Taiwan, l’isola che non c’è
La definizione più calzante di Taiwan, la piccola isola subtropicale che si trova di fronte alla costa sudorientale della Cina, l’ha data Giorgio Manganelli nel resoconto del viaggio che fece lì nel 1988 per girare un documentario: “Giuridicamente quanto di più prossimo alla non esistenza sia possibile”, l’isola che non c’è. Una nazione di 23 milioni di persone governate da una democrazia piena e di fatto, Taiwan sulla carta esiste come tale solo per una manciata di paesi, piccoli, poveri (tranne il Vaticano) e sempre più nel radar di Pechino, che non ha nemmeno bisogno di corteggiarli troppo: quando vuole, può arrivare e comprarseli.
L’ultimo a capitolare è stato El Salvador, che lo scorso agosto ha detto addio a Taipei per avviare relazioni diplomatiche con la Repubblica popolare cinese. Dall’elezione nel 2016 della presidente Tsai Ing-wen, del filoindipendentista Partito progressista democratico (Dpp), invisa a Pechino, l’emorragia di paesi amici si è aggravata e in cinque sono passati dall’altra parte dello stretto di Formosa (Panama, São Tomé e Príncipe, Burkina Faso e Repubblica Dominicana hanno interrotto i rapporti ufficiali con Taiwan prima di El Salvador). Da sessant’anni Taiwan è “l’altra Cina”, quella dei nazionalisti di Chiang Kai-shek che qui ripararono nel 1949 sconfitti dai comunisti guidati da Mao Zedong, e dal 1971, quando perse il seggio alle Nazioni Unite assegnato alla Repubblica popolare cinese, si giostra nell’ambiguità di uno status indefinito: la Cina è una sola, ma quale delle due?
L’altra versione della storia
Taiwan è l’esemplificazione in miniatura di come sarebbero potute andare le cose se la guerra civile l’avesse vinta Chiang Kai-shek invece di Mao. Con le dovute differenze, senza i sessant’anni di guida comunista, la Cina oggi potrebbe essere qualcosa di simile a quest’isola nel mar Cinese meridionale.
La coesistenza di Cina e Taiwan sembra il frutto di un esperimento d’ingegneria politica, la realizzazione di qualcosa che di solito ci è dato di vedere solo al cinema e che visitando l’isola si ha la sensazione di avere sotto gli occhi: è l’altra versione della storia se la storia avesse preso una piega diversa. Questo, ovviamente, generalizzando.
Le variabili che hanno reso Taiwan quel che è sono diverse e uniche, a cominciare dall’insularità, dalle dimensioni e da cinquant’anni di dominio giapponese, ma è pur sempre un paese abitato da cinesi che parlano il mandarino e condividono le radici culturali che i vicini continentali stanno riscoprendo.
La presenza a Taipei di una delle più importanti collezioni d’arte classica e moderna cinese, portata via da Pechino dai nazionalisti in ritirata, è, come osservava Manganelli, anche una bandiera politica, grazie a cui Taiwan può dire di custodire il meglio di ottomila anni di storia cinese. Dopo l’invasione della Manciuria da parte dell’esercito giapponese, nel 1931, Chiang Kai-shek fece imballare e mettere al sicuro i pezzi più preziosi del museo della Città proibita che poi, nel 1949, finirono a Formosa.
In un giorno qualsiasi della settimana, il National palace museum è affollato come la metropolitana all’ora di punta: gruppi di turisti della Cina continentale in pellegrinaggio per vedere le meravigliose statue di terracotta di epoca Tang (tra il settimo e decimo secolo), la serie infinita di giade, ceramiche, suppellettili e oggetti della vita quotidiana delle corti imperiali riportate in voga negli ultimi tempi da varie saghe televisive di grande successo in Cina.
L’atteggiamento dei cinesi in visita nella “provincia ribelle” – come la chiama Pechino – è, almeno così ci dicono, un po’ arrogante. Sarà forse per la fondamentale differenza di indole che traspare dal modo di parlare e che all’osservatore straniero abituato ai cinesi del continente salta agli occhi come lo scarto più evidente: ci sono una compostezza, una cortesia e una pacatezza nel modo di parlare dei taiwanesi che non trovano corrispondenza nei modi più spicci, sbrigativi e senza moine al di là dello stretto. Modi dovuti forse all’influenza giapponese, evidente anche in altri aspetti della “taiwanesità”, oltre al carattere vagamente dimesso che può avere un popolo abituato ad avere il fiato sul collo di un vicino ingombrante.
La firma del memorandum d’intesa tra Roma e Pechino sulla Nuova via della seta ovviamente non è piaciuta granché a Taiwan
Il rapporto speciale che i taiwanesi hanno con il Giappone meriterebbe un approfondimento per la sua unicità nella regione, dove le ferite del periodo imperialista nipponico sono ancora aperte. Rispetto ai cinquant’anni di dominio coloniale – il Giappone annesse l’isola nel 1895 con il trattato di Shimonoseki, al termine della prima guerra sinogiapponese, e la perse dopo la seconda guerra mondiale – tra i taiwanesi prevale la riconoscenza per lo sviluppo – scolarizzazione, infrastrutture e industrie – portato sull’isola dai giapponesi. È indubbio, poi, che con l’arcipelago nipponico, dal dopoguerra governato quasi ininterrottamente dai conservatori del Partito liberaldemocratico sotto l’ala statunitense, ci sia anche un’affinità ideologica, derivante dal fatto di essere storicamente entrambi parte di un fronte anticomunista.
Dal 1972, quando ha avviato le relazioni diplomatiche con Pechino, il Giappone mantiene i rapporti con Taiwan attraverso canali non diplomatici – commercio, turismo e cultura – diventati un modello seguito anche da Washington e da Roma. “L’Italia riconosce esclusivamente la Repubblica popolare come unica entità statuale della Cina”, spiega Davide Giglio, da gennaio direttore dell’ufficio italiano per la promozione economica, commerciale e culturale a Taipei, “ma porta avanti con l’isola rapporti non diplomatici, prevalentemente nel campo economico e commerciale – è il quinto partner commerciale di Taiwan tra i paesi dell’Unione europea – avvalendosi anche dell’attività di un gruppo di amicizia parlamentare”. La firma del memorandum d’intesa tra Roma e Pechino sulla Nuova via della seta ovviamente non è piaciuta granché a Taiwan. “Com’è possibile che uno dei paesi fondatori dell’Unione europea si leghi alla Cina andando contro i princìpi dell’Unione stessa?”, ci chiede Chen Ming-chi, il viceministro taiwanese degli affari con la Cina continentale, quando lo incontriamo a Taipei.
Il peso dell’identità
Stando a un sondaggio con cui periodicamente l’università Chengchi di Taipei tasta il polso ai taiwanesi e registra la percezione che hanno della loro identità, più della metà degli intervistati si definisce “taiwanese”, il 34 per cento “cinese-taiwanese” e solo il 3 per cento si dice genericamente “cinese”. La questione dell’identità negli anni ha assunto importanza, soprattutto come reazione alla crescente assertività di Pechino. Secondo lo stesso sondaggio, infatti, nel 1992 solo il 17 per cento degli intervistati si definiva esclusivamente taiwanese.
Tratto distintivo della taiwanesità è una sorta di ossessione, perfettamente comprensibile, per la democrazia, termine che ricorre sempre nei discorsi delle persone che incontriamo ed elemento fondamentale per marcare la differenza rispetto alla Repubblica popolare. “A Taiwan la percentuale di persone che si dicono ‘molto soddisfatte’ della democrazia è particolarmente elevato rispetto ad altri paesi dove i cittadini riconoscono più facilmente i limiti del sistema”, spiega Ketty Chen, vicepresidente della Taiwan foundation for democracy, un think tank di Taipei vicino al Dpp.
Tutto questo non si traduce però in un rafforzamento della spinta indipendentista tra la popolazione. La vittoria nel 2016 di Tsai Ing-wen e del Partito progressista democratico, tradizionalmente a favore dell’indipendenza da Pechino, è stata infatti il prodotto di una serie di concause tra cui la perdita di fiducia nei confronti del presidente di allora, Ma Ying-jeou, del Kuomintang, che nel corso di due mandati non era stato in grado di stimolare l’economia affaticata del paese. L’ascesa di Tsai e il successo del Dpp alle elezioni locali del 2014 e alle presidenziali del 2016, sono arrivati sull’onda del movimento del Girasole, una protesta durata tre mesi, la più lunga nella storia del paese, guidata dagli studenti e culminata con l’occupazione del parlamento e della sede del ramo esecutivo del governo.
I manifestanti protestavano per un accordo economico commerciale con Pechino firmato da Ma, filocinese, che temevano avrebbe consegnato Taiwan nelle mani della Cina. La mancata ratifica del trattato da parte del parlamento e la sconfitta del Kuomintang sono due conseguenze di quelle proteste. A distanza di cinque anni che ne è del movimento?
“Molti leader delle proteste del 2014 sono entrati in politica“, ci spiega Brian Hioe, giornalista che ha partecipato al movimento e che in quei mesi caldi del 2014 ha fondato il sito di notizie e analisi New Bloom, oggi una delle poche fonti anglofone indipendenti del paese. Lo incontriamo una sera di inizio aprile sul terrazzo di una trattoria ai margini del parco Daan, a Taipei. “Alcuni hanno fondato il New power party che, pur essendo piccolo – ha cinque deputati e 16 consiglieri locali – è già il terzo partito del paese, e altri sono entrati nel Dpp”, racconta. “Le reti nate nei mesi di mobilitazione esistono ancora, ma se oggi gli organizzatori di quel movimento lanciassero nuove azioni di protesta non escludo che i taiwanesi risponderebbero in maniera più fredda”, dice Hioe confermando che l’aria è cambiata.
L’onda populista
Alla Smart city expo di fine marzo a Taipei, nello stand di Kaohsiung, la terza città del paese, i visitatori sono accolti da un cartonato con la versione manga del sindaco Han Kuo-yu. Eletto a sorpresa lo scorso novembre nelle file del Kuomintang nonostante Kaohsiung fosse una roccaforte del Dpp, Han è il probabile candidato populista alle presidenziali del 2020. Populista alla Donald Trump, o alla Rodrigo Duterte, per non andare troppo lontano, che si lascia andare a battute sessiste e razziste salvo poi scusarsi. Populista e molto popolare – nell’isola si parla già di Han wave (l’onda di Han) – corteggiato dai filocinesi dell’isola, Han il 23 aprile si è detto pronto a correre, e non è difficile immaginare quanto la sua candidatura sia gradita a Pechino. Diversi giornalisti e osservatori con cui parliamo, non senza rammarico, concordano: se sarà lui il candidato presidente sbaraglierà tutti.
L’ipotesi di “un paese due sistemi” come a Hong Kong è un incubo per i taiwanesi
A Kaohsiung ha vinto promettendo di portare più commercio e turismo dalla Cina continentale ed è probabile che in un’eventuale campagna presidenziale proporrà la stessa ricetta per spingere un’economia che, nonostante gli sforzi di Tsai Ing-wen nei suoi tre anni di presidenza, fatica a emanciparsi da Pechino. Eppure il movimento del Girasole era nato proprio dal timore che un legame economico troppo stretto con la Cina potesse spingere l’isola tra le sue braccia. In realtà alla maggioranza dei taiwanesi sta bene continuare a vivere nell’ambiguità dello status quo: né forzare la mano con istanze indipendentiste che, per come sono oggi gli equilibri di potere, sarebbero solo il preambolo della stretta mortale della Cina, né spalancare le porte ai cinesi vedendo sgretolarsi poco a poco la propria identità e le libertà acquisite.
Ma mentre i nazionalisti del Kuomintang vogliono continuare a giocare sulle diverse interpretazioni del “consenso del 1992” sulla sovranità di Taiwan – alla base dell’idea che esista una sola Cina – il Dpp della presidente Tsai non lo riconosce. Nel suo discorso di capodanno, Tsai ha elencato le esigenze di Taipei: Pechino deve riconoscere l’esistenza di Taiwan, rispettarne la libertà e la democrazia, avere con l’isola rapporti pacifici e alla pari e comunicare attraverso canali ufficiali e autorizzati. Ma Xi, per il quale l’idea di una Cina unita fa parte del “sogno cinese”, ha risposto auspicando per Taiwan una soluzione hongkonghese: “Un paese, due sistemi”. Un incubo per i taiwanesi dato che l’erosione delle libertà a Hong Kong è sotto gli occhi di tutti.
La pesante sconfitta dei progressisti democratici alle amministrative dello scorso novembre, più che una conferma della volontà della maggioranza dei taiwanesi di correre tra le braccia della Cina è stata il frutto della delusione dell’elettorato per una serie di riforme impopolari (quella delle pensioni su tutte) decise da Tsai. Il Dpp ha ricevuto una doccia fredda anche rispetto a una serie di quesiti referendari con cui gli elettori sono stati chiamati a esprimersi su questioni come i matrimoni omosessuali, l’energia nucleare o l’opportunità che la squadra olimpica taiwanese sfili con il nome di Taiwan invece che continuare a usare la denominazione di compromesso “Taipei cinese”.
Istanze respinte, e Tsai Ing-wen ha recepito il messaggio lasciando la leadership del partito subito dopo la sconfitta. Ora però sembra che aver fatto la voce grossa con Xi Jinping abbia pagato, e i consensi sono risaliti abbastanza da convincerla a ricandidarsi nel 2020. Non è la sola nel suo partito e alle primarie dovrà vedersela con il suo ex primo ministro, William Lai, indipendentista convinto, che forse sarà penalizzato proprio per il suo radicalismo.
Chiamata divina
Il campo delle primarie del Kuomintang, se alla fine Han parteciperà, si annuncia affollato dopo che Terry Gou, il fondatore della Foxconn, un uomo con un patrimonio personale da sette miliardi di dollari, il 17 aprile ha annunciato la sua candidatura. Gou è uno dei grandi imprenditori taiwanesi che hanno fatto fortuna sull’altra sponda dello stretto e dà lavoro a più di un milione di persone, la maggior parte nelle fabbriche in Cina, dove per conto della Apple vengono assemblati gli iPhone. Al di là degli scambi commerciali (la Cina è il primo importatore di prodotti taiwanesi), il legame economico con il continente passa anche per figure come Gou.
Prima dell’annuncio a sorpresa giustificato da una chiamata divina (Gou ha detto di aver sognato Mazu, una dea protettrice dei navigatori molto popolare sull’isola e nella provincia cinese del Fujian, al di là dello stretto, che gli ha chiesto di candidarsi “per migliorare l’economia e i rapporti con Pechino”), si diceva che il capo della Foxconn avesse intenzione di rilevare il quotidiano dichiaratamente filodemocratico Apple Daily, che come tutti i giornali è in difficoltà economiche.
In un settore che qui come nel resto del mondo è in grossa crisi, l’intervento di imprenditori legati alla Cina per salvare giornali o emittenti tv è cruciale per la loro sopravvivenza ma letale per l’informazione, “ormai quasi totalmente influenzata da Pechino”, ci dice il viceministro per gli affari con la Cina continentale Chen Ming-chi. Mentre ci spiega la gravità della situazione, Chen cita un episodio appena accaduto a Roma, dove a margine dell’incontro di Xi Jinping e Sergio Mattarella al Quirinale l’addetto stampa dell’ambasciata cinese ha intimato a brutto muso alla giornalista del Foglio Giulia Pompili di “smettere di parlare male della Cina”. Il viceministro spiega che proteste e intimidazioni provenienti da Pechino fanno parte della quotidianità dei giornalisti taiwanesi, ma che la minaccia più seria arriva dai soldi di imprenditori come Gou usati per influenzare l’informazione sull’isola e dalle fake news create ad arte dalla Cina per inquinare il dibattito pubblico.
“Nonostante l’entrata in gara di Gou, l’attenzione dei mezzi d’informazione rimane concentrata su Han”, ci dice Brian Hioe, che raggiungiamo al telefono da Roma per un commento sugli ultimi sviluppi della campagna presidenziale mentre è impegnato a seguire una manifestazione antinucleare a Taipei.
“Dopo molte discussioni, il Kuomintang ha deciso di arruolare Han per le primarie, ed era quello che lui probabilmente sperava per non apparire troppo ambizioso con un’autocandidatura. Dopotutto rimane un sindaco alle prime armi, troppa intraprendenza gli avrebbe attirato critiche. Quanto a Gou, ha agito troppo tardi, avrebbe dovuto farsi avanti prima in modo da prevenire l’avanzata della Han wave”. Ma alle elezioni mancano ancora nove mesi, e molto può cambiare. “Non so se andremo davvero incontro a una presidenza filo-Pechino. Tutto sommato, anche se rimane popolare, Han sta perdendo consenso e probabilmente è il segnale che tutta l’attenzione favorevole che ha ricevuto dalla stampa è stata eccessiva e ha messo in evidenza l’annosa questione dell’obiettività dei mezzi d’informazione taiwanesi, che agiscono ormai da piattaforme della propaganda dei rispettivi campi politici”.
Un posto nel mondo
Come fa a garantirsi un posto nel mondo un paese che, pur essendo la 22° economia al livello globale, sulla carta non esiste che per un pugno di alleati? Nei decenni, Taiwan, in alcuni casi elargendo aiuti allo sviluppo, si è costruita una schiera di paesi amici o “like-minded” che intercedono in suo favore nei consessi internazionali, ne difendono la causa e rivendicano il suo diritto a far parte della comunità globale. All’assemblea annuale dell’Organizzazione mondiale della sanità in programma a fine maggio a Ginevra, Taiwan rischia per il terzo anno consecutivo di non essere invitata come osservatore perché Pechino dal 2016, il primo anno della presidenza Tsai, mette il veto alla sua partecipazione, fino ad allora rinnovata ogni anno dal 2009. “Il portavoce dell’Oms ci ha fatto sapere che gli inviti negli anni precedenti erano stati legati all’intesa tra le due sponde dello stretto e dato che tale intesa non c’è più, non possono invitarci”, ci spiega Bob Chen, direttore generale del dipartimento per le organizzazioni internazionali del ministero degli esteri di Taipei. Le autorità taiwanesi vogliono evitare che l’esclusione dall’Oms, l’organismo internazionale più importante di cui Taiwan faceva parte fino a tre anni fa, diventi la normalità.
Non poter partecipare all’assemblea come osservatore significa essere esclusi dai meccanismi di raccolta e condivisione dei dati, dai protocolli e dalle pratiche comuni e, quando si tratta di epidemie come quella di Sars del 2003 o di influenza e morbillo più di recente, può rivelarsi controproducente per tutti. “Come nel resto del mondo, anche qui stanno prendendo piede i no vax, gli antivaccinisti, sono piccoli gruppi ma ci sono”, ci spiega Yi Chun-lo, che si occupa di prevenzione al ministero della salute. “Il rischio è che Taiwan, non potendo condividere i suoi dati con gli altri paesi e non avendo accesso alle informazioni che circolano all’interno dell’Oms, diventi una falla nel sistema internazionale di lotta alle epidemie”. Taipei cerca l’appoggio di altri paesi nella sua richiesta di essere riammessa come osservatore facendo leva sul diritto dei suoi cittadini alla salute, che in questo modo gli viene negato. E pensare che ogni anno circa centomila cinesi arrivano dal continente a Taiwan per farsi curare sfruttando il sistema sanitario, di qualità e a buon mercato, che dal 1995 è garantito a tutti.