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La trappola della povertà da cui l’Italia non riesce a uscire

Uno dei supermercati solidali a Torino dove l’associazione non profit Terza settimana distribuisce prodotti alimentari, frutta e verdura, giugno 2017. (Daniele Ratti per Internazionale)

A Roma sono spuntati i poveri con la scopa e la paletta. Arrivano a un angolo di marciapiede, sistemano il loro zainetto vicino a un portone o a un albero e mettono in vista un piccolo bicchiere di carta per l’elemosina e un grande cartello scritto in stampatello che spiega: mi voglio integrare, mi rendo utile, pulisco la vostra strada. E infatti puliscono, fanno mucchietti di foglie secche, cicche e spazzatura, e poi, molto lentamente, li tolgono di mezzo. Sono comparsi tutti insieme e i loro cartelli sono tutti uguali, con un messaggio che non vuole impietosire ma convincere: io mi do da fare.

Senza saperlo, stanno seguendo il mantra europeo sulle politiche contro la povertà, la linea scelta da alcuni paesi negli anni ottanta e poi diventata ufficiale a livello comunitario, che si chiama “attivazione”: chiede a chi riceve risorse pubbliche di lavorare o fare formazione, oppure mostrare di volerlo fare, prove alla mano. Un principio che ha ispirato anche le social card e le altre forme sperimentali di aiuto ai più poveri che abbiamo avuto negli ultimi anni in Italia, e che connota già dal nome il reddito di inclusione attiva (Rei), finalmente introdotto dopo anni di attesa, al varo nel 2017.

L’Italia, pur essendo in testa in Europa sia per il rischio povertà sia per l’incremento che ha avuto negli anni della crisi, era rimasta l’unico paese dell’Unione a non avere una misura universale nazionale per contrastarla: adesso ce l’ha, anche se con pochi fondi.

Parliamo di un miliardo di euro per il 2017 e il 2018, ai quali vanno aggiunti i fondi inutilizzati degli anni precedenti, più un altro miliardo in sette anni per potenziare la rete de servizi. Poca cosa. Come ha ricordato l’ufficio parlamentare di bilancio, servirebbero dai 5 ai 7 miliardi all’anno per raggiungere tutte le famiglie sotto la soglia di povertà assoluta.

In ogni caso, non andranno ai poveri con la paletta, che sono quasi tutti immigrati appena arrivati; e potranno coprire solo una parte delle persone sotto la soglia della povertà assoluta. Lo riceveranno, se tutto va bene dal prossimo anno, 400mila famiglie, ancora una volta in forma di carta acquisti che arriverà a 485 euro al mese per le famiglie con cinque componenti o più.

Ma come arriva quest’aiuto, cosa ne fanno le famiglie una volta che lo ricevono, cos’è, di fatto, la mitica “attivazione” dei poveri? Capire come e se funzionerà è importante perché l’idea che lo ispira è anche una delle idee alla base del “reddito di cittadinanza” proposto da alcune forze politiche italiane, e per farlo è bene raccontare com’è andata in passato, districarsi nel magma degli aiuti che l’arcigno stato italiano ha finora concesso, in via provvisoria, sperimentale, spesso pasticciata e sempre con il contagocce. Contagocce elettronico, nel caso delle carta acquisti.

Com’è andata con le social card?
Si può partire da Falchera a Torino. Lo storico quartiere popolare nella periferia nord è uno di quelli dove molte persone hanno richiesto la Carta sociale sperimentale, introdotta nel 2012-2013 e limitata a dodici grandi comuni (poi estesa al livello nazionale con il Sostegno di inclusione attiva, Sia, a sua volta progenitore del Rei). I ricercatori dell’università di Torino hanno raccolto le storie di alcuni di loro.

Mario, per esempio, ha 36 anni e vive qui con la moglie e un bambino di tre anni e a suo tempo aveva dimostrato di avere tutti i requisiti per ottenerla: il bisogno economico, un figlio piccolo e la prova di aver perso un lavoro regolare(se il lavoro era in nero, niente sussidio). A causa della crisi, da qualche anno è disoccupato, ma per fortuna il titolare del cantiere i contributi glieli pagava. Così ha potuto ottenere la carta, che però, dice, “ha molte limitazioni e ti senti anche un po’ inferiore (e ti fa sentire un po’ inferiore)”.

Mario preferirebbe un sussidio in denaro, come quello che dava il comune. Il disagio nell’uso della carta è una critica che ricorre nelle testimonianze raccolte dai ricercatori dell’università di Torino che, in collaborazione con il comune, ha steso un rapporto dettagliato sulla sperimentazione.

Il modulo per fare la spesa al supermercato solidale gestito dall’associazione Terza settimana a Torino, giugno 2017.

Nel capoluogo piemontese sono state distribuite 951 carte, impiegando tutti i fondi stanziati: risultato non scontato, dato che non è stato raggiunto in altri grandi comuni dove certo i poveri non mancano, come Napoli e Bari (ma raggiunto anche in Sicilia e, sia pure con un ritardo clamoroso di due-tre anni, a Roma).

Molti di quelli che l’hanno ricevuta sono d’accordo con Mario: troppe limitazioni, troppe complicazioni. “Per questa carta puoi telefonare a chi vuoi, pure a Gesù, e nessuno ti sa dire niente”, dice Giovanna. Suo marito, panettiere e pizzaiolo, è rimasto senza lavoro, ha due figli di cui una, la più piccola, è asmatica. Ogni mese ha difficoltà con l’affitto, ma la carta non si può usare per pagarlo, serve solo per la spesa e le bollette.

In realtà, cosa esattamente ci si possa comprare alla fine lo sanno bene solo i cassieri del supermercato, quando la strisciano e danno il loro verdetto. “Non sai mai quando te l’accreditano né se te l’accreditano. Dipende da cosa compri, ma non è chiaro!”, dice Giovanna. Anche Miriam, 40 anni, con due figlie e con un marito senza lavoro, zona Vallette, ha difficoltà simili: “Dipende se incontri la commessa pignola… a me è capitato con il materassino del lettino da campeggio, non voleva farmelo passare. Io ho detto: guardi che ho una figlia piccola, di un anno, è una cosa indispensabile!”. Miriam mette il dito in una delle piaghe delle politiche contro la povertà: cosa serve ai poveri? E soprattutto: chi lo decide?

Alla base degli aiuti c’è l’idea che i poveri non sono responsabili e spendono i soldi in vizi o cose inutili

Le risposte di buon senso a volte non aiutano. Come quella più ovvia: vengono prima i bisogni primari, quelli alimentari? “Una signora a casa sua ha aperto gli sportelli e ci ha fatto vedere la dispensa: era piena di pacchi di pasta e pomodoro. Non è strano, spesso ci sono banchi alimentari o parrocchie a distribuire cibo. I soldi servono più per non saltare la rata dell’affitto, cosa davvero pesante per molti”, dice Antonella Meo, sociologa dell’università di Torino e coordinatrice, con Sandro Busso, del rapporto torinese. Meo vede nelle limitazioni della carta prepagata uno dei punti da correggere: a suo avviso va alleggerito il più possibile dal peso della burocrazia, ma anche dalle pretese moraliste su “cosa devono fare i poveri”.

Un esempio: i poveri possono permettersi il lusso di un animale domestico? No, e infatti con la social card non si possono comprare crocchette per i cani. Né si possono acquistare libri, telefoni, tablet, computer. “Io vorrei tanto prenderne uno per mia figlia, va a scuola e le serve”, dice Dario, un ex operaio con un’invalidità del 50 per cento causata da un incidente in fonderia, con tre figli a carico e una moglie che lavora saltuariamente e in nero. Birra e altri alcolici non sono consentiti.

Il tutto pare ispirato da un’idea antica: i poveri sono incapaci di provvedere a se stessi, e se non li si guida spendono i soldi in vizi o cose inutili. Teoria che finisce per affidarsi, per la sua realizzazione pratica, al caso o alla discrezionalità di una commessa. “Vado nello stesso supermercato dove andavo prima di ricevere la carta”, racconta Rossella, 40 anni, tre figli e marito disoccupato, “e la cassiera mi fa: la social serve solo per le cose primarie”. E Rossella si è dispiaciuta “proprio per come lo ha detto, perché poi ti guardano dall’alto in basso…”.

Dove sono finiti i poveri?
Quell’impressione del “ti guardano dall’alto in basso” ricorre, se si viaggia nel complicato labirinto delle politiche della povertà in Italia. E ricorre la paura dello stigma legato all’ingresso nei programmi per i poveri. Timore che secondo Raffaele Tangorra, direttore generale per l’inclusione e le politiche sociali al ministero del lavoro, spiega in parte l’assurdo per cui spesso sono arrivate meno richieste del previsto per accedere agli aiuti, e addirittura non sono stati spesi i fondi. È successo in otto delle dodici città con più di 250mila abitanti dove è stata sperimentata la social card: solo Torino, Catania, Palermo e Roma hanno impiegato tutto il budget. Siccome i fondi erano pochi, bisognava mettere tanti paletti, e alla fine queste limitazioni hanno pesato.

Basti pensare che con i 50 milioni allora stanziati al massimo si poteva arrivare a diecimila famiglie, mentre quelle con Isee sotto i tremila euro, nelle stesse città, erano 350mila. Quindi per evitare l’assalto delle domande sono stati introdotti criteri come la presenza di almeno un figlio minorenne e soprattutto l’aver perso il lavoro nei tre anni precedenti, un lavoro regolare, testimoniato dal pagamento di contributi. Così, molti sono rimasti fuori. “Non ha aiutato il fatto che il grosso dei programmi è stato lanciato in estate, con scuole e molti servizi chiusi; e soprattutto va detto che non era pronto il sistema informatico”, spiega Tangorra.

Lo stesso paradosso si è ripresentato anche nel 2016 per il Sostegno di inclusione attiva: meno di 60mila domande accolte su 208mila presentate, mentre le famiglie che in teoria avevano i requisiti per fare richiesta erano almeno 600mila (a loro volta meno della metà delle famiglie in povertà assoluta, che nel 2015 erano più di un milione e mezzo). Se ne è lamentato Tito Boeri in un’audizione al senato.

Un paradosso. Mentre l’Europa metteva all’indice l’Italia per la mancanza di una misura universale di sostegno alla popolazione più povera, agli sportelli per accedere alle misure già esistenti i poveri non si presentavano. Come mai? Boeri incolpa l’eccessiva burocratizzazione, la rigidità dei criteri di accesso, le difficoltà dei piani di reinserimento e critica la mancata semplificazione della miriade di misure presenti.

Molti operatori che hanno avuto a che fare con l’introduzione delle varie card mettono in luce, tra i tanti ritardi, anche quelli degli uffici periferici dell’Inps di Boeri. Mentre dal ministero, Tangorra invita ad aspettare i numeri del 2017: già ad aprile, dice, siamo saliti a 80mila domande per il Sia. Sta di fatto che finora molti hanno deciso di non giocare alla lotteria del reddito di povertà. Perché? Sarà vero che in Italia i poveri non esistono e i ristoranti sono pieni?

I numeri dell’Istat e di tutte le indagini sociali ci dicono di no (e qui non conta la fallacia delle dichiarazioni dei redditi, dato che si tratta di indagini sul campo); così come ce lo dicono le file alle mense Caritas, all’assistenza sanitaria solidale, ai banchi alimentari. Dal suo osservatorio Tangorra fa notare che c’è un rischio di stigma sociale che molto spesso le famiglie non vogliono correre, tanto più se ci sono minorenni al loro interno; hanno il timore di “mettersi sotto il controllo” dei servizi.

Hanno timore anche di una cassiera che passa la carta e rimanda indietro quel che hai comprato, magari bloccando la fila? “C’è stato qualche problema, ma non esagererei: in sé è una carta come un’altra, come una carta di credito o una Postepay”.

Proprio le Poste l’hanno fornita e la gestiscono per il ministero dell’economia e delle politiche sociali. Chiediamo se c’è un bilancio delle spese fatte dai poveri con la carta acquisti: si tratterebbe di dati di enorme interesse, per capire quali sono stati i bisogni soddisfatti, dove e come, e dunque anche per orientare il futuro.

Ma l’elaborazione di questi dati non c’è e dunque è difficile dare indicazioni per il futuro. Per di più, i poveri che dovevano essere “presi in carico” e “monitorati” a un certo punto in molti comuni sono spariti dai radar.

Com’è andata con l’attivazione?
Se non sappiamo che uso è stato fatto delle social card e quanto hanno aiutato chi le ha ricevute, ancor meno conosciamo i risultati della cosiddetta attivazione. Cioè, quanti poveri sono stati aiutati anche a entrare, o a rientrare, nel mercato del lavoro. Quest’idea ispira anche le proposte italiane di “reddito di cittadinanza” (a partire da quella del M5s); e, sia pure in termini assai generali, è stata benedetta a Genova dal papa (“Lavoro, non reddito”).

Fiorenza Deriu, ricercatrice nel campo delle statistiche sociali alla Sapienza ha seguito l’esperienza romana, particolarmente difficile per un ritardo pazzesco accumulato in partenza, a causa delle giunte che cadevano, e alla tempesta di Mafia capitale che ha colpito le amministrazioni ma anche il mondo dei servizi sociali nella capitale.

I prodotti distribuiti alle famiglie con la social card in una delle sedi dell’associazione Terza settimana, Torino, giugno 2017.

Alla fine, Roma ha usato tutti i soldi stanziati, coinvolgendo circa 2.500 famiglie, concentrate in particolare nel quartiere periferico di Tor Bella Monaca, da dove sono arrivate un quarto delle domande di tutta la città. Sapere quante sono state davvero seguite dai servizi e quante abbiano cominciato il percorso d’attivazione è ancora impossibile.

Una cosa è certa, secondo Deriu: “Se si vuole far funzionare davvero l’attivazione e non lasciarla come pura retorica, bisogna tener conto dei singoli individui, i progetti devono essere personalizzati. Dunque il lavoro per i servizi sociali è enorme”. Gli stessi servizi che spesso non riuscivano neanche a informare bene sulle domande, a selezionarle in partenza (evitando l’altissima percentuale di quelle non accolte per mancanza di requisiti), a raggiungere chi davvero aveva bisogno.

Torniamo a Torino. Come dice Antonella Meo, “la città ha preso la sperimentazione sul serio”, cofinanziando il programma con l’aiuto del terzo settore: 900 le famiglie raggiunte, per la metà inserite in progetti di “inclusione attiva”. La torinese Barbara Graglia, che ha seguito la sperimentazione dagli uffici del comune, ricorre a una battuta in veneto: “Diciamo la verità: essere poveri è una fatica dell’ostrega”.

I progetti spesso hanno rivelato un lato pedagogico e moralistico

Questi soldi hanno finanziato un piano di lavori accessori nelle associazioni non profit, pagati con i voucher per un massimo di tremila euro in un anno lavorativo all’anno, soldi che andavano ad aggiungersi alla carta acquisti. “Gli esiti sono stati significativi, la metà delle persone è poi rientrata nel mercato del lavoro”, dice Graglia.

Cos’è allora la “fatica dell’ostrega” di cui parla? Domande, questionari in ingresso, questionari in itinere, questionari in uscita, valutazione finale; una carta acquisti non utilizzabile per le esigenze più pressanti, come pagare l’affitto; e la disponibilità a essere pronti, reperibili, per rispondere e per lavorare o partecipare a corsi di formazione non sempre utili. Una macchina dei poveri, spesso con esiti paradossali. “Che senso ha per un disoccupato seguire un corso su come gestire il bilancio familiare? Lui il bilancio lo sapeva gestire, solo che non ce l’ha più…”, osserva Deriu raccontando di corsi di formazione che hanno sollevato molte perplessità tra i beneficiari.

Critica anche Antonella Meo. I progetti spesso hanno rivelato un lato pedagogico e moralistico, in alcuni casi infantilizzante per persone che già nella vita hanno imparato a cavarsela e sul mercato del lavoro, regolare e nero, ci stanno già. C’è una retorica dell’attivazione, e poi ci sono le esigenze delle singole persone, che sono diverse: ci sono famiglie già attive, ma che tuttavia restano povere; persone “non attivabili”, per la presenza di altri problemi e disabilità; donne che avevano in carico anche tutto il lavoro di cura…”.

Una donna riceve la frutta e la verdura da una volontaria dell’associazione Terza settimana, Torino, giugno 2017.

Per l’avvio del Rei saranno usati fondi comunitari: un miliardo in sette anni dal Programma operativo nazionale . Non è che saranno usati ancora una volta per un’attivazione fittizia, invece di darli direttamente a chi ne ha bisogno? Qual è il giusto rapporto tra i fondi che diamo all’assistenza e quelli spesi per la burocrazia dell’assistenza?

“Il rapporto giusto è il 15 per cento”, afferma Stefano Sacchi, presidente dell’Inapp, l’istituto che ha preso l’eredità dell’Isfol nella valutazione delle politiche pubbliche. Una proporzione individuata dall’Alleanza contro la povertà proponeva di stanziare sette miliardi all’anno, di cui uno per i servizi che dovrebbero gestire il programma, prendere in carico le famiglie, accompagnarle nel tentativo di rendersi autosufficienti.

Accompagnarle verso dove? Sacchi è netto: “Sarebbe sbagliato aspettarsi ampie percentuali di passaggio al lavoro”. Nei paesi dove questi schemi funzionano da più tempo e meglio – i soliti nordico-scandinavi – solo il 20-25 per cento delle persone che sono in grado di lavorare si trova, a fine programma, a essere occupato. Ma pur senza aspettarsi troppo, l’attivazione è essenziale, secondo Sacchi: prima di tutto, dice, perché se non ci fossero questi programmi finirebbero per non avere consenso sociale, sarebbero rifiutati. Inoltre, perché l’attivazione “aiuta a vedere questa condizione come temporanea, non un sussidio permanente”.

Se lo spettro del passato che molti evocano è lo spettro dei lavori socialmente utili, quello del presente è invece l’inferno burocratico descritto da Ken Loach nel suo Io, Daniel Blake, versione cinematografica spietata delle politiche di attivazione dopo la cura Thatcher-Blair.

Quanto il mondo raccontato da Loach spaventa o offende i policy-maker della povertà? Torniamo nella romana via Fornovo, al ministero del lavoro: “Mi è piaciuto quel film, perché mi piace tutto di Loach e mi piace che il cinema si occupi di queste cose”, dice Raffaele Tangorra. Che è convinto che la politica di “attivazione” non deve essere quella raccontata nel film, e cioè una contropartita costosa e spesso assurda a una piccola elemosina. “A volte dimentichiamo che la povertà non è una causa ma un effetto, il tema non è solo quello del lavoro: c’è una fetta di società che per tanti motivi, tra i quali la mancanza di lavoro, ha bisogno di aiuto, i servizi sociali devono occuparsene, non possiamo pensare di risolvere il problema solo con un reddito”.

Le politiche dell’attivazione sono in via di ripensamento anche in altri paesi. Nei Paesi Bassi, per esempio, cinque città sperimenteranno il sussidio di disoccupazione incondizionato. Vale a dire un aiuto che non obbliga ad avere tutti i requisiti previsti dalla legge per rientrare nel mondo del lavoro. L’idea chiave è la fiducia: se diamo fiducia alle persone che ricevono l’aiuto, forse sceglieranno meglio il modo per formarsi e cercare lavoro. Per ora, si parte con un campione sperimentale a Groningen, Ten Boer, Wageningen, Tilburg e Deventer. Ma anche Amsterdam e Utrecht sono interessate alla novità.

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