Un paese in galera
Tutta l’Europa colta sa che la colpa non è dei carcerieri, ma di ognuno di noi;
però questo ci lascia indifferenti.
Anton Čechov, Vita attraverso le lettere
Nelle prigioni italiane ci sono più persone che a Sanremo, a Cuneo, ad Agrigento. Con più di 57mila detenuti e oltre 30mila agenti di polizia penitenziaria, il carcere potrebbe essere una delle prime cinquanta città italiane per numero di abitanti. Come in ogni città, c’è chi la mattina si alza con qualche speranza e chi si ammala, chi vende antidepressivi e chi sesso, chi piange per i sogni tristi, chi lavora e chi prega, chi ama e chi sa soffocare un uomo senza fare rumore.
Per quanto la si voglia cancellare dalla vista di tutti, questa città fa parte del panorama italiano tanto quanto L’Aquila (69mila abitanti) o Matera (60mila): è un pezzo del paesaggio, e il paesaggio siamo noi. Da quasi trent’anni cresce in maniera spaventosa e disordinata, i suoi confini toccano i nostri, ci riguardano molto più di quanto crediamo.
Al carcere Due Palazzi di Padova, nel febbraio scorso, ho conosciuto una persona che ha messo piede per la prima volta in questa città quasi trent’anni fa e poi ci è ritornato più volte. Sette mesi dopo, parliamo al telefono del caldo di Roma e di quello di Padova. Saremmo nel banale se non fosse che lui fino a pochi attimi prima era in galera e ci doveva restare fino al 2037, condannato per decine di rapine in banca a 57 anni, poi ridotti a 30.
Dopo avermi detto che si trova con un’assistente sociale, “il telefono è suo, non ho ancora niente”; che gli gira la testa perché s’è affacciato da una finestra, “una finestra vera”; e che è ancora sconvolto per quello che gli è successo; dopo, con voce un po’ più bassa, dice: “Mi dispiace”. Si riferisce al fatto che il suo rilascio improvviso possa rallentare o far saltare la pubblicazione dell’articolo, e perciò se ne scusa, come chi ormai è abituato a pensare che qualunque cosa accada sia colpa sua. “È successo tutto così in fretta”, dice.
Il giudice gli ha riconosciuto il reato continuato per 20 rapine su 22 e gli ha ricalcolato gli anni di prigione: da 30 a 19. Dieci li aveva appena scontati. Gli altri nove anni si riferivano a condanne ricevute in passato, e anche in questi casi le pene erano già state scontate. Così ora poteva dire al telefono: “Prima era una brutta storia, ora è una brutta storia con un finale meno triste”.
Il finale meno triste riguarda solo lui, ed è ancora aperto e sospeso e complicato. Ma la storia che c’è dietro è ancora utile a svelare un tabù che riguarda tutti: quello dell’incarcerazione di massa in Italia cominciata negli anni novanta e proseguita fino a oggi. Un processo che ha cambiato il paese e che allunga la sua ombra tanto su chi non ha mai conosciuto la galera quanto su chi la conosce fin troppo bene.
L’uomo che al telefono mi ha raccontato come ne è uscito appartiene al secondo gruppo. Alto due metri, braccia lunghe e mani grandi, al Due Palazzi doveva piegarsi per sedersi al banco di scuola che le guardie ci avevano messo a disposizione all’ingresso della palestra. Dentro c’era un convegno sull’ergastolo organizzato dal giornale Ristretti Orizzonti. Ci aveva presentato Francesca Rapanà, ricercatrice e redattrice della rivista. Il quadro che aveva dipinto era più o meno questo: “Si chiama Lorenzo Sciacca, ha quarant’anni e ha passato metà della sua vita a rapinare banche e l’altra metà in galera”.
La sua storia corre parallela a quella della crescita mostruosa del carcere in Italia e dell’ossessione degli italiani per la sicurezza.
Prologo
Tutto comincia nel 1990 e per Sciacca si consuma nel giro di trenta secondi. “I più lunghi della mia vita”, dice. “Ho quattordici anni e sono partito da Catania in macchina con altri compagni, mille chilometri senza mai smettere di pensare a quello che sarebbe successo una volta a Milano”. È il più piccolo del gruppo, gli altri sono maggiorenni, è facile immaginarli nervosi e eccitati; Lorenzo ha anche paura, ma non lo dice perché non sa se è l’unico. I compagni gli hanno ripetuto cosa fare, come farlo, in quanto tempo. Trenta secondi, appunto. Un passo dietro l’altro, se li lascia alle spalle, raggiunge l’ingresso della banca davanti alla quale si sono fermati, dà un’occhiata alle telecamere, poi abbassa lo sguardo ed entra.
Gli altri tre sono in auto, indossano i passamontagna, prendono le borse e corrono verso l’agenzia.
“Urlo che quella è una rapina, che nessuno deve muoversi, che devono aprire le porte e che devono disattivare gli allarmi. È quello che succede, e il mio lavoro è finito”. Comincia quello degli altri, che dietro agli sportelli svuotano le casse e riempiono i borsoni. Dura trenta secondi. Trenta secondi, 14 anni e un bottino di settanta milioni di lire.
“Andiamo a casa di amici che ci devono ospitare per la notte, l’indomani saremmo ripartiti per Catania”, racconta Sciacca. “Ci dividiamo i soldi, a me toccano gli spiccioli, un milione”. Nel 1990, un milione è quanto viene pagato un operaio per un mese di lavoro in fabbrica; a Librino, il quartiere periferico di Catania dove il ragazzo vive con la famiglia e dove non ci sono né fabbriche né operai, è una cifra che avrebbe impiegato mesi a guadagnare facendo, come avrebbe fatto, l’elettricista. Se l’è guadagnata in trenta secondi: tanto, e non ancora abbastanza. “Non protesto, aspetto di ritornare a casa per organizzare un altro colpo e chiedere di più”, ricorda.
Ma dopo poche ore una squadra di carabinieri sfonda la porta dell’appartamento e lo arresta insieme agli altri. Trenta secondi anche questi, più o meno. “Trenta secondi la rapina, trenta secondi l’arresto e due anni di minorile come risultato”.
Quando lo portano al Beccaria, il carcere minorile di Milano, in Italia i detenuti sono 24.844. Una fotografia dettagliata di quegli anni l’ha scattata Christian G. De Vito in Camosci e girachiavi, storia del carcere in Italia:
Nel 1990 il tasso di detenzione in Italia era pari a 45 detenuti su 100mila abitanti, già nel 1992 raggiunse quota 89. Gli ingressi annuali in carcere passarono dalle 57.732 persone del 1990 alle oltre 100mila del 1994. Le presenze medie giornaliere negli istituti penitenziari, che nel 1991 divennero oltre 35mila, l’anno successivo erano già 47.316.
Questo passaggio è molto utile per catturare i primi movimenti della città-carcere, vi si intravedono gli argini che cominciano a franare. Nel 1976, l’anno in cui Lorenzo è nato, i detenuti sono 28.577; dieci anno dopo sono 31.829. A parte un picco a metà degli anni ottanta, la media è attorno ai 30mila detenuti.
Poi qualcosa è cambiato. “Dalla metà degli anni ottanta”, scrive Remo Bassetti in Derelitti e delle pene, “il carcere ha modificato la composizione per categorie. Dal trentacinquenne-quarantenne meridionale e di provenienza contadina degli anni sessanta e settanta, il detenuto-tipo è ora appartenente al sottoproletariato metropolitano e la sua meridionalità si è ulteriormente meridionalizzata”.
Se suona familiare, è perché lo è: la storia di Lorenzo è la storia di questa “meridionalizzazione”. Sono i maschi bianchi meridionali del sottoproletariato come lui i primi protagonisti dell’incarcerazione di massa in Italia.
Gli anni del boom
“Il Beccaria di Milano era un posto violentissimo, ma per me fu una nave scuola, è lì che imparo a odiare lo stato e decido cosa sarei diventato: avrei fatto il rapinatore di banche, come mio padre”, racconta Sciacca. Il ragazzo si ritrova di nuovo a Milano, dove era nato e aveva vissuto fino a dieci anni. La madre si era trasferita da Catania perché il padre era stato arrestato e portato a San Vittore. “L’ho conosciuto in galera. Con mamma vivevamo in un palazzone in periferia abitato da piccoli delinquenti e mogli che aspettavano i mariti incarcerati”.
Nel 1986, il padre esce e la famiglia si ritrasferisce a Catania, a Librino. “Un quartiere povero e periferico ma io sono felice perché finalmente incontro la mia famiglia”, ricorda. “Passo più tempo per strada rispetto a Milano, conosco anche i ragazzi con cui faccio i primi furtarelli e poi la prima rapina”.
Al minorile il padre non mette piede. “Per due anni ha accompagnato mia madre da Catania a Milano, quindici ore di macchina, per poi aspettare fuori e ritornarsene a casa”. Quando esce, i genitori provano a mandarlo da un elettricista, ma non dura. “’Farai la mia stessa fine, è questo quello che vuoi?’, mi grida una sera papà. Allora ancora non lo sapevo, ma dopo l’ho capito: volevo diventare bravo come lui, se possibile superarlo, stupirlo”.
Perciò mette su una “batteria” di tre ragazzi e comincia a organizzare il suo primo vero colpo. “Saliamo di nuovo a Milano, la rapina va bene, solo che nella banca ci sono pochi soldi: ne facciamo altre tre in due settimane”. Succede tutto velocemente, i soldi si moltiplicano così come le attenzioni della polizia. Li arrestano che Lorenzo ha da poco compiuto diciott’anni. “Mi portano a San Vittore, proprio dove avevo conosciuto mio padre”, dice con un’ombra di amarezza negli occhi.
È il 1994 e i detenuti in Italia sono 49.913.
Da questo momento la crescita si fa inarrestabile e subisce un’accelerazione che è simile a quella che travolge la vita di Sciacca.
Gli anni della vergogna
“A San Vittore studio, frequento altri rapinatori, da loro imparo quali sono le banche con più soldi e come si preparano colpi più sofisticati”, racconta Sciacca. “Volevo fare il miliardo, come dicevo allora, e per farlo bisogna rapinare banche più grandi, puntare ai caveau, un tipo di colpo diverso rispetto a quelli che avevo fatto prima”, spiega.
Quando esce ha poco più di vent’anni ed è pronto a fare il salto. “È tutta una questione di tempi. Con le buone o con le cattive si deve coinvolgere il direttore della banca, arrivare alla cassaforte, fargliela aprire, riempire i borsoni e nel frattempo mantenere il controllo di tutto quello che succede alle tue spalle. Impiegati e clienti possono reagire, la polizia può arrivare”. Il tempo si dilata e servono armi più grosse. “Con la pistola in mano l’adrenalina cresce, così come la paura. Se qualcosa va storto e hai un’arma in mano, può essere che la usi”, dice Sciacca.
In quel periodo svaligia molte banche, ma lo prendono prima che spari un colpo. Dai 22 anni ai 31 ne passa otto in galera. Nei mesi in cui è fuori progetta altri “lavori”, come chiama le rapine, e porta avanti la relazione che ha da anni con una ragazza. “Nasce il mio primo e unico figlio, e dove lo incontro per la prima volta? A San Vittore, la profezia di mio padre si era compiuta: mi aveva detto che avrei fatto la sua stessa fine e così era stato”.
In quegli anni comincia anche la sua odissea nelle galere italiane. Nella sua vita di detenuto, Sciacca racconta di essere stato in una trentina di istituti di pena. “Attaccavo briga e non ero visto di buon occhio dalle guardie. Mi è successo di fare a botte anche con loro e così, per punizione, a volte sono stato portato in quelle che vengono chiamate ‘celle lisce’, dove non c’è niente salvo gli schizzi di sangue sulle pareti, perché è lì che le guardie puniscono le teste calde con pugni e calci, per poi lasciarle in isolamento”.
Nel carcere di Catania un giorno partecipa a una rivolta. “Ero giovane”, dice, “ma la rabbia era così tanta che mi sono lasciato coinvolgere, con il risultato che mi hanno allontanato per sempre dalla Sicilia”. Essere portato in un carcere lontano dalla città in cui si vive per un detenuto significa essere allontanato dalla propria famiglia, il che ha due effetti. Un sovrappiù di pena per lui, e una pena anche per la famiglia, che finisce per essere risucchiata in un vortice di viaggi faticosi e dolorosi.
“È l’aspetto più doloroso delle galere, essere privati dei propri affetti e infliggere ai propri cari un dolore muto”, dice Sciacca. Quando parla del figlio, le parole faticano ad arrivare alle labbra. “L’ho visto crescere mentre ero dentro. E anche quando ero libero, tra latitanze, rapine e galere, non lo vedevo quasi mai”.
L’ultimo periodo di libertà se lo ricorda bene. “Facevo avanti e indietro dalla Spagna, viaggiavo con documenti falsi e vivevo come ci si può aspettare che viva un rapinatore che riesce a mettere a segno qualche colpo buono: vestiti di lusso, moto e macchine sportive, cocaina”. Nella testa però dice che gli si sbrogliava un ritornello: “Me lo ripetevo in continuazione: ‘A 33 dico basta, a 33 anni smetto’. Bello o brutto, qualcosa sarebbe successo”.
Succede qualcosa di brutto: al figlio trovano un tumore. “Il mondo mi crolla addosso. La diagnosi, le cure, la sofferenza del bambino. Il 6 ottobre 2010 muore e io sono latitante in Spagna. Rientro a Catania, ma so che non posso presentarmi in chiesa perché ci sarebbero stati i carabinieri. Il 9 c’è il funerale e io sono costretto a guardare tutto da lontano”. Pochi giorni dopo lo arrestano, il 12 ottobre compie 34 anni.
Paranoie e ossessioni
Nel 2010 i detenuti nelle carceri italiane sono 67.961, più del doppio rispetto a quando questa storia è cominciata. Il cambiamento ha la forma di un’onda che si ingrossa di anno in anno, e per coglierne la potenza vale la pena riavvolgere il nastro e guardare il film dall’inizio alla fine:
Cos’è successo di tanto grave in questi anni da riempire le carceri italiane? Quale emergenza criminale c’è stata? “Nessuna, la crescita si deve sostanzialmente a tre-quattro leggi”, spiega Stefano Anastasia, fondatore dell’associazione Antigone e garante dei detenuti della regione Lazio. “La Iervolino-Vassalli sulle droghe, a cui poi è seguita la Fini-Giovanardi; le leggi Martelli, Turco-Napolitano e Bossi-Fini sull’immigrazione; la Cirielli, che ha aggravato le pene e impedito l’accesso alle alternative al carcere ai condannati con precedenti specifici”.
L’incarcerazione di massa registra solo due battute d’arresto. Nel 2006, quando viene concesso l’indulto, l’unico negli ultimi 25 anni; e nel 2013, quando l’Italia è condannata dall’Europa per il sovraffollamento e approva una serie di misure per cercare di arginare il problema – oggi la situazione è tornata a livelli preoccupanti. Per il resto, “i testi sulla droga e sulla recidiva sono stati approvati con l’intento esplicito di criminalizzare i destinatari”, dice Anastasia. Mentre quelli gli altri provvedimenti “hanno di fatto istituito un nuovo reato, l’immigrazione irregolare, e hanno buttato centinaia di migliaia di persone nell’illegalità, nel mercato del lavoro nero e persino nel mondo del crimine”.
Dunque, se negli anni ottanta il carcere era stato usato come strumento di pulizia sociale contro i giovani meridionali del sottoproletariato, negli anni novanta comincia la criminalizzazione di altre due figure: gli stranieri e i tossicodipendenti, come vengono definiti nei documenti ufficiali del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il fermo immagine di questo brutto film è questo:
La storia di Sciacca è invece un esempio di pulizia sociale vecchia maniera. Prima di essere arrestato è un ragazzo povero di quattordici anni con idee sbagliate e violente; trenta secondi dopo è un ragazzo povero con idee sbagliate e violente a cui rispondere solo con la galera. “In tutti questi anni il carcere è cambiato”, dice, “e io ho vissuto questo cambiamento in diretta, vedendo le celle affollarsi di persone che parlavano lingue che non erano la mia, che avevano abitudini e religioni diverse, persone che venivano arrestate perché si facevano e avevano fatto qualche cazzata, persone con dipendenze gravi in molti casi, o piccoli spacciatori”.
Negli anni novanta e duemila si registra lo slittamento dallo stato sociale basato sul principio di uguaglianza allo stato giudiziario basato sul principio della colpevolezza. La sicurezza diventa un’ossessione, come spiega l’antropologo francese Didier Fassin nel saggio Punir:
Le persone si dimostrano sempre meno tolleranti (…). Tutta una serie di conflitti interpersonali che prima potevano trovare soluzioni private ora passano per la polizia, spesso per i giudici, perfino per il carcere (…). La politica rinforza e anticipa l’ansia di sicurezza dei cittadini (…). Pensa davvero di poter trarre benefici elettorali dalla drammatizzazione delle situazioni e dalla messa in scena della propria autorità.
Il rapporto tra l’ossessione per la sicurezza dei cittadini e il populismo penale dei politici ha generato dei mostri. Uno è la paranoia di vivere in un paese in perenne emergenza criminalità. Ma bastano pochi dati a smontare questa lettura:
- Nel 2006 erano stati denunciati 2.771.490 delitti. Nel 2015 sono stati 2.687.249.
- Nel 1991 furono compiuti 1.773 omicidi, nel 2016 sono stati 245.
- Negli ultimi dieci anni le rapine in banca sono crollate del 90 per cento: nel 2007 erano state 2.972, nel 2016 sono state 360.
- Nel 1993 il 31,2 per cento delle famiglie italiane aveva la percezione di vivere in una zona a rischio criminalità. Nel 2015 la percentuale è salita al 38,9.
Un altro degli abbagli causati dall’ossessione per la sicurezza è che il carcere sia efficace. Ancora una volta, i numeri fanno pensare che non è del tutto vero. Due, in particolare, certificano un bilancio disastroso. Il primo viene fuori da uno studio del 2007 dell’osservatorio delle misure alternative e svela la differenza abissale che corre tra lo scontare l’intera pena in carcere e il poter accedere a misure alterative, tipo l’affidamento ai servizi sociali. Nel 1998, furono scarcerate 5.772 persone; 3.951 di loro erano di nuovo dentro nel 2005. Significa che quasi il 70 per cento è diventato recidivo, una percentuale che invece scende al 19 per cento se si tiene conto dei detenuti che erano stati affidati in prova ai servizi sociali. Il secondo numero è il risultato di uno studio che ha calcolato che per ogni punto percentuale in meno corrisponde un risparmio di circa 51 milioni di euro all’anno, si capisce che dentro al buco nero della recidiva finiscono non solo la sicurezza tanto agognata dagli italiani, ma anche molti soldi.
C’è finito anche Sciacca, naturalmente, che per quasi vent’anni è tornato in galera per aver compiuto lo stesso reato. “Non è neanche giusto autoassolversi, però. È vero che a me per anni non è stata offerta alcuna alternativa, ma è anche vero che probabilmente, se me l’avessero offerta a venti, non so se l’avrei accettata”, dice. “Le cose per me sono cambiate quando sono arrivato a Padova, qualche anno fa. Grazie al gruppo di Ristretti Orizzonti ho cominciato a lavorare con gli altri e su me stesso. Per la prima volta ho smesso di cercare alibi per la mia storia e ho smesso di sfidare mio padre”.
Le letture simpatetiche delle storie dei carcerati, al pari di quelle che li condannano a prescindere, nascondono sempre qualcosa. Per ogni detenuto che comincia un percorso di recupero c’è dietro il lavoro sfiancante di volontari e associazioni. “È un’operazione complessa perché bisogna accompagnare i detenuti in un percorso in cui si rimette in discussione tutto, le scelte fatte e persino gli affetti”, spiega Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia. “Per farlo bisogna cancellare dal proprio vocabolario la parola ‘delusione’: l’idea che alle persone vada data una seconda possibilità in carcere è un’illusione: a volte bisogna dargliene una terza, una quarta, una quinta”. Ha ragione però Lucia Castellano, l’ex direttrice del carcere di Bollate, quando dice che l’alternativa a tutto questo è un “cimitero dei vivi”.
Ci sono altre strade che si possono percorrere. Alcune, molto concrete, le elencano Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta nel libro Abolire il carcere:
- Depenalizzare il più possibile, sostituendo le sanzioni penali con quelle amministrative o civili.
- Cancellare l’ergastolo e ridurre le pene. È quello che succede in Norvegia.
- Vietare l’incarcerazione prima del giudizio: un terzo dei detenuti italiani è in attesa di giudizio.
- Garantire il più possibile le misure alternative.
- Bandire il carcere per i minorenni.
A chi obietta che il ripensamento del carcere è un modo irrealistico di affrontare la realtà, va ricordato che la galera come strumento di punizione non è sempre esistita, la sua storia è relativamente recente; e che altre storie che si davano per scontate, come quella della pena di morte e dei manicomi, sono state stracciate: le storie che le hanno sostituite sono tra le più belle mai immaginate e scritte in questo paese.
Epilogo
Quando era ancora in galera, ho spedito una lettera a Sciacca per chiedergli di descrivermi una giornata qualsiasi in carcere. Mi ha risposto con un racconto da cui emerge, senza mai essere nominata, una disperazione sconfinata: “C’è chi passeggia per ore lungo i corridoi e non parla con nessuno, imbottito di psicofarmaci. Chi fa mille addominali al giorno e chi non esce mai dalla cella. C’è anche chi studia e chi lavora, ma sono pochi e fortunati”.
La lettera si chiude con un’immagine che è difficile da dimenticare:
“In carcere si aspetta sempre qualcosa, il medico, l’agente, l’educatore, il volontario, il pasto, la messa, una lettera. Nella mia sezione ci sono molte persone che passano le giornate sedute di fronte al cancello, se dovessi chiedergli cosa stanno aspettando mi risponderebbero che non lo sanno, oppure risponderebbero, ‘qualche novità’. Voi lo sapete cosa farete tra un anno? Tra quattro mesi? Tra sette anni e un giorno? Non lo sapete. Io so cosa farò ogni giorno della mia vita, per i prossimi vent’anni”.
Sciacca si sbagliava. Ora è un uomo libero, in carcere è riuscito a diplomarsi e sta cercando di iscriversi all’università. Vuole diventare un mediatore e lavorare con i detenuti. Intanto ha trovato un lavoro part time. La notte si sveglia ancora in preda al panico e la prima volta che ha rivisto un bambino gli è sembrato un alieno. Quando beve mordicchia il bicchiere, dopo dieci anni di galera aveva dimenticato la sensazione del vetro sui denti. “La libertà è una cosa complicata”, dice.
Da sapere
- Fuori dell’Italia. Sono oltre dieci milioni i detenuti in tutto il mondo. Negli Stati Uniti sono 2.145.100, in Cina 1.649.804, in Brasile 657.680, in Russia 615.257. In Europa è il Regno Unito il paese con più persone in carcere (86.294), seguito dalla Polonia (73.736) e dalla Francia (70.018).
- Sovraffollamento. I detenuti nelle carceri italiane sono 57.393, mentre i posti regolamentari sono 50.501. Alla fine del 2015 il tasso di sovraffollamento in Puglia superava il 130 per cento. I posti sono calcolati sulla base del criterio di 9 metri quadri per detenuto.
- Morire di carcere. Dal 2000 a oggi nelle galere italiane sono morte 2.695 persone: 974 si sono suicidate. Dall’inizio del 2017 i suicidi sono stati 41.
Da leggere
- Abolire il carcere, diLuigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta.
- Le prigioni degli altri, di Adirano Sofri.
- Maggio selvaggio, di Edoardo Albinati.
- Antigone, di Marianna Marietti e Valerio Chiola.