Nell’ex città operaia dove hanno ucciso Willy Monteiro Duarte
Largo Oberdan è la piazza dove nella notte fra il 5 e il 6 settembre 2020 è stato ucciso a calci e pugni Willy Monteiro Duarte. È poco più di un incrocio al centro di Colleferro, la cittadina a metà strada fra Paliano (il paese di Monteiro Duarte) e Artena (il paese da cui venivano i suoi presunti massacratori, i fratelli Bianchi e i loro amici). Accanto all’aiuola dove le persone hanno lasciato fiori, pensieri, ritratti, foto, maglie della Roma firmate “per Willy”, c’è un pannello che il sindaco Pierluigi Sanna ha fatto mettere un paio d’anni fa. Mostra la struttura della “città morandiana”, ossia il progetto urbanistico che Riccardo Morandi (il progettista del ponte di Genova) venne chiamato a realizzare a Colleferro nel 1932 dall’ingegnere e imprenditore Leopoldo Parodi Delfino e dall’ingegnere Michele Oddini su commissione dell’industria di esplosivi Società Bombrini Parodi Delfino (Bpd): si vedono le case per gli operai, la chiesa, il municipio, la casa del fascio, il mercato coperto, il cinema-teatro, l’orfanotrofio, il commissariato, l’istituto professionale, le case popolari, quelle per gli impiegati, le residenze per i dirigenti…
Della pianta razionalista degli anni trenta sono rimasti moltissimi elementi, tranne il principale: l’industria. Colleferro ha ospitato una grande fabbrica dello zucchero, una di esplosivi (la Bpd, chiusa), una chimica (la Snia, chiusa), una per la lavorazione del cemento (la Italcementi, molto ridimensionata), una che si occupa di difesa (la Simmel) e una aerospaziale (la Avio). Anche la Alstom e la Caffaro non hanno retto e hanno chiuso. Gli abitanti dopo ventisei anni si sono finalmente liberati di una discarica enorme e dell’inceneritore, ma scontano ancora l’eredità pesantissima dell’inquinamento causato dallo sversamento degli scarti della lavorazione chimica.
A nemmeno cento metri da largo Oberdan c’è la grande chiesa dedicata a santa Barbara, patrona della città e protettrice di artificieri e armaioli. Accanto al dipinto che la ritrae, dietro all’altare principale, c’è un quadro in cui è raffigurata la sagoma di una fabbrica. Per quasi un secolo le persone si sono inginocchiate davanti a entrambe, la santa patrona e la divinità di ferro. Nel 1966 venne in visita papa Paolo VI – a braccetto con Giulio Andreotti – e battezzò Colleferro “la città operaia”.
Willy Monteiro Duarte non era un operaio, così come non lo sono i suoi massacratori. Il ragazzo con origini capoverdiane aveva studiato all’istituto alberghiero di Fiuggi e lavorava con un contratto di apprendistato all’hotel Degli amici, a metà strada tra Colleferro e Artena. Marco e Gabriele Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, accusati del suo omicidio, avevano invece quasi tutti interrotto le scuole e, pare, si arrangiassero “diversificando”: una bancarella da fruttivendolo, una truffa sul reddito di cittadinanza, una mano agli spacciatori per recuperare i soldi che gli dovevano i clienti.
All’hotel Degli amici
Il proprietario dell’hotel Degli amici, Roberto D’Amici, è ancora sconvolto. Sulle pareti della hall e degli uffici sono attaccate copie della foto diventata iconica di Monteiro Duarte. Il volto sorridente, la camicia a quadri abbottonata, l’aria da ragazzino. Anche il grande cancello scorrevole è interamente coperto da uno striscione che lo ricorda.
“Com’era Willy a lavoro?”, chiediamo.
“Era bravissimo, non come tanti a cui oggi non va di lavorare. Arrivava sempre un quarto d’ora prima. Se non sapeva fare una cosa si metteva lì e provava, chiedeva. Negli ultimi tempi si era fissato che doveva imparare a fare i dolci e si esercitava nelle decorazioni”.
“Aveva un contratto di apprendistato, lo avreste tenuto anche dopo?”.
“Certo, gli avrei fatto un contratto a tempo indeterminato per tenermelo”.
L’alternativa molto probabilmente sarebbe stata andare a fare il cuoco a Roma o all’estero. Il pendolarismo e l’emigrazione sono spesso le due uniche carte tra cui scegliere per chi finisce le scuole da queste parti. D’Amici parla solo bene di Monteiro Duarte, e quando saluta gli scappa una frase che spiega più di mille ragioni il tempo che attraversiamo: “Prima c’era il lavoro sociale, ora c’è il lavoro asociale”.
Cosa resta della cultura del lavoro
La storia di Colleferro non è solo la storia delle fabbriche che ci sono state, ma anche quella della cultura del lavoro che qui è nata e si è diffusa. Basta inoltrarsi appena fuori dal centro per vedere i terreni occupati dagli stabilimenti. Davanti a una piccola casa, nascosta tra i colossi arrugginiti dell’archeologia industriale, incontriamo una coppia di anziani. Lui è sulla sedia a rotelle, lei zoppica, lui ha lavorato quarant’anni in fabbrica, lei quarant’anni nel bar davanti alla fabbrica. “Quand’è finita questa storia degli operai?”, chiediamo. Risponde la donna: “Da una decina d’anni. Al bar venivano gli operai di Carpineto, di Segni, di Piglio. Venivano con i pullman o i treni da Frosinone. Chi attaccava alle sei arrivava alle cinque. Mio marito ha lavorato quarant’anni come verniciatore alla Bpd. Anche la casa ce l’ha data la Bpd. Paghiamo ancora l’affitto, un canone basso ma lo paghiamo, la casa non è nostra”.
Nel 2013 l’uomo ha avuto un ictus che l’ha reso disabile. La sua salute aveva subìto già un altro colpo: era stato intossicato, lavorando come verniciatore per le carrozze dei treni, dai fumi tossici della fabbrica: “Tutti gli anni, per vent’anni, ci mandavano a Chianciano a bere l’acqua per il fegato. Nel 2013, dopo una settimana che eravamo tornati, gli è venuto l’ictus”, racconta la moglie. Il marito prende 1.100 euro di pensione e 400 per l’invalidità. Lei ne prende 350. Il bello della fabbrica, dice la donna, era stare insieme. Il brutto la puzza costante.
“A lei manca la fabbrica?”, chiediamo al marito, alzando la voce visto che sente poco. “Gli ho regalato quarant’anni di vita, se tornassi indietro non lavorerei più lì dentro”, risponde. La moglie aggiunge che “la puzza è normale se ci stanno le fabbriche”. Ed elenca, mostrando anche un certo orgoglio: “Facevano il sapone, il Lauril, l’acido! Alla fabbrica dell’acido ci lavorava pure il padre”.
Il sapone, il Lauril, l’acido. E poi gli armamenti, le munizioni, il cemento. La tredicesima che arrivava puntuale il 4 dicembre, giorno della fiera di santa Barbara. Si può vivere tutta la vita con la puzza dei fumi di scarto, e allo stesso tempo gli si può restare indifferenti.
Negli anni settanta e ottanta lo scrittore Domenico Starnone ha insegnato a Colleferro. In Segni d’oro (Feltrinelli 1990) ha raccontato questa contraddizione: “A pochi passi dalla biblioteca scorreva il fiume Sacco ed emanava un tanfo che ogni respiro era come se una cannonata mi avesse trapassato il torace. Nessuno però sembrava farci caso. Gli utenti come si dice attraversavano il cortile a testa bassa o conversando amabilmente tra di loro. (…) Io invece mi ero persuaso che in certi giorni dalle industrie della valle soffiassero filamenti vetrosi sui quali scorreva un odore di muffa e di uova marce che a respirarlo tagliava l’ugola e le corde vocali”.
L’eredità tossica
Tra gli anni sessanta e settanta, con l’espansione della città-fabbrica, maturano la coscienza ambientale e l’attenzione per le condizioni lavorative. Gli operai lavorano in fabbrica e al tempo stesso la subiscono: tra gli addetti all’insacchettatura del cemento insorge la silicosi; tra i costruttori delle carrozze ferroviarie si diffondono le intossicazioni; aumentano le patologie respiratorie nei reparti chimici dove si produce il lindano (il concorrente commerciale del ddt, “quella nebbia che uccide mosche e zanzare”, come recita un manifesto degli anni sessanta). A un certo punto essere operai ha voluto dire dover studiare la tossicità delle fabbriche, una forma di lotta da affiancare alle rivendicazioni salariali.
Nel 1977 il sindacato di categoria dei chimici promuove e coordina un gruppo di indagine formato da lavoratori, collettivi universitari, ricercatori del Cnr, borsisti dell’Istituto superiore di sanità e personale medico. Organizzano un anno di assemblee. Discutono e analizzano disturbi e malanni denunciati dagli operai della Snia, che nel frattempo aveva inglobato la Bpd. Il resoconto di quegli incontri, pubblicato nei quaderni della Federazione unitaria dei lavoratori chimici (Fulc), restituisce lo spirito di un’epoca lontanissima:
A Colleferro forse per la prima volta nella provincia di Roma operai studenti e tecnici stanno lavorando insieme (…) per far entrare nelle università i problemi che si vivono nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, nei quartieri; dove come a Colleferro, la nocività e l’inquinamento compromettono la salute della gente.
Le denunce e le segnalazioni rimangono inascoltate per decenni. Nei primi anni duemila, quando molti settori fermano definitivamente la produzione, Colleferro è ormai l’epicentro della contaminazione della valle del Sacco e della crisi occupazionale di un territorio ancora segnato, soprattutto nel frusinate, da fabbriche dismesse, progetti fallimentari di recupero e da aree interdette perché fortemente inquinate come l’ex polveriera di Anagni, l’ex Europress a Ceprano e la discarica di via Le lame a Frosinone.
Le mobilitazioni negli anni duemila
È in questo contesto che si sono moltiplicate proteste, mobilitazioni, cortei, picchetti: un antagonismo che va letto anche come una lotta contro un paradigma di sviluppo. Quello della fabbrica dalle mille reincarnazioni, che come atto finale ha elargito disoccupazione e un veleno finito nei corpi di molti abitanti della zona, attraverso latte, ortaggi e verdure. La sostanza si chiama beta-esaclorocicloesano ed è un prodotto di scarto della lavorazione del lindano, molto usato fino agli anni settanta come insetticida, specie in agricoltura, ma ormai vietato in tutta Europa, come ha raccontato Marina Forti in diversi reportage e poi nel libro Malaterra (Laterza 2018).
Il testimone delle lotte è passato di padre in figlio, o di nonno in nipote. Gli studenti della scuola media hanno raccolto l’eredità delle lotte operaie – come l’occupazione della Bpd nel 1950 –, mettendo la salvaguardia del territorio e le questioni ecologiche al centro delle loro rivendicazioni. In più occasioni sono riusciti a portare in piazza migliaia di persone. Nel quartiere Scalo c’è ancora il presidio di Rifiutiamoli, il nome del movimento degli ultimi anni, che si è opposto anche al destino riservato a Colleferro di città-pattumiera di Roma.
Una maledizione, questa, ben visibile a Colle Fagiolara, a nemmeno due chilometri dal centro abitato, dove dagli anni novanta sono stati scaricati i rifiuti della capitale e dai duemila quelli dei suoi impianti per il trattamento meccanico-biologico (tmb).
Il prodotto di questo sversamento è una montagnola nerissima, che si vede facilmente da Colleferro o dai belvedere di Artena: è parte integrante del paesaggio urbano, insieme all’outlet di Valmontone e al parco giochi Rainbow magicland, altre due creature generate dal deserto postindustriale. Quella montagnola resterà così per sempre, anche se il 16 gennaio 2020 la discarica ha definitivamente chiuso, e soprattutto non hanno più riaperto i due inceneritori che avrebbero dovuto bruciare l’immondizia romana per altri vent’anni.
Tutto questo è stato possibile anche e soprattutto grazie ai trecento giorni di presidio dei colleferrini e di Rifiutiamoli. Il merito glielo riconosce anche il sindaco Sanna. Oggi gli attivisti hanno aperto due biblioteche a Colleferro dove organizzano incontri e progettano percorsi di mobilitazione.
Il nuovo polo logistico
A nemmeno cento metri in linea d’aria dalla collina nera della discarica, nel gennaio 2020 hanno cominciato a costruire i giganteschi magazzini di Leroy Merlin e di Amazon. Dopo otto mesi di lavoro sono state issate le insegne con i loghi delle due multinazionali, mentre l’apertura è avvenuta pochi giorni fa, a inizio ottobre. Quando passiamo lì davanti è il primo giorno in cui hanno tolto le transenne dalle strade costruite apposta per il nuovo polo logistico.
I due asteroidi grigi sono precipitati su un’area di 51 ettari e daranno lavoro a circa tremila persone. “Non nego che questa cosa non sarebbe stata possibile senza la chiusura della discarica”, dice il sindaco Sanna, rieletto a settembre 2020 con più del 70 per cento dei voti. Sanna è convinto che tutto andrà bene: “Siamo stati la città delle tute blu e lo saremo ancora. Amazon, Leroy Merlin, l’economia della logistica ci consentono di rimanere la città operaia che siamo. Non è che pensiamo che il nostro futuro possa passare attraverso la pasticceria o il turismo di qualità. Sappiamo che il nostro compito è valorizzare il grande patrimonio urbanistico industriale del novecento, ma anche di sfruttare lo sviluppo di altri settori come quello della logistica. Oggi ci sono Avio, Italcementi, Amazon e Leroy Merlin: se ci sarà da lottare lotteremo come abbiamo lottato all’epoca”.
L’idea di Sanna di una nuova coscienza di classe che scaturisce dalla “fabbrica della logistica” è convincente? In Italia i colossi della logistica contrastano, se non reprimono, l’azione dei sindacati. Parodi Delfino aveva immaginato che la città operaia avesse scuole, auditorium e perfino chiese. La socialità, le piazze, i bar erano fondamentali. A guardare i magazzini di Leroy Merlin e Amazon sembra di trovarsi agli antipodi di quell’idea.
Qualche giorno dopo il massacro di Willy Monteiro Duarte avevamo cominciato a fare interviste in città e c’eravamo imbattuti in un gruppo di operai. Stavano facendo la pausa pranzo in un bar a Colleferro scalo. Giovani, mangiavano in fretta, non parlavano una parola né d’italiano né d’inglese. Erano tunisini e avevamo provato a capirci in spagnolo. Raccontavano che erano in Italia solo da qualche settimana, impiegati in una ditta in subappalto per costruire non sapevano bene neanche loro cosa.
Tre settimane dopo li avevamo incrociati di nuovo davanti ad Amazon. “Hola, trabajamos aqui”, ci aveva detto uno di loro. Erano in Italia ormai da un mese e sarebbero rimasti ancora per altri trenta giorni, poi sarebbero tornati in Tunisia: superstagionali da una parte all’altra del Mediterraneo. Mentre i tre quarti delle piccole aziende di edilizia qui vicino ha chiuso. Come reclutano manovalanza Leroy Merlin e Amazon? Quale sarà l’impatto sul territorio? Cosa vuol dire nel 2020 essere una città operaia?
Tra le ragazze e i ragazzi
Se lo chiedono anche i tanti ragazzi che in questi giorni stanno facendo i colloqui per lavorare nel polo logistico. Tra loro ci sono anche dei testimoni diretti del massacro di Willy Monteiro Duarte. Ne incontriamo due in piazza Italia. “Poteva succedere pure a noi, al posto suo potevamo starci noi”, raccontano, preferendo non rivelare i propri nomi.
In questi giorni hanno allontanato molti giornalisti. Non vogliono rispondere alle domande sulla cosiddetta movida e sul degrado, neanche a quelle sul razzismo come motivazione principale del pestaggio. Sono sconvolti per quello che hanno vissuto, si identificano con Monteiro Duarte. Con il ragazzo di seconda generazione, romanista di Paliano, alle prese con la precarietà e con i contratti di apprendistato. Con il ragazzo che il sabato appena staccato dal lavoro raggiunge Colleferro per fare serata con gli amici.
Si immedesimano anche con il suo ultimo gesto, l’intervento coraggioso per bloccare una lite in cui era coinvolto un suo amico. Non scappare, provare a mettere pace, fermare la violenza immotivata. Uno dei due ragazzi con cui parliamo risponde alla telefonata di un amico: “Eh, sto aspettando che mi chiamano per la visita medica”. Sono in attesa di ricevere delle conferme, hanno fatto domanda come magazzinieri ad Amazon: “Devono vedere se siamo idonei”.
Poco distante da piazza Italia c’è la nuova sede del museo archeologico, dove sono esposti i resti di un elefante antico rinvenuti a Colleferro negli anni novanta, durante la costruzione di un complesso residenziale. Ci lavora Chiara Sanna, nata nel 1993, studente della scuola di alta formazione al Pontificio istituto di archeologia. “Mi occupo delle visite guidate e della catalogazione dei materiali”, racconta. Anche lei è disorientata per la morte di Monteiro Duarte, e come altri suoi coetanei è infastidita dalle narrazioni quasi coloniali su Colleferro: “Alcuni giornali hanno presentato la provincia come un luogo culturalmente arretrato rispetto a Roma. Fa comodo pensarla così. Una delle cose che mi ha infastidito è pensare che il nostro territorio non offra possibilità per non abbrutirsi. In zona ci sono tante associazioni culturali, ambientaliste, gruppi di teatro e sportivi. La morte di Willy lascia una sfida importante per la politica, per le famiglie e per i cittadini, per tutti. Ma dobbiamo cercare di capire in tempo le criticità del territorio”.
Le parole di Chiara Sanna sono un’esortazione a considerare il lavoro delle associazioni nate in questi anni e a riappropriarsi di quei pezzi di città sequestrati dalle multinazionali o inaccessibili per scelte politiche speculative.
Il sequestro di parti della città
Un terzo del territorio di Colleferro è ancora precluso ai suoi abitanti. L’ex area industriale comprende parte dei terreni di proprietà della Secosvim, il ramo immobiliare del gruppo Avio, che tra Colleferro e Artena ne gestisce in tutto 910 ettari. Nel suo primo mandato, dal 2015 al 2020, il sindaco Sanna ha trattato con l’azienda ed è riuscito a far approvare una delibera per rendere pubblica l’area boschiva di proprietà dell’azienda. Negli stessi anni i cittadini di Colleferro si sono riappropriati di diversi edifici comunali, alcuni di epoca morandiana, che durante l’era di Silvano Moffa (sindaco dal 1993 al 2001 e poi di nuovo dal 2004 al 2006) erano stati lasciati nell’abbandono in favore di palazzoni privati costruiti fuori città.
Negli anni novanta e duemila Moffa ha fatto di Colleferro prima un feudo del Movimento sociale italiano, poi di Alleanza nazionale. E ha preso decisioni infelici che ancora oggi pesano come macigni sulla città. Un esempio? Lo spostamento dell’istituto professionale vicino alla discarica di Colle Fagiolara. La sede era in piazza Italia: scelta morandiana, la scuola doveva essere un tutt’uno con la fabbrica. Nel 2004 l’istituto è stato confinato su una strada provinciale, lontano dalle case: ghettizzate nella scuola vicino ai rifiuti, intere generazioni di studenti sono state costrette a respirare i miasmi tossici di Colle Fagiolara. Ancora oggi, la mattina presto, si possono vedere ragazze e ragazzi uscire di casa e percorrere a piedi il chilometro lungo la provinciale che li separa dalle loro classi. Esiliati, costretti ad avere come unici dirimpettai un buca piena di rifiuti e un enorme cantiere, nell’attesa di essere trasferiti in una nuova struttura, gli studenti hanno praticamente visto nascere il polo logistico, lo hanno visitato e per alcuni di loro è stato anche il luogo dove hanno svolto l’alternanza scuola-lavoro.
L’ex sindaco Moffa ha anche rivendicato i motivi della sua scelta: “La scelta di ubicare l’Ipia sulla Palianese (…) fu dettata dalla dislocazione del sistema logistico integrato multimodale (Slim) in quella zona, per far sì che l’istituto professionale fosse vicino al sistema di imprese nuove (…) Una scelta logica e intelligente, non casuale e improvvisata”.
Una scelta che rispecchia una tendenza più generale della destra postfascista: spalancare il proprio territorio allo sfruttamento delle multinazionali ovunque sia possibile.
Così nel 2020 il futuro di Colleferro e di tutta la valle sembra dipendere da una parte dall’impatto del polo logistico, dall’altra dal nuovo impianto di trattamento rifiuti che vi nascerà accanto. Il cosiddetto compound sarà realizzato da Lazio Ambiente – con il benestare del presidente della regione Nicola Zingaretti e un investimento di 54 milioni di euro –, e a regime dovrebbe trattare 220mila tonnellate di rifiuti all’anno. Immondizia proveniente da Roma e dall’area metropolitana, lavorata per produrre biometano. Come si fa a costruire una comunità sociale intorno ai rifiuti e alla logistica?
La domanda che si fanno tutti i ragazzi che abitano a Colleferro è la stessa che si fanno il datore di lavoro di Willy Monteiro Duarte e il sindaco Sanna: che ce ne facciamo del “lavoro asociale”? Come si convincono le persone a restare qui dopo aver finito gli studi?
Numericamente la popolazione di Colleferro è la stessa del 1980. Ma oggi, su poco più di 20mila residenti, duemila sono stranieri, in maggioranza romeni e bulgari. Il centro per l’impiego, all’entrata della cittadina, è circondato da negozi e attività chiuse. Se il lavoro non riesce come un tempo a essere un fattore comunitario, un aggregatore, la scuola è rimasto l’ultimo baluardo. E Colleferro è ancora il centro della valle anche perché tutte le scuole superiori sono in città. Ad Artena, il paese dei fratelli Bianchi lontano solo sei chilometri, gli abitanti sono 15mila e le scuole si fermano alle medie inferiori. E questo si riverbera in modo drammatico sul tessuto sociale.
Ad Artena
Artena è in qualche modo l’altra faccia di Colleferro. Un paese di contadini, di allevatori e di fornai con un borgo arroccato su un costone calcareo dei monti Lepini. Negli ultimi vent’anni i sindaci hanno investito nell’ideale opposto della città operaia: hanno coniato l’immagine un po’ posticcia del “centro storico non carrabile più grande d’Europa” e hanno ripreso il mito ribelle di Artena paese dei briganti, elaborato nel 1890 da Scipio Sighele.
Sul finire degli anni novanta del novecento l’assessore e poi sindaco democristiano Erminio Latini inventa il palio delle contrade. Una settimana di festa in cui gli artenesi riscoprono i giochi popolari e della tradizione contadina: il tiro alla fune, la corsa con il somaro, la gara di poesie in dialetto.
È durante il palio delle contrade che i fratelli Bianchi si esercitavano nelle violenze, provocavano, scatenavano risse, come se fossero protetti dal “vale tutto” della festa. Ma gli abitanti di Artena, dopo il massacro, non vogliono essere etichettati come il paese degli assassini, dei delinquenti. Partecipano in massa alla fiaccolata per ricordare Willy Monteiro Duarte, così come alle commemorazioni in parrocchia, alle riflessioni del circolo Arci.
Il “centro storico più grande d’Europa” è in realtà un nugolo di case vecchie senza nemmeno una farmacia, b&b vuoti da mesi, due bar e la vecchia sede della posta trasformata nel circolo Arci. Secondo i dati del 2018 nel paese antico ci sono 1.200 residenti, ma ad abitare nella parte pedonale sono meno di 800, quasi tutti anziani. I vicoli reagiscono all’assenza e all’intermittenza dei servizi grazie solo allo spirito d’iniziativa di chi vive tutto l’anno nella “città-presepe”, com’è chiamato il paese in occasione dei mercatini di Natale. Essere una città-presepe significa allontanare la politica locale dalle proprie responsabilità, tra cui c’è quella di immaginare il proprio futuro. A un mese dalla morte di Monteiro Duarte tutti gli artenesi si fanno la stessa domanda: perché quella violenza è stata compiuta da quattro compaesani? Tra i politici e nel mondo delle associazioni c’è chi parla di fallimento: non hanno fatto abbastanza le scuole, le rete associative, i comitati, la chiesa. Cos’è mancato? Cosa manca ad Artena?
Raggiungiamo la città-presepe in una calda giornata di settembre. Da piazza della Resistenza si vede tutto il nuovo centro abitato, i residence mai completati convivono con le case condonate negli anni ottanta. Più in là si intravedono le contrade: Maiotini, Macere, Torretta e Colubro, dove la famiglia dei fratelli Bianchi ha una villa in stile hollywoodiano. Le ville si alternano ai capannoni agricoli e alle pecore che pascolano. Palazzinari o contadini, tutti sono stati lasciati a fare i conti con una terra sempre più improduttiva e inquinata, e con la crisi edilizia che va avanti dagli anni novanta. La seconda ha colpito duro: ditte fallite, gruppi imprenditoriali sotto inchiesta per corruzione e turbativa d’asta e famiglie intere lasciate senza stipendio.
Camminando in paese incontriamo Francesco, un ragazzo di 28 anni che lavora con la ditta dei rifiuti. È lui che garantisce la raccolta differenziata fatta a dorso di mulo. Ha ereditato il mestiere del padre e del nonno, mulattieri da generazioni. Durante il lockdown in giro per i vicoli di Artena c’era solo lui, insieme a Foresta, Mora e Mela, i muli che ogni giorno accudisce.
Incrociare Francesco vuol dire avere di fronte un esempio di tenacia e di amore per il posto in cui è nato e cresciuto; un attaccamento che si realizza con il lavoro. Ma è l’unico esempio possibile di reinvenzione del lavoro? E cosa succede quando manca questo tipo di connessione con il proprio paese? Senza legami, i luoghi diventano semplicemente lo sfondo per le risse o lo spaccio.
Le ragioni delle tensioni sociali
Dopo la morte di Willy il sindaco di Artena, Felicetto Angelini del Partito democratico, un passato da dirigente locale del Partito comunista, in un video sui social network ha risposto all’eterno ritorno della nomea della città dei delinquenti, criticando anche la posizione dell’Arci locale che ha parlato di disagio, di spaccio e di marginalità culturale:
Quello che non mi piace è che si parli di Artena parlando di piazze di spaccio neanche fosse Scampia. Io non lo so se scorre cocaina a fiumi ad Artena, ma se lo sapessi andrei alla caserma dei carabinieri e lo denuncerei. La prima risposta che si deve dare a questi delitti efferati? Scuola ed educazione contro questa violenza animalesca.
Angelini parla di casi isolati da condannare. Sanna, il sindaco di Colleferro, dice: “Io penso che la tragedia sia un fatto isolato. Per come si è sviluppata, per la ferocia che ha cristallizzato, per com’è andata, è una cosa assolutamente isolata. Solo un matto può cercare un collegamento tra un atto del genere e la normale realtà di una città dove il reato più diffuso è il divieto di sosta”.
Qualche giorno dopo l’omicidio, Stefano Pincarelli – padre di Mario, uno dei quattro arrestati – ha raccontato il suo passato in carcere e l’abbandono scolastico del figlio:
Io faccio il posatore, il piastrellista nei cantieri. Ma è un lavoro saltuario perché i cantieri sono sempre meno (…) Sono stato in carcere, ma poi ho messo su famiglia, sono diventato una persona come tutte le altre: nessun genitore addestra i figli a comportarsi come hanno fatto mio figlio e i suoi amici (…) Lo abbiamo mandato a scuola, per tre anni ha fatto l’istituto tecnico poi ha detto ‘lasciamo perdere, non sono fatto per studiare’. Ma da allora ha sempre lavorato.
Ogni vita è un caso isolato se non esiste una comunità. E un massacro può essere l’evento fortuito che accade ovunque. I quattro arrestati non erano nemmeno una banda. In una società sfilacciata e divisa la cocaina finisce per essere un collante più forte delle contrade?
E ancora: in una società sfilacciata e divisa c’è la possibilità che Monteiro Duarte sia stato ucciso perché nero? Molte ragazze e ragazzi, italiani di seconda generazione che ora si cominciano a politicizzare anche in Italia, hanno sentito quell’episodio come qualcosa che li tocca nel profondo. E hanno preso coraggio per denunciare le violenze che sembrano essere il clima in cui si è sviluppato il massacro.
Se si prova a tenere in un solo sguardo il gigantesco logo sul magazzino di Amazon a Colleferro e i muli di Artena, i latifondi ancora di proprietà delle famiglie nobiliari e le case popolari sfitte degli ex quartieri operai, le divisioni e gli sfilacciamenti nella società, si può notare che su molte cose si è posata una polvere. È la polvere da sparo della tensione sociale, che scintille inaspettate possono incendiare e far esplodere. Senza che ci sia più alcuna santa Barbara a proteggerci.