Sopravvivere al carcere, nonostante il carcere
Nel giro di dodici ore Lorenzo Sciacca è passato dall’essere un rapinatore di banche condannato a decine di anni di carcere all’essere un uomo libero. Nei due anni successivi alla scarcerazione è passato dall’essere un criminale con quasi vent’anni di prigione alle spalle all’essere uno che per lavoro tenta di evitare che le persone facciano casino e finiscano dietro alle sbarre. O che, se ci finiscono, prova a trovare una mediazione tra loro e le vittime.
Sciacca dai quattordici anni ai trenta ha svaligiato più di venti banche. Nel settembre 2017, quando è uscito dopo quasi dieci anni di fila in cella, non si ricordava più la sensazione di bere dell’acqua da un bicchiere di vetro. La versione lunga di quello che gli è successo fino alla scarcerazione è qui. Quella breve, più o meno, può essere riassunta così: Sciacca è nato nel 1976 a Milano mentre il padre era in cella a San Vittore; è cresciuto in un casermone di periferia, poi si è trasferito a Catania, la città dei genitori; lì ha cominciato a compiere piccoli reati, poi sono arrivate le rapine e i primi anni al minorile di Milano; l’adolescenza e l’età adulta sono passate tra furti, soldi, latitanze, automobili di lusso e prigioni, in un continuo entra ed esci.
In cella doveva restarci fino al 2037. Due anni fa il giudice gli ha riconosciuto il reato continuato per 20 rapine su 22 e gli ha ricalcolato gli anni di prigione: da 30 a 19. Ma dieci erano appena passati e gli altri nove anni si riferivano a condanne già scontate. Da un giorno all’altro, senza che se lo aspettasse, Sciacca è stato scarcerato ed è cominciato il secondo atto della sua vita.
Due domande
Se oggi può dire di avercela fatta non è grazie al carcere, come vorrebbe chi chiede pene più severe e più prigioni, ma nonostante il carcere. Fino al giorno della liberazione, il primo atto della sua storia rifletteva quello della crescita spaventosa del carcere in Italia: da trentamila detenuti nel 1990, anno del primo arresto di Sciacca, a quasi sessantamila nel 2017, anno della sua scarcerazione. Oggi i suoi giorni e il suo impegno si intrecciano con quelli di chi cerca alternative più umane e più efficaci al carcere. “Provo a spiegartelo raccontandoti uno dei casi che ci è capitato ultimamente”, dice.
Alto due metri, voce bassa e spalle larghe, riempie lo spazio di una presenza che potrebbe imporsi facilmente sugli altri. Chiedo se gli è utile quando c’è da mettersi in mezzo all’aria incandescente tra chi ha compiuto un reato e chi l’ha subìto. “Aiuta”, dice, “ma più di tutti mi aiuta la mia storia, e quello che ho studiato”. Siede sulla poltrona della casa che ha preso in affitto con la sua compagna nel quartiere Arcella, zona nord di Padova, casette basse, siepi, cani dietro ai cancelli. Due cuccioli di gatto fanno le fusa ai suoi piedi, si rincorrono, giocano con una pallina.
Grazie a dei fondi del comune, l’associazione Granello di senape, che da anni si occupa di giustizia riparativa, ha immaginato insieme a Sciacca e ad altri mediatori un progetto per offrire servizi di mediazione civile e penale. Lavorano tanto con le segnalazioni che gli arrivano dalla polizia locale (“Quando li abbiamo incontrati ci hanno mostrato due scrivanie sommerse da fascicoli – liti tra vicini o automobilisti, cose così – ed erano contenti che qualcuno potesse dargli una mano”), con quelle dei gestori dei condomini e con quelle raccolte attraverso cinque sportelli aperti in città. Ma ricevono anche telefonate dal tribunale di Padova.
“Un giorno ci chiamano perché un magistrato aveva previsto un percorso di mediazione per un ragazzo condannato per rapina. Era entrato nella casa di una signora e l’aveva svaligiata. La signora non c’era, lui era stato subito arrestato. Un caso all’apparenza semplice, ma anche in storie così c’è una dose di violenza e di dolore che agisce sottotraccia e lascia ferite in chi l’ha subita”.
La maggior parte delle vittime finisce per farsi due domande: perché? E perché proprio a me? Nessuna condanna aiuta a darsi delle risposte
Per prima cosa Sciacca e la sua squadra hanno contattato l’avvocato della vittima, perché senza il suo consenso il percorso di mediazione – e possibilmente di riparazione – non comincia nemmeno. Il primo approccio non è mai semplice, perché la cultura che ha formato la nostra visione del mondo non prevede alternative alle manette e alle gabbie, possibilmente lontane dagli occhi – anche se la tendenza ultimamente è quella di un ritorno all’umiliazione sulla pubblica piazza.
“Ma per esperienza ti posso dire che queste soluzioni non bastano”, spiega Sciacca. “La maggior parte delle vittime finisce per farsi sempre le stesse due domande: perché? E perché proprio a me? E nessuna condanna, né civile né penale, né breve né lunga, aiuta le persone che hanno subìto un reato a darsi delle risposte”. Naturalmente, c’è chi non si pone nessun interrogativo; c’è chi si rivolge ad associazioni che riuniscono vittime di reato, “ma in quel caso è come se restasse sempre nel ruolo della vittima”; e c’è chi si fa la domanda e continua a desiderare il carcere per gli altri.
Prima del confronto vero e proprio, i mediatori parlano sia con la vittima sia con l’autore del reato in un incontro preliminare della durata ideale di tre quarti d’ora, “anche se può succedere che durino pure il doppio”, dice Sciacca. In questa occasione sono sempre in due, e insieme costruiscono uno spazio in cui le persone si sentono il più possibile libere di raccontare quello che gli è successo, ma anche le emozioni che hanno vissuto.
Un groviglio di sentimenti
Uno dei due mediatori è empatico, accogliente, spinge chi parla ad aprirsi (usa spesso frasi tipo “Sento che c’è della rabbia, sento che c’è della frustrazione…”). L’altro si presenta come una figura più istituzionale ed è quello che poi parteciperà all’incontro tra le parti. “Quello più empatico, dopo aver sentito il racconto della persona che ha di fronte, la invita a una riflessione più introspettiva, cerca di capire cosa si agita dentro di lei, qual è il mondo che sente di aver perso, perché c’è sempre una perdita”, dice Sciacca. Spesso vengono fuori sentimenti comuni come rabbia, paura, malumore. Ma a volte durante l’incontro si riesce a scavare così tanto che saltano fuori anche cose inaspettate.
“Per esempio, la signora a cui avevano svaligiato la casa insisteva parecchio sul fatto che per lei la cosa più grave non era stato il furto, ma il fatto che i ladri avessero messo le mani nei cassetti del suo armadio. Il furto aveva riaperto una vecchia ferita, causata da un lutto”.
In questo groviglio di paure, la signora continuava a chiedersi perché i ladri avessero scelto casa sua. Era convinta che la conoscessero, che sapessero chi fosse. Poteva essere così, bisognava capirlo incontrando il ragazzo e facendo anche con lui un colloquio preliminare: “All’inizio era reticente, per lui quello era stato solo un furto veloce e senza conseguenze. Via via, è emersa la sua storia, una storia complicata che lo aveva portato a vivere sui divani degli amici e a organizzare il furto dalla signora”.
L’incontro tra i due non è stato semplice. Secondo la prassi, sono arrivati al centro gestito da Sciacca e dai suoi colleghi da due ingressi diversi, così da non incontrarsi prima. Dentro c’erano tre mediatori: quello istituzionale che aveva partecipato a entrambi gli incontri e che alla fine avrebbe tirato le fila; e altri due, che anche in questo caso hanno fatto da magneti per le emozioni.
La parola è stata data alla signora e poi è passata al ragazzo. Entrambi sono stati invitati a rivolgersi ai mediatori e non l’una all’altro. Era come se le loro voci arrivassero da due pianeti diversi e pretendessero che l’altro sentisse e capisse. Non succedeva, non succede quasi mai all’inizio. È a quel punto che interviene uno dei mediatori più empatici. “Fa il primo ‘sentito’”, spiega Sciacca, “sceglie una delle due parti e dice ‘Ho sentito che nel tuo racconto c’è della rabbia, o della paura, e così via’”. Piano piano porta il discorso dai fatti alle tracce che questi fatti hanno lasciato sui nervi, l’umore e i ricordi delle persone coinvolte, che ora si rivolgono sguardi e parole.
In quel caso, la signora ha descritto il senso di violazione e di insicurezza provato dopo aver scoperto che qualcuno avesse frugato tra le sue cose. Il ragazzo ha sgranato gli occhi, ha spiegato alla signora che non aveva messo in conto niente del genere e che la scelta della sua casa come obiettivo era totalmente dovuta al caso. La signora ha ascoltato i motivi che avevano spinto il ragazzo a compiere il furto, pezzi della sua vita e delle sue giornate storte, e ha detto di capire.
“Non giustificava il reato, ma si è sentita sollevata quando ha scoperto che dietro il furto non c’era qualcosa di personale contro di lei”, ricorda Sciacca, “e poi quello che aveva vissuto il ragazzo non l’aveva lasciata indifferente”. A quel punto era il caso di capire se ci fosse la possibilità di una riparazione.
Le forme possono essere le più diverse. “Per esempio il ragazzo aveva proposto alla signora di aiutarla in qualche lavoro di casa”, dice Sciacca. La signora ha ringraziato ma ha rifiutato. Il ragazzo ha capito e i due si sono salutati. “La riparazione è un passaggio che non sempre avviene, ma i due avevano comunque ottenuto qualcosa: la signora non temeva più di essere nel mirino di ladri o di persone che la conoscevano e che l’avevano presa di mira, il ragazzo ha riflettuto sul suo reato e su quanto dolore avesse causato. Ecco, la mediazione serve a questo: dà un senso sia a chi sta fuori sia a chi sta dentro, provando tra l’altro a fare in modo che una volta uscito non commetta lo stesso errore”.
Alternative
Quello che Sciacca non si stanca di ripetere è che ogni caso è una storia a sé. C’è la coppia di anziani che impazzisce per via delle feste e dei rumori fatti dagli universitari al piano di sopra: oggi gli studenti si tolgono le scarpe quando entrano in casa, si sono dati orari che rispettano il sonno dei loro vicini e in cambio marito e moglie sono andati a far dei lavoretti in casa loro. E c’è la donna che si scontra con i vicini: “Li accusava di buttare le bottiglie di vetro nel secchio senza preoccuparsi del rumore che facevano a tutte le ore. Avevamo cominciato l’iter, poi però i vicini si sono trasferiti e non c’è stato bisogno di un incontro di mediazione”.
Il filo rosso che lega tutte queste storie è il bisogno di ascolto e confronto tra le persone. “Che l’ascolto fosse centrale è stata la prima cosa che ci ha insegnato Adolfo Ceretti quando veniva in carcere a tenere dei corsi sulla mediazione”, racconta Sciacca.
Ceretti è docente di criminologia all’università di Milano, e tra i suoi saggi c’è anche Il libro dell’incontro, un’esperienza abbastanza unica sia nell’editoria sia nella storia italiana. Curato con Guido Bertagna e Claudia Mazzucato, racconta il percorso di avvicinamento e di dialogo tra alcuni responsabili e alcune vittime della violenza armata degli anni settanta. “È un libro fondamentale”, dice Sciacca, “perché propone un modello alternativo, efficace e realistico alla giustizia fatta solo di manette e sbarre”.
Questo “modello di giustizia penale si fonda su una concezione del reato quale lesione dei diritti della persona offesa, prima (e oltre) che come offesa nei confronti dello Stato”, scrivono Luigi Manconi e Stefano Anastasia nella postfazione del Libro dell’incontro. “Non, ovviamente, per derubricare il reato ad affare privato da cui lo stato si chiama fuori, ma per impegnarlo a riconoscere le istanze concrete delle parti di quel conflitto, rendendosi garante della loro composizione”. Significa rendere più umani il diritto e i processi. “Il fine riparativo e, possibilmente, conciliativo è realizzato con una pluralità di istituti quali restituzioni, risarcimenti del danno, programmi conciliativi vittima-reo, lavori di pubblica utilità”.
La direttiva europea numero 29 del 2012 ha stabilito che la giustizia riparativa sia uno degli obiettivi dei paesi membri dell’Unione europea. È un passo importante, perché aiuta a sovvertire “l’idea tradizionale secondo cui al male inferto (con il reato) debba corrispondere necessariamente ed esclusivamente un male sofferto (dall’autore)”.
La riparazione
“Quando io sono uscito dal Due Palazzi di Padova non avevo niente se non queste lezioni e il grande aiuto che mi aveva dato il gruppo di Ristretti orizzonti”, dice Sciacca. Studiare, partecipare agli incontri con gli studenti, fare ogni giorno un giornale, imparare un mestiere lo ha tirato su dal pozzo nero della galera. È quello che succede anche ad altri quando le porte si aprono e si immaginano delle alternative alle giornate spese in una gabbia, in tanti casi addolcite e intontite da antidepressivi o ansiolitici, oppure avvelenate da umori neri e rabbia, trascorse nell’incoscienza o nella negazione di quello che si è fatto e che nessuno aiuterà a capire.
“Eppure sono sempre di più i rapporti che spiegano che un carcere diverso, più aperto e più attento alla funzione del reinserimento sociale di chi ha sbagliato, renderebbe tutti noi più sicuri”, dice Sciacca. Una delle ultime ricerche che lo dimostra è quella condotta dagli studiosi Filippo Giordano, Francesco Perrini e Delia Langer. Si intitola Creare valore con la cultura in carcere ed è stata condotta a San Vittore, a Opera e a Bollate.
Vi si legge che il 78,3 per cento delle 180 iniziative organizzate nel 2017 in queste tre carceri di Milano è stato realizzato grazie ad associazioni e persone che non fanno parte dell’amministrazione penitenziaria. Il budget è stato di tre milioni di euro, in gran parte arrivati dal finanziamento pubblico. I volontari che hanno dato una mano ai 238 operatori coinvolti sono stati 619. Insieme hanno creato un sistema in cui si sono registrati “l’aumento della consapevolezza di sé, la riduzione della solitudine, la maggiore distensione nel rapporto con gli agenti, il miglioramento dei rapporti con i familiari e della relazione tra carcere e territorio, in alcuni casi l’occasione di retribuzione e avviamento a lavoro”.
In un carcere chiuso più del 68 per cento dei reclusi, una volta fuori, commette nuovi delitti. La percentuale scende al 19 per cento tra chi è affidato in prova ai servizi sociali, si legge in uno studio curato dall’osservatorio delle misure alternative. È vero che, come precisano gli autori, “le persone ammesse alle misure alternative sono ‘selezionate’ con un’attenzione all’affidabilità, una sorta di scrematura che abbassa, almeno in teoria, la possibilità che le stesse persone commettano nuovi reati”. Ma è vero anche che in tanti altri casi i detenuti non riescono a partecipare a nessun progetto non perché siano criminali pericolosi – al contrario: gli assassini, i mafiosi e i trafficanti di droga sono a malapena il dieci per cento del totale dei detenuti – ma perché sono abbandonati a se stessi, senza avvocati, familiari o una qualsiasi rete che li ripeschi prima che affoghino nella galera.
“Noi siamo una maglia di questa rete”, dice Sciacca. Prima di salutarci mi dà un volantino. È uno di quelli che lui e gli altri mediatori lasciano in giro a Padova per farsi conoscere e raccontare cosa fanno. Sulla prima pagina c’è l’immagine di un vaso rotto e riparato. Richiama la pratica giapponese del kintsugi, ovvero l’arte di rincollare i pezzi di qualcosa che è andato in frantumi usando l’oro o l’argento fuso. È una metafora che non ha bisogno di tante spiegazioni.
Le immagini di questo articolo fanno parte del progetto In transito. Un porto a San Vittore del fotografo Nanni Fontana, che dal 2017 documenta le attività dei detenuti del reparto La nave del carcere di San Vittore a Milano. Nata nel 2002, La nave è una sezione speciale, con celle aperte per dodici ore, dove i detenuti svolgono attività psicoterapeutiche, lezioni sulla legalità e sulle dipendenze, partecipano a gruppi di scrittura, lettura, musica e teatro.
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