reali, la precarietà è reale, ma mentre per noi è al centro di ogni discussione, non lo è nei discorsi delle generazioni più vecchie. Io ho l’impressione che la politica difenda se stessa e voglia ritornare a orizzonti precedenti alla crisi. Come se si potesse tornare indietro”.
Jacopo Buffolo della Rete degli studenti medi aggiunge: “A scuola non si studia cos’è successo dopo la seconda guerra mondiale, non sai cosa sono gli anni di piombo, né cos’è il neofascismo. E non è solo un problema di programmi, ma anche di come vengono messi in pratica. Esci dalle scuole superiori, finalmente puoi votare, ma non hai un’idea precisa. Il fascismo è l’ultimo modello di stato che ti viene comunicato a scuola. Non si arriva quasi mai ad affrontare la repubblica, e i processi politici da cui è nata e che la governano. Questo è un tema fondamentale, sul quale bisogna andare ad agire”.
Come mi aveva fatto notare Davide Grasso, il ragazzo che è partito per andare a combattere con l’Ypg, sono cambiate molte cose nel passaggio tra il novecento e gli anni duemila: “Oggi chi lotta contro il fascismo è completamente diverso rispetto a chi lo faceva quindici anni fa, perché allora la cultura antifascista non veniva messa in discussione. Oggi per molti il fascismo è solo un’ideologia tra le tante, e non vedono l’antifascismo come qualcosa di giusto”.
Mentre ci avviciniamo al 25 aprile, la questione ritorna in tutta la sua complessità: che ne facciamo dell’antifascismo? La sua crisi conclamata, analizzata nel 2004 da Sergio Luzzatto nel saggio intitolato proprio La crisi dell’antifascismo, cos’ha prodotto? Lacerazioni interne? Una nuova richiesta di radicalismo?
Ne parlo con lo storico David Bidussa. Avevo letto anni fa il suo Dopo l’ultimo testimone (2009), dove rifletteva su come tramandare la memoria dell’olocausto o della resistenza dopo la morte dei testimoni diretti. Mi aveva fatto cambiare prospettiva allora e oggi ci riesce di nuovo: “L’antifascismo è diventato qualcosa di archeologico. Ma oggi, per capire cosa sia, bisognerebbe vederlo come un’analisi critica delle ideologie autoritarie. Se lo consideri come l’espressione di una determinata epoca storica, allora implicitamente decidi che ha vinto Croce che pensava che il fascismo fosse una parentesi. L’antifascismo è un insieme di valori, idee, domande che riguardano i rapporti tra le persone, tra cittadini e potere, tra forze politiche. Domande, idee, valori che dovrebbero essere sul piatto della politica anche oggi. Per esempio, in questi anni si parla molto del fatto che le nuove generazioni hanno paura di non avere un futuro. Come reagiamo a questo? Chi si dichiara fascista giudica fallimentari le ricette usate finora e si rifà a un passato nostalgico, idealizzato, qualcosa che assomiglia a un sogno infranto. Mentre chi si dichiara antifascista prende quello che c’è di buono nelle esperienze passate e lo usa per affrontare le sfide del presente. Le risposte a queste sfide non sono la chiusura, la nostalgia, il nazionalismo, ma l’inclusione, la non discriminazione, la capacità di pensare al domani con una visione di crescita condivisa e governata”.
Le foto di questo reportage sono state realizzate grazie alla gentile collaborazione della palestra popolare Valerio Verbano di Roma.
Correzione, 23 aprile 2018 ore 18
Il centro sociale che ha indetto la manifestazione a Macerata il 10 marzo 2018 si chiama Sisma e non Sisma32, come precedentemente scritto. Alla manifestazione ha aderito anche il collettivo Antifa Macerata: è quest’ultimo, e non il centro sociale Sisma, l’autore del documento “Si riparte da Macerata, ma per andare dove?”. Carlo Scarponi non fa parte del collettivo del Sisma, ma dell’Antifa Macerata.