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La liberazione di Mosul è vicina ma il suo futuro resta incerto

All’interno della base militare del Freedom party of Kurdistan (Pak) dislocata sulle montagne di Kirkuk, nel Kurdistan iracheno, luglio del 2016. (Arianna Pagani)

Nel campo di Debaga, nel Kurdistan iracheno, a circa quaranta chilometri da Mosul, le ruspe lavorano senza sosta. L’immenso agglomerato di container ospita già quasi trentamila sfollati ma il terreno va spianato per fare posto ad altre ventimila persone che stanno abbandonando le loro case.

Da due settimane ogni giorno arrivano nel campo tra le mille e le duemila persone. Viaggiano a bordo di piccoli van e pick-up, in fuga dai villaggi alle porte di Mosul, città che ospitava due milioni di civili prima della conquista da parte dell’autoproclamato Stato islamico (Is) il 10 giugno 2014. Una volta giunte al campo le persone sono divise in gruppi, uomini da una parte, donne e bambini dall’altra. Si dispongono in fila prima di entrare nella zona recintata con il filo spinato dove superano i controlli di sicurezza delle forze peshmerga – i soldati della regione autonoma del Kurdistan iracheno – e inaccessibile ai giornalisti. Si teme che tra le persone in fuga si possano nascondere anche affiliati all’Is.

Simbolo dell’avanzata dei jihadisti

In un edificio adiacente al campo, Howere Ihsan Sadiq, direttore della Croce rossa di Erbil, risponde senza sosta alle telefonate. Ha due cellulari in una mano e il sigaro nell’altra. “Se registriamo tutti questi arrivi, significa che lo Stato islamico non ha più lo stesso controllo del territorio”, afferma Sadiq, responsabile della sezione che gestisce il campo più grande del Kurdistan iracheno. Sotto il cielo occupato dalla coalizione internazionale, i combattimenti tra i peshmerga, le forze di sicurezza di Baghdad, le milizie e l’Is si sono intensificati in vista dell’offensiva finale, quella che dovrebbe aprire la strada alla liberazione di Mosul.

Alla fine di luglio anche la Croce rossa internazionale ha lanciato un allarme: il rischio è che più di un milione di persone in fuga da Mosul si ritrovi sfollato. “I numeri potrebbero essere molto più alti perché tutto dipenderà da come si svolgeranno le operazioni di liberazione”, spiega Miriam Ambrosini, capo progetto di Terres des hommes dal suo ufficio di Erbil.

Una volta sconfitto il nemico comune quale sarà il futuro di Mosul?

Mosul non è una città qualsiasi. È il simbolo dell’avanzata del gruppo Stato islamico nel 2014 e della disfatta dell’esercito iracheno: per questo la sua liberazione assume un valore particolare nel quadro della guerra all’Is in Iraq. La conquista realizzata dal califfato non è stata solo una vittoria militare ma un evento mediatico. È dalla moschea Hadbaa di Mosul che il leader dell’Is Abu Bakr al Baghdadi ha proclamato l’instaurazione dello Stato islamico nei territori conquistati in Siria e in Iraq e, sempre da Mosul, il califfato ha portato all’estremo la sua guerra psicologica, spettacolarizzando a livello internazionale la repressione delle minoranze.

Mosul è anche la città da dove l’esercito iracheno, nel giugno del 2014, si è ritirato abbandonando la popolazione civile inerme e dove molti soldati disarmati sono stati uccisi dal gruppo estremista, fomentando la divisione settaria e la mobilitazione delle milizie sciite.

La sua liberazione è simbolica perché rappresenterebbe un duro colpo militare all’Is e alla sua immagine, ma servirebbe anche alla coalizione internazionale per verificare la capacità degli iracheni di gestire il paese dopo la fine della guerra. “Il problema di Mosul non è militare. Le forze per liberarla ci sono. Il problema è politico. Chi la governerà dopo?”, domanda Marwan Ahmad, comandante peshmerga a Rabiah, alle porte del monte Sinjar.

Rabia, Kurdistan iracheno. I militari controllano lo scheletro dell’ex ospedale del villaggio, nel luglio del 2016.

Il pericolo di un circolo vizioso

Rabiah, città di frontiera situata lungo la strada che conduce a Mosul, è stata liberata alla fine del 2014, ma ancora oggi resta isolata e si presenta come un cumulo di detriti. A contendersela sono i peshmerga, la storica tribù araba shammar, recentemente inglobata in una divisione delle forze armate della regione autonoma irachena, e il Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, fondato alla fine degli anni settanta, anch’esso presente in quest’area e nel Sinjar.

In una stanza della caserma dei peshmerga sono appese alle pareti due gigantografie di Masoud Barzani, presidente del Kurdistan iracheno. Seduto alla sua scrivania, il comandante peshmerga Ahmad spiega quali sono gli equilibri tra le diverse fazioni politiche dopo la liberazione di Rabiah.

“Noi non abbiamo nessun problema ma non accettiamo che qualcuno venga a imporre la propria legge”, spiega Ahmad nel timore che il Pkk voglia imporre il suo governo sulla città, alimentando divisioni interne ai curdi. La sicurezza in città è garantita dai peshmerga, che rilasciano un permesso speciale agli abitanti, in maggioranza sunniti. Ma ad alcune famiglie è stato negato di ritornare a casa, con l’accusa di aver favorito i jihadisti.

Contrasti e dinamiche simili nella gestione del potere e nel controllo del territorio da parte di milizie, partiti o tribù sono presenti in quasi tutte le città liberate. Tra queste Fallujah, dove le milizie sciite Al Hashd al Shaabi (Forze di mobilitazione popolare) hanno esercitato non poca violenza contro i civili sunniti. Centinaia sono stati gli uomini torturati e decapitati: il timore è che lo stesso si ripeta anche a Mosul.

Una volta sconfitto il nemico comune quale sarà il futuro di Mosul? Nell’ultimo anno in Iraq sono state riconquistate città e aree molto importanti come Fallujah, Tikrit, Ramadi, Sinjar. Ma quante persone sono tornate a casa? E soprattutto chi ha ripreso il controllo di quei territori?

Minoranze senza tutele

A Mosul, la maggior parte delle minoranze – assiri, caldei, ezidi, turcomanni, shabak – hanno abbandonato la città e ritorneranno solo se si sentiranno sicure e protette. Ma il problema non è solo loro: è anche di chi è rimasto intrappolato e assediato, ormai da due anni, all’interno della roccaforte dell’Is.

Come spiega Mohammed Al Musalli (nome di fantasia), attivista e fondatore di Algham fm, la prima radio che trasmette all’interno di Mosul attraverso delle antenne installate clandestinamente sul fronte: “Le persone devono tornare a fidarsi. Ho molti amici cristiani che si sono rifiutati di andare in Europa perché credono di appartenere a questa terra e sono fiducioso che ritorneranno, ma anche la comunità sunnita deve essere tutelata”.

La responsabilità spetta in primo luogo al governo centrale di Baghdad e al suo esercito. Le istituzioni però, sostiene l’attivista, non godono della fiducia di molti cittadini “perché li hanno abbandonati nelle mani dello Stato islamico e non li hanno protetti”. E senza fiducia rischia di mancare anche il sostegno dei civili durante la liberazione.

Il futuro di Mosul, dunque, potrebbe essere ancora incerto dopo lo Stato islamico, e molto dipenderà proprio da chi sarà in campo durante la battaglia finale e se in quell’occasione saranno protetti i civili. “Se la liberazione la condurranno milizie sciite o truppe che eserciteranno violenza settaria i conflitti riemergeranno dopo un mese o due, innescando un conflitto senza fine”, prevede Al Musalli.

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