Caccia ai fantasmi di William Burroughs a Città del Messico
A Città del Messico c’è un fantasma, anzi due.
Il primo è uno scrittore che ha attraversato il novecento rumoreggiando parecchio; il secondo è una ragazza che ha attraversato il novecento in silenzio. Il primo ha vissuto 83 anni; la seconda 27. Il primo è morto per un attacco di cuore; la seconda è stata uccisa. Il primo ha ficcato una pallottola in testa alla seconda durante una serata con amici il 6 settembre del 1951. Il primo è William Seward Burroughs; la seconda è Joan Vollmer.
Per più di trent’anni Burroughs è riuscito a cancellare il rumore dello sparo che ha ucciso la moglie e le tracce di un romanzo che scriveva in quei giorni. Lo pubblica nel 1985, lo intitola Queer, e assomiglia a una confessione:
Sono obbligato a giungere alla terrificante conclusione che senza la morte di Joan io non sarei mai diventato uno scrittore, e a rendermi conto di quanto questo evento abbia motivato ed espresso la mia scrittura. Vivo sotto la minaccia costante di essere posseduto, un bisogno costante di sfuggire alla possessione, al controllo. Perciò la morte di Joan mi ha messo in contatto con l’invasore, lo spirito del male, e mi ha trascinato in una battaglia lunga un’intera vita, in cui non ho avuto altra scelta che scrivere la mia via d’uscita.
In questi giorni ricorrono i trent’anni dall’uscita di Queer, e al netto di invasori e spiriti del male e altre chincaglierie bourroghsiane di poco valore, il punto è che in quelle pagine, e a Città del Messico, Burroughs diventa assassino e scrittore. Un battesimo singolare e feroce che ci dice qualcosa anche su cosa possono fare per noi gli scrittori, se possono fare qualcosa: Burroughs, per dire, è saltato a bordo di un sottomarino e si è inabissato nell’oceano, si è spinto dove molti di noi non sono mai arrivati e mai arriveranno, ha portato a galla incubi mostri oscenità, storie che altrimenti non conosceremmo mai. Questa è una storia per chi rimane in superficie: ci racconta qualcosa della vita, sopratutto dell’amore.
La capitale mondiale del crimine
Far rivivere Burroughs e Vollmer a Città del Messico è semplice; il posto è uno di quelli che ha più confidenza al mondo con la morte e i suoi derivati. C’è un passaggio del meraviglioso Atlante di un uomo irrequieto in cui Christoph Ransmayr racconta questa confidenza:
Lungo la strada della stazione dei pullman Del Oriente, dove quella mattina ero arrivato da Oaxaca, avevo visto vetrine di panettieri e di pasticceri che esponevano scheletri, teschi e bare di cioccolata, glassa e marzapane, vetrine di mobilieri dove famiglie di scheletri insieme agli scheletri dei loro cani e gatti assumevano le pose di una vita felice in cucine, soggiorni e camere da letto: scheletri—donne in grembiule o tailleur, scheletri-uomini in pigiama, tuta o smoking, scheletri-bambini vestiti alla marinara (…) Il paese festeggiava i días de los muertos.
Questo scenario era vero ai tempi di Burroughs e è vero ancora oggi, e non solo durante i giorni dei morti: nel sobborgo di Coyoacán, dove è nata Frida Kahlo, si possono comprare tutti i giorni teschietti coi colori dei quadri della pittrice; su certe bancarelle di mercati come quello di San Juan, accanto a enchiladas e quesadillas e tacos, si vendono anche i calaveras, piccoli crani di zucchero colorato; al Museo mural Diego Rivera, nato sul lato ovest del parco Alameda central dopo il terremoto del 1985, si va per l’unica opera conservata, e cioè Sueño de una tarde dominical en la Alameda Central, quindici metri di murales la cui figura centrale è la Calavera Catrina, ovvero la raffigurazione popolare della morte. Burroughs stesso, quando deve descrivere la città, parla di avvoltoi:
Quando ci abitavo, alla fine degli anni quaranta, aveva un milione di abitanti, l’aria pulita e frizzante e il cielo di quella speciale sfumatura d’azzurro che si intona tanto bene con gli avvoltoi volteggianti, il sangue e la sabbia: quel crudo, minaccioso, spietato azzurro messicano.
Oggi nell’intera aerea metropolitana di Città del Messico vivono venti milioni di persone; e per chi arriva in aereo, come è capitato a me, l’azzurro del cielo può lasciare spazio ai colori lattiginosi e grigiastri dell’inquinamento e delle piogge quotidiane, in cui capita di vedere soli rossissimi e giganteschi.
L’aria non è più frizzante, non si vive più con due dollari al giorno (“liquori compresi”, come scrisse a Jack Kerouac), non è più valida l’etichetta di “capitale mondiale del crimine” (lettera a Ginsberg), ma in compenso il flusso ininterrotto di persone per le strade, e quello parallelo nella città sotto la città che un tempo era chiamata Tenochtitlán e fu la capitale dell’impero azteco, mentre oggi è più banalmente la rete della metropolitana, in compenso tutto questo ricorda “quel particolare caos che c’è nei sogni” che Burroughs attribuisce all’intero Messico.
El hombre invisible e la prima donna dei beat
Quando William e Joan mettono per la prima volta piede in questo caos è il 1949, hanno un figlio e poco altro in comune.
Lui:
- È il rampollo di una famiglia che si è arricchita grazie all’invenzione della calcolatrice: il che spesso lo solleva da qualsiasi pensiero di trovarsi un lavoro.
- A otto anni impara a usare una pistola e scrive la sua prima storia, Autobiografia di un lupo.
- Si laurea in letteratura inglese a Harvard, si taglia la falangetta del mignolo sinistro e la spedisce al suo analista, che lo fa internare.
- A New York è arrestato con Kerouac per favoreggiamento nei confronti dell’amico Lucien Carr, che aveva ucciso un altro amico comune, Dave Kammerer: entrambi escono su cauzione e su quella vicenda scrivono E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche, pubblicato 63 anni dopo.
- Conosce Joan a New York, nell’appartamento su 115th Street in cui vivono o passano le giornate Kerouac, Allen Ginsberg, Edie Parker, Hal Chase, e buona parte del nucleo di quella che sarebbe stata definita come beat generation.
Lei:
- Nasce a Loudonville, vicino Albany, New York, e cresce in una famiglia borghese.
- Studia giornalismo alla Columbia university, ma passa la maggior parte del tempo a parlare di Kant, Platone e Proust in un bar vicino l’università, dove conosce Edie Parker.
- A vent’anni sposa uno studente di legge, Paul Adams, hanno un bambino, ma divorziano poco dopo.
- Sviluppa una forte dipendenza dalle anfetamine, che la porterà anche a un ricovero in ospedale dopo gravi episodi psicotici.
- Conosce William a New York, nell’appartamento su 115th Street, un incontro combinato da Kerouac e Ginsberg.
Siccome la vita, e soprattutto l’amore, possono somigliare a dei romanzacci, l’incontro tra i due è una scena con battute da b-movie. Lo racconta Jorge Garcia-Robles in The stray bullet: William S. Burroughs in Mexico.
Pochi mesi dopo che la bomba atomica fu sganciata su Hiroshima, William S. Burroughs, che viveva da solo in un piccolo appartamento nel Greenwich Village, prese le sue poche cose, attraversò Manhattan come un ladro, arrivò all’appartamento su 115th Street e, lasciando la borsa per terra, bussò. La porta si aprì lasciando intravedere il sottile profilo di Joan, che con voce morbida gli disse: Benvenuto nel tuo destino. E Burroughs rispose: Benvenuta nel tuo.
La notte della pallottola vagante
Questo destino si compie la sera del 6 settembre del 1951 a Roma, il quartiere bohémien di Città del Messico. Per chi ci arriva oggi, immaginare come doveva essere allora non richiede uno sforzo eccessivo. Le strade, le case, le architetture europee volute dal presidente Porfirio Díaz e dall’aristocrazia messicana conservano l’aria di decadenza che era già ben visibile ai tempi in cui Burroughs, Vollmer e il loro figlio si trasferivano da un appartamento all’altro: prima al numero 37 di Cerrada de Medellín e poi al 210 di calle Orizaba.
A nessuno dei due indirizzi corrisponde una qualche targa che ricordi la loro presenza, ma in compenso, davanti la casetta di calle Orizaba c’è un ragazzo giapponese con una copia in inglese di Pasto nudo e una cartina della città. Gli chiedo come mai è lì e mi dice che negli anni ha provato a visitare i vari luoghi in cui il suo scrittore preferito ha vissuto, da Tangeri a Londra fino a Città del Messico. Gli chiedo qual è il suo libro preferito, mi risponde inaspettatamente La scimmia sulla schiena. Gli chiedo allora perché si porti in giro per il mondo Pasto nudo. La scimmia sulla schiena è il suo più grande romanzo, Pasto nudo è un’opera d’arte, dice.
Ho sentito e letto molte volte un giudizio del genere a proposito di questi due libri. Il primo, con una trama e una struttura precise, un linguaggio secco e affilato, è facilmente riconducibile a un romanzo tradizionale. Il secondo è la negazione della tradizione, essendo un collage di storie e scene che si susseguono e implodono le une nelle altre: e insieme esplodono in una lingua allucinata e corrosiva e ossessiva.
Il primo con i piedi ancora ben piantati nella realtà, grazie a immagini feroci ma vivide:
Il mio corpo ero come scorticato, guizzante, tumefatto, le carni raggelate dalla droga in preda ad un disgelo straziante (…) Mi esplosero scintille dietro gli occhi, mi si contorsero le gambe: l’orgasmo di un impiccato quando il collo si spezza.
Il secondo più astratto, con immagini rarefatte, fin dal titolo:
Non ho un ricordo preciso degli appunti presi e ora pubblicati con il titolo Pasto nudo. Il titolo mi è stato suggerito da Jack Kerouac (…) Significa esattamente ciò che le parole esprimono: Pasto NUDO – l’istante, raggelato, in cui si vede quello che c’è sulla punta della forchetta.
Nella casa di calle Orizaba Burroughs finisce La scimmia sulla schiena. Ma non si può dire che gliene importi molto, né del romanzo, né della scrittura, né più in generale di quello che succede fuori dalla finestra, né figurarsi di quello che succede nel paese.
Non c’è una riga sui libri pubblicati in quegli anni dal futuro premio Nobel Octavio Paz, né sulla morte dell’artista José Clemente Orozco. Non c’è spazio nelle sue pagine per i cieli bassi e sconfinati sulle strade che portano nella Sierra Madre del sud, non ci sono sciocchezze dolci come i mole che si possono ordinare a tutte le ore della notte in una vecchia cucina di Oaxaca, non si sente il suono mite che può avere l’oceano a Mazunte, o quello di un’esercitazione militare che fanno le onde a Zipolite. Non c’è l’ossessione di D. H. Lawrence per i miti aztechi, né quella per il peyote di Antonin Artaud. Non gli interessano le rivoluzioni politiche che portano nel paese Tina Modotti, Sergej Ejzenstejn e molti altri.
Dentro casa è troppo preso dalla droga, dallo sperimentare la telepatia con Joan e dall’ospitare i vari beat di passaggio, da Neal Cassady a Gregory Corso, da Ginsberg a Kerouac (che qui, tra erba e alcol, scrisse parti di Trisessa e Mexico city blues). Fuori casa le giornate scivolano via come una slavina che si porta dietro sbronze e marchette; fascinazioni per personaggi come Lola la Chata, una signora di mezza età che deteneva il controllo dello spaccio; sbronze in locali come il Ku ku (dove arriva a minacciare un poliziotto con una pistola) e il Bounty.
Il Ku ku non esiste più. Il Bounty c’è ancora e quando ci si arriva, all’incrocio tra calle Monterrey e Chihuahua, fa una certa tenerezza: del posto in cui Burroughs e sua moglie si ubriacavano, tenendo d’occhio il figlio che giocava per strada, dell’epica di cui negli anni è stato tappezzato il locale non resta che una scritta all’esterno che dice “El lugar de la leyenda”. Di leggendario oggi non c’è niente, c’è un posto con una decina di tavoli di plastica e un piccolo bancone di truciolato dove si può mangiare e bere per pochi pesos.
Qui Burroughs incontra per la prima volta Lewis Marker, un ventunenne della Florida su cui sarà modellato uno dei personaggi di Queer: il ragazzo che il protagonista desidera e da cui viene continuamente umiliato.
Moor (…) metteva Lee nella posizione di un omosessuale insopportabilmente insistente, troppo stupido e troppo insensibile per rendersi conto che le sue attenzioni non erano gradite, e costringeva Moor alla spiacevole necessità di farglielo capire a chiare lettere.
Nella realtà, Burroughs riesce a trascinare Marker in un viaggio nella foresta amazzonica in cerca dello yage, una sostanza allucinatoria che era diventata la sua nuova ossessione. Il patto è che Burroughs paga tutto e in cambio Marker fa sesso con lui una volta a settimana. Ma l’accordo si rompe poco dopo la partenza perché Burroughs insidia in continuazione Marker, lo costringe a camminate sfiancanti nella foresta e a stargli accanto mentre vomita per cinque giorni dopo aver trovato e preso lo yage. Il viaggio ottiene il doppio catastrofico risultato di disgustare Lewis e frustrare Joan. Il primo cercherà da questo momento in poi di stargli alla larga, la seconda comincerà a provocarlo e umiliarlo tutte le volte che può.
È quello che fa anche la sera del 6 settembre 1951, nell’appartamento di John Healy dove hanno raggiunto alcuni amici per bere insieme. E di nuovo il romanzaccio della vita, e soprattutto dell’amore, interviene: l’appartamento è pochi piani sopra il Bounty, e quella sera c’è anche Marker, che dopo il viaggio in Sudamerica aveva fatto perdere le sue tracce.
L’edificio oggi si confonde in mezzo ai palazzoni di calle Monterrey. Per entrare basta spingere pulsanti a caso del citofono, dire “correo” (posta) e aspettare che qualcuno apra: qualcuno apre. Dentro è buio, anche se è pieno giorno, le scale sono cadenti, la luce è al neon e non sempre funziona, su molti ingressi ci sono dei cancelli in ferro: qualche cane abbaia, un bambino piange, sul campanello dell’appartamento in cui Burroughs uccide la moglie qualcuno ha spento una sigaretta.
Dietro quella porta, sessantaquattro anni prima, Bill e Joan si versano gin Oso negro e insieme a Healy, Eddie Woods, Marker e la sua amante, Betty Jones, ne finiscono qualche bottiglia. Burroughs ha con sé una pistola che nel pomeriggio ha provato a vendere, senza riuscirci. La tira fuori, la mette sul tavolo e dice agli altri che vorrebbe trasferirsi con la famiglia da qualche altra parte in Sudamerica, un posto che gli permetta di vivere con poco, magari coltivando un orto e cacciando qualche animale. Joan sorride: probabilmente moriremmo di fame, dice.
Joanie, lascia che mostri ai ragazzi che gran tiratore è il vecchio Bill, Burroughs rispose, è il momento giusto per il nostro Guglielmo Tell. E, alzandosi dalla sedia, allungò la mano e prese la pistola dal tavolo. Joan si alzò, prese un piccolo bicchiere mezzo pieno e se lo mise sulla testa. Chiuse gli occhi e con una risata soffocata disse: non posso guardare, sai che non sopporto la vista del sangue.
Questa è la versione di Jorge Garcia-Robles in The stray bullet. Di sicuro c’è che Burroughs spara, manca il bersaglio, Joan viene colpita in testa e muore. Dopodiché è arrestato e portato in carcere in attesa del processo. E siccome è il diavolo, è difeso dall’avvocato del diavolo, e cioè Bernabé Jurado, un personaggio monumentale, amante sfrenato delle donne e delle pistole, re dei cinici e dei corrotti. Jurado prima di tutto tranquillizza il suo cliente, poi costruisce una nuova scena del crimine (conviviale, in cui il colpo è partito per sbaglio), infine convince i testimoni a mentire e corrompe la corte.
Burroughs esce dalla cella tredici giorni dopo esserci entrato. Lascia il Messico per tornarci una sola volta, e di sfuggita, poco tempo dopo, poi mai più. Il figlio è affidato ai genitori di Joan Vollmer, Joan Vollmer è affidata ai becchini del Panteón americano, un cimitero alla periferia di Città del Messico.
Sessant’anni dopo chiedo a uno di loro dove si trovi la sua tomba. Il cimitero è grande, cadente e fradicio di pioggia. Il custode mi accompagna dalla parte opposta dell’ingresso, tra pozzanghere e fango e parole smozzicate in un walkie talkie. Quando dice ecco, siamo arrivati, gli chiedo dove, visto che siamo fermi di fronte al muro di cinta del cimitero. Me ne indica un punto con la testa, un francobollo triste in mezzo al cemento e alle crepe, dove c’è scritto: Joan Vollmer, 1924-1951.
Gli chiedo se sa chi fosse: una escritora, dice. Gli chiedo se per caso riceve delle visite: qualcuno, soprattutto cubani. Gli chiedo se sa com’è morta: l’ha uccisa il marito, un hombre un poquito loco, dice, una historia singular.