I giovani di Tunisi cercano un’alternativa all’emigrazione
È un caldo pomeriggio di fine estate a Tunisi, i motorini sfrecciano e gli abitanti si preparano alla settimana dell’Eid al adha, la seconda festa più importante nel mondo islamico. Le famiglie si riuniscono e l’ultimo giorno, il lunedì, sacrificano l’agnello appena acquistato. Siamo nel quartiere popolare di Beb Jadid. Meher, Ghaieth e Ali sono seduti su un vecchio divano che una volta doveva essere di un rosso vivace. Si accendono una sigaretta mentre guardano distrattamente la tv. Dalla piccola finestra entra un fascio di luce che colpisce il tavolino al centro della stanza, pieno di briciole del pranzo. Polpette di carne con salsa harissa.
“Voglio partire, tutto è meglio della Tunisia”. Ali ha 23 anni, un ciuffo che gli copre gli occhi e due tatuaggi sulle braccia. “Vorrei partire come tutti i ragazzi del quartiere per vedere cosa c’è in Italia. Anche se rischio di morire o di andare in carcere, è sempre meglio che stare qui a non fare niente”, mi dice allacciandosi le scarpe da ginnastica bianche all’ultima moda.
Beb Jadid, alle spalle della medina, è uno dei quartieri più poveri di Tunisi, un luogo da dove molti mariti e figli sono partiti per l’Europa, in particolare per l’Italia. “La maggior parte dei ragazzi che se ne va ha avuto problemi con la legge, ma parliamo solo di uno spinello o di qualche cartina”, racconta Imed Soltani. Il codice penale tunisino ha 103 anni e l’unica piccola modifica risale al 1964. “Per reati del genere si può rimanere in carcere anche un anno, trascorso il quale non c’è nessuna forma di riabilitazione o reinserimento. Anzi…”, precisa Soltani. Oltre a essere il rappresentante dell’associazione Terre pour tous, che riunisce i familiari dei ragazzi tunisini scomparsi, sta cercando di fare in modo che i giovani non salgano più sul bateau de la mort, la barca della morte.
Nonostante la primavera araba abbia garantito una libertà prima impensabile, in Tunisia il lavoro scarseggia e le istituzioni continuano a essere lontane dai cittadini, soprattutto dai giovani. Dopo gli attentati del 2015, il turismo, che era il motore dell’economia tunisina, fatica a ripartire e i vicoli del suq della medina, tra cui un tempo non si riusciva a camminare per la folla di turisti, ora sono vuoti e i souvenir restano invenduti.
Oltre che per la mancanza di lavoro e di qualsiasi politica che porti a un cambio di rotta, Imed è preoccupato per il rapporto con gli agenti di polizia che “tendono a impaurire la gente e hanno un atteggiamento prepotente, perché l’apparato è rimasto lo stesso che c’era sotto Ben Ali. L’unica differenza è che oggi si può controbattere, mentre una volta non c’era libertà di parola”.
Il primo giorno del nostro arrivo a Tunisi, mentre camminavamo per le vie del centro, due poliziotti in borghese hanno fermato Imed e dopo mille domande l’hanno condotto in un ufficio della polizia. Erano tutti alti, vestiti in borghese e con una radiolina all’orecchio. Come ci ha spiegato il loro capo, un poliziotto sulla cinquantina con cui siamo riusciti a comunicare in francese, i poliziotti erano lì per controllare che noi turisti non fossimo truffati.
Gli abbiamo spiegato che Imed è un amico che abbiamo conosciuto già in Italia, ma ci hanno condotto fuori dello stanzino dove cinque persone lo stavano interrogando con toni piuttosto accesi. “Questo è uno dei motivi per cui i giovani se ne vanno: li perseguitano, finiscono in carcere e da lì non possono più ricominciare”, ci ha poi detto Imed.
I ragazzi dei quartieri poveri, dopo essere stati in carcere, sono esclusi dal mondo del lavoro
La persecuzione ha sfumature più o meno intense. Prima di un’assunzione, ogni datore di lavoro richiede la betrua, una specie di documento con cui si attesta di avere la fedina penale pulita, che in Tunisia è un requisito indispensabile per trovare un impiego. I ragazzi dei quartieri più poveri, dopo essere stati in carcere, sono totalmente esclusi dal mondo del lavoro e l’unica cosa che gli resta è partire. “Lavoravo come guardiano di un palazzo. Un giorno è arrivata la polizia e mi ha chiesto la betrua, che naturalmente non avevo. Mi hanno detto che se fossi tornato a lavorare mi avrebbero rispedito in prigione”, racconta Ali nel salotto di casa sua.
Prima del carcere aveva cercato lavoro in un ristorante, ma non gli avevano fatto fare nemmeno il colloquio a causa dei tatuaggi sul braccio. Ora se ne sta in casa, va in giro con i suoi amici e aspetta che la madre torni dal lavoro. Quando Mehra rientra, siamo ancora seduti intorno al tavolo pieno di briciole.
“Vado a fare le pulizie ogni giorno in un ufficio pubblico dalle cinque di mattina alle due di pomeriggio e così mantengo anche Ali. Dopo quello che è successo con la polizia preferisco così, non voglio che se ne vada anche lui”, racconta la donna. Nel 2011 è partito il suo primo figlio, il fratello maggiore di Ali. Se n’è andato una notte di fine marzo da Biserta, una città costiera del nord da cui partono i barconi diretti in Italia. Da allora non hanno più avuto sue notizie.
I segni sul corpo
Ghaieth, invece, sta guardando la televisione e continua a girare il cappellino blu che porta in testa. Ha 24 anni e, dopo aver lavorato come cameriere all’aeroporto di Tunisi, è entrato e uscito dal carcere cinque volte: cartine, sigarette buttate per terra, uno spinello l’ultima volta. Anche lui ha dei tatuaggi, quattro tra gambe e braccia.
Mentre parliamo, noto che il disegno tatuato sul braccio sinistro è coperto da una serie di cheloidi che sembrano graffi, quasi avesse voluto cancellarlo. “No, non volevo cancellarlo… È successo appena uscito di prigione, ho preso un coltello e l’ho fatto da solo”, dice Ghaieth con quel poco di francese che parla.
Come mi spiegherà in un secondo momento l’attivista Mohamed Khari Jaballah, la maggior parte di questi ragazzi assume farmaci antipsicotropi, che accentuano la sensazione di nervosismo e frustrazione. Quando sono sotto il loro effetto, l’esasperazione li porta a ferirsi da soli con gli oggetti che hanno sottomano, un paletto, un coltello, un paio di forbici. Succede a casa o in carcere. Come a Ghaieth. Mentre parlo con lui, noto che Ali e Meher hanno gli stessi graffi sui polpacci. I loro corpi sono segnati dalla frustrazione e dall’emarginazione.
Insieme a un’altra quindicina di ragazzi, i tre formano il gruppo che Imed sta cercando di convincere a non partire. “Non posso dirgli di non partire, e basta. Non è sufficiente parlare delle morti, delle sparizioni: bisogna dargli un’alternativa basata su cose concrete”. Imed, che nella vita continua a riparare motorini, sogna che i ragazzi del suo quartiere, gli amici dei suoi figli, non se ne vadano più. E non muoiano più. “Il primo passo è ripulire la loro betrua: il processo richiede un po’ di tempo ma è l’unico strumento per fare in modo che non restino totalmente esclusi dalle poche opportunità di lavoro che ci sono in questo momento”.
Poi, spiega cercando conferme negli sguardi persi dei ragazzi, “vogliamo organizzare dei corsi, per esempio, per diventare meccanico o barista, e proseguire con il teatro d’integrazione su cui abbiamo lavorato di recente”.
I fondi per queste attività arrivano dal governo o dalle organizzazioni internazionali: l’iniziativa teatrale messa in piedi da Imed è sostenuta dal progetto Salemm dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, per favorire l’integrazione sociale dei giovani nordafricani.
Le cose che dicono al telegiornale non possono essere vere: lui vede solo tunisini che tornano dall’Italia con belle macchine
Anche Meher, che si dondola su una sedia traballante, ha partecipato al laboratorio teatrale, ma non ha voglia di parlarne. Ha mangiato poco, è alla quarta sigaretta e non vuole saperne di entrare nel gruppo di Imed. Lui vuole andarsene. “Almeno in Europa c’è una possibilità e io voglio provarci, sono partiti tutti da qui. Il viaggio è caro, 2.500 dinari (circa mille euro) e per avere questi soldi rischierò il carcere almeno quattro o cinque volte rubando, spacciando, facendo tutto quello che posso fare”.
Meher sembra impaziente, continua a farmi domande sull’Italia perché le cose che dicono al telegiornale non possono essere vere: lui vede solo tunisini che tornano dall’Italia con belle macchine, che riescono ad avere tante donne e ad aprire dei ristoranti. “Pensa che una volta”, mi racconta, “avevo trovato un modo per partire pagando un po’ meno, ma comunque non avevo abbastanza soldi e sono andato a casa di mio padre per chiederglieli. Lui ha risposto che non me li avrebbe dati, così ho fatto chiamare un amico con un camioncino e gli ho portato via i mobili di casa per rivenderli”. A questo punto i ragazzi scoppiano a ridere e cominciano a parlare tra loro in arabo.
“Questa generazione, soprattutto i maschi, ha un problema culturale molto forte”, osserva Imed. “I ragazzi non pensano che valga la pena di lavorare per 300 dinari al mese (circa 120 euro) che, se da un lato è una miseria, dall’altro è sempre meglio che non fare nulla e continuare a vivere nell’emarginazione. Loro vogliono tutto e subito, come quelli che partono per l’Europa e ritornano ricchi, magari spacciando droga”. Manca un sistema dell’istruzione che si faccia carico di questi giovani poveri e isolati da una comunità che di per sé è già molto debole.
Usciamo con i ragazzi e quando arriviamo in piazza ne troviamo almeno un’altra quindicina. Non vanno a scuola. “Tanto non serve, potrei avere anche due diplomi ma qui non funziona così”, mi dice un ragazzo che avrà appena quindici anni. “Non sarà semplice, ma qualcosa possiamo fare, a piccoli passi”, osserva Imed. Le persone per strada stanno rientrando nelle loro case, alcune portano con loro l’agnello appena comprato. Il sole è calato all’orizzonte, nel cielo rosa e azzurro di Tunisi, e dalla moschea parte il richiamo alla preghiera serale.